God Save The Brexit
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Lorenzo Vita)
Il voto in Gran Bretagna non è affatto uno schiaffo alla Brexit: i voti di chi l’anno scorso ha optato per l’uscita dall’UE, sono stati divisi tra il Partito Conservatore ed il Partito Laburista di Corbyn, con quest’ultimo capace di tornare a parlare nuovamente alle classi meno abbienti
heresa May aveva proclamato le elezioni anticipate a metà aprile con un unico obiettivo: fare incetta di voti, sfruttando il crollo dei laburisti, e arrivare ai negoziati sulla Brexit con una solida maggioranza. Missione compiuta? Tutt’altro. Con il voto di ieri, Theresa May si ritrova con meno seggi in Parlamento di quelli che aveva in precedenza, mentre i Laburisti, ritenuti in declino, hanno aumentato i loro consensi e il loro numero di parlamentari.
Una sconfitta per Theresa May. Inevitabile definirla tale. Lo aveva detto lei stessa in una dichiarazione alla stampa, che se avesse perso soltanto sei seggi, sarebbe stata una sconfitta. Ne ha persi dodici, e quindi, di fatto, per i conservatori è una sconfitta. E la domanda che oggi tutti si pongono è non tanto su quanto Brexit abbia influito su questa tornata elettorale, ma quanto le elezioni influiranno sulla Brexit. Ebbene, chi pensa che l’uscita del Regno Unito sia in pericolo e che queste elezioni siano una sorta di controreferendum rispetto a quello di giugno 2016, si sbaglia. In realtà, queste elezioni, pur dando un colpo duro a chi si è reso protagonista della “hard Brexit”, hanno sancito che il fronte della Brexitland esiste, è forte e soprattutto è trasversale.
I voti per la Brexit venivano dalle classi meno abbienti dell’Inghilterra profonda, del Galles e dagli unionisti nordirlandesi. I conservatori votarono in buona parte per l’uscita dall’UE, l’Ukip votò in massa per l’uscita, in quanto promotore, e molti voti della working class furono per fuggire da Bruxelles nonostante la loro appartenenza alla sinistra britannica. Quei voti non sono andati dispersi, né sono stati rivoluzionati. Al contrario, semmai è evidente che la Brexit è viva nel cuore dell’elettorato britannico, pur non riconoscendosi per forza nel voto conservatore. E questo è evidente da due fatti: il primo è che i voti dell’UKIP si sono dissolti nel Partito Conservatore, il secondo, ben più importante, è che in realtà Corbyn è quanto più distante dal liberalismo/liberismo europeista della sinistra democratica europea continentale.
Il programma di Corbyn è un programma che ha toccato le corde del cuore di chi ha votato per l’uscita dall’Unione Europea, e molti “brexiters” hanno sostenuto il programma sociale e sovranista del signor Corbyn. Nazionalizzazione delle infrastrutture energetiche, delle reti ferroviarie, rispetto del voto popolare sull’uscita dell’Unione Europea, lotta all’alta finanza e apertura verso le classi operaie e verso i diritti dei lavoratori britannici: con questi obiettivi, il voto a Corbyn non è un voto dato a Bruxelles. E sbaglia chi ritiene che ora il Regno Unito invetrirà la marcia rispetto a Brexit. In realtà, semplicemente, questo voto dimostra come l’equazione “Brexit = Conservative” sia una sciocchezza cui si sono aggrappati tutti i media mainstream e i cari opinion leader di una certa sinistra benpensante. Al contrario, il voto operaio, ad esempio del Nord dell’Inghilterra, che aveva votato convintamente per uscire dall’Unione Europea, oggi si è riposizionato sul tradizionale voto a favore del Partito Laburista perché più in grado di raccogliere il sentimento di disagio economico e sociale delle vittime primarie della globalizzazione.
Il messaggio di queste elezioni britanniche, più che a rinnegare la Brexit, è sostanzialmente volto a confermare il disagio di una certa fetta di popolazione nei confronti del liberismo. Da una parte, il voto a favore della Brexit, che ha rappresentato uno strappo alla narrativa liberista ed europeista del nostro secolo, non si è dilapidato. Chi ha votato per Theresa May e il Partito Conservatore, ha, di fatto, sposato la linea proposta dalla Premier durante le prime fasi del negoziato. Una linea dura, a tratti di scontro, in cui erano volate parole molto forti tra Downing Street e i leader europei come Jean-Claude Juncker, Donald Tusk e Angela Merkel. Dall’altro lato, il voto di protesta verso una certa visione del mondo dichiaratamente favorevole alla finanza, alla distruzione del sistema sociale e alla fine dell’intervento dello Stato in economia, è naufragato sotto i colpi della cavalcata di Corbyn, che ha rimesso al centro del suo manifesto temi cari proprio ai cosiddetti populisti.
Il merito di Jeremy Corbyn e di Theresa May, in questo senso, è quello di avere, a tutti i costi, confermato una propria linea dura d’interpretazione della volontà della base elettorale. Non si sono scelti i compromessi. Theresa May voleva un governo forte per una Brexit seria e il più possibile favorevole al Regno Unito. Jeremy Corbyn, dal canto suo, voleva rimettere i lavoratori, i poveri e gli operai al centro del dibattito della sinistra inglese, disinnescando il meccanismo liberista e liberale che ormai ha invaso completamente la sinistra europea e di cui solo Mélenchon è apparso come un valido antidoto. La vittoria relativa di Theresa May e la “reconquista” elettorale dei laburisti di Jeremy Corbyn insegnano un’altra cosa rispetto al messaggio propugnato dal mainstream: il Regno Unito è molto più sovranista oggi di quanto lo fosse l’anno scorso. Per essere sovranisti, non bisogna per forza definirsi euroscettici tout-court, ma contano i programmi. Uscire dall’Unione Europea è una declinazione di questo sovranismo. Un’altra è promuovere politiche sociali, intervento dello Stato, nazionalizzazioni e limitare la finanza escludendola dal governo dei popoli. Sotto questo profilo, i due partiti più forti del Regno Unito dimostrano che il rispetto della sovranità non è appannaggio di nessuno, così come il rispetto delle decisioni popolari.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/esteri-3/god-save-the-brexit/
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