Sovranità e alleanze. Un falso problema e molte false flags.
di LUCIANO BARRA CARACCIOLO
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento di Bazaar e Francesco Maimone sul tema, molto attuale, dell’esigenza e delle condizioni di un’alleanza di tutte le forze, espresse dalla società italiana, che comunque si riconoscono nella rivendicazione della “questione nazionale”: cioè della sovranità, in assenza della quale, si è irreversibilmente in balia di un potere sovranazionale che non può che avere caratteri imperialisti. Il che vuol dire relegare il popolo italiano (art.1 Cost.) nella condizione di “nazione oppressa”. La sovranità, cioè il potere di autodecisione delle nazioni, è indisgiungibile dalla democrazia. Ogni (ri)conquista della sovranità in senso democratico, perciò è un passo verso la democrazia.
Rimane in buona parte fuori dall’analisi, peraltro, il tema scabroso se vi sia un “piccolo capitale”, contrapposto, in modo contingente, al “grande capitale”, che abbia un interesse, temporaneo e strumentale, alla “questione nazionale”, ma che rimanga portatore di un obiettivo materiale, irresistibile, a ripristinare forme di autoritarismo antitetiche al fondamento lavoristico della nostra Costituzione.
Questo, in realtà, (se correttamente assunto sotto il punto di vista fenomenologico) è un falso problema: i ceti produttivi “minori” sono tra le prime vittime dell’imperialismo capitalista condotto dalle oligarchie dei paesi dominanti.
Di questo aspetto, nel blog, ne abbiamo già discusso, evidenziando come sia stata proprio la “mobilità sociale” (certo parziale e contrastata) consentita dal nostro modello costituzionale (che è orientato alla redistribuzione ex ante, promossa dall’intervento attivo dello Stato pluriclasse costituzionale), e dalla prevalenza del modello keynesiano nel “trentennio d’oro”, a consentire la trasformazione delle classi operaia e degli artigiani in imprenditori e lavoratori autonomi di carattere professionale.
Oggi, più che mai, il lavoro dipendente e questi “figli” dell’emancipazione sociale connessa ad un certo grado di democrazia sostanziale, – anzitutto economica e, perciò, politica-, sono “sulla stessa barca”. E di fronte a una “sfida finale” per la propria sopravvivenza come individui dotati di dignità sociale.
L’alleanza, dunque, risulterebbe inevitabile: il problema sarà vedere se essa sarà anche “tempestiva”, cioè in grado di salvare quel che “resta del giorno” prima della notte definitiva della Repubblica fondata sul lavoro (e che da ciò reclama la sua sovranità).
ADDENDUM: su questo punto introduttivo, ci pare coerente, rispetto alla trattazione del post, ribadire quanto lo stesso Lelio Basso aveva poi chiarito nel 1962 (qui, p.2), tirando le fila dell’evoluzione socio-economica occidentale (proprio alla luce della incombente “costruzione europea”):
“…oggi il settore monopolistico (usiamo questa espressione nel senso che essa ha oggi assunto nella polemica politica e non in senso rigorosamente tecnico–economico che suggerirebbe piuttosto l’espressione di ‘oligopolio concentrato’) non soltanto si appropria del plusvalore prodotto dai suoi operai, ma, grazie al suo forte potere di mercato, che gli permette d’imporre i prezzi sia dei prodotti che vende che di quelli che compra, riesce ad appropriarsi almeno di una parte del plusvalore prodotto in tutti gli altri settori non monopolistici: sia in quello agricolo, sia in quello del piccolo produttore indipendente, sia anche in quello delle aziende capitalistiche non monopolistiche, dove il tasso di profitto è minore e spesso, di conseguenza, anche i salari degli operai sono più bassi proprio per il peso che il settore monopolistico esercita sul mercato.
Ridurre quindi, nella presente situazione, la lotta di classe al rapporto interno di fabbrica, proprio mentre la caratteristica della fase attuale del capitalismo è la creazione di questi complessi meccanismi che permettono di esercitare lo sfruttamento in una sfera molto più vasta, anche senza il vincolo formale del rapporto di lavoro, è perlomeno curioso…
Una seconda tendenza destinata ad accentuarsi sempre più in avvenire è quella relativa all’interpenetrazione di potere economico e potere politico, cioè, praticamente, all’orientamento di tutta la politica statale ai fini voluti dal potere monopolistico…”
PROLEGOMENI A COSCIENZA, AUTOCOSCIENZA E LOTTA
(ovvero spunti teorici sulla tattica nelle alleanze per il recupero della sovranità democratica-costituzionale)
«Nessuno è colpevole di essere nato schiavo. Ma lo schiavo al quale non solo sono estranee le aspirazioni alla libertà, ma che giustifica e dipinge a colori rosei la sua schiavitù, un tale schiavo è un lacchè e un bruto che desta un senso legittimo di sdegno, di disgusto e ripugnanza»
Lenin, Sull’orgoglio nazionale dei Grandi Russi, 12 Dicembre 1914
Introduzione
Le presenti note intendono costituire una riflessione che scaturisce dal confronto sul tema del sostegno o meno a nuove o vecchie formazioni politiche nella lotta volta alla riappropriazione della sovranità e, in generale, sul tema delle “alleanze”.
Approfittiamo di questo spazio di discussione, quindi, per sviluppare alcuni ragionamenti i quali, più che rilanciare la dialettica “nel merito” ed in concreto, rispetto al supporto di eventuali alleanze che si rifanno alla tradizione della destra politica o meno, per provare – a beneficio di un tentativo di (ri)fondare il pensiero critico – a fornire spunti teorici generali sul metodo.
In particolare sul metodo d’analisi dell’unico grande laboratorio per l’indagine critica della totalità in possesso dei ceti subalterni: ossia sul metodo d’analisi marxiano, ragionando dei risvolti politici e morali di chi si prende la responsabilità materiale di dibattere su temi fondanti la vita sociale.
Queste non vogliono essere considerazioni rivolte esclusivamente a coloro che si rifanno al marxismo, ma a tutti coloro ai quali sta a cuore la democrazia costituzionale.
1 – Coscienza, autocoscienza e lotta: il rischio di paralogismi ed aporie nell’analisi affetta da precomprensione ideologica. L’ideologia come falsa coscienza
In un articolo precente veniva evidenziato come storicamente il grande pensiero di scuola marxiana abbia individuato l’oppressione fascista come un prodotto sovrastrutturato di peculiari fenomeni congiunturali e – come da pacifica sociologia marxiana – di particolari tensioni di carattere strutturale che, nell’attuale frangente, vediamo già all’opera.
Gran parte dell’attuale sinistra militante, tuttavia, ritiene che partiti come il FN o la Lega Nord siano una sorta di “portatori sani di fascismo”, dove il “fascismo” sarebbe, in breve, ma senza troppo allontanarsi dal pensiero “mediano”, una manifestazione di politica oppressiva avente le “sembianze” del fenomeno storico.
In particolare, secondo tali comuni ricostruzioni, si potrebbe pensare che a caratterizzare il “fascista”, il “leghista”, il “razzista”, lo “xenofobo” (e via coi vari attributi sorosiani inventati dai vari think tank al servizio dell’imperialismo del capitalismo liberale) non sarebbe la struttura esponenziale di particolari ideologie come si riscontra nelle analisi dei grandi autori socialisti e democratici – ritenute anzi obsolete – ma sarebbe quasi un requisito di carattere morale, connaturato antropologicamente a determinati gruppi sociali; posizione, in sé, che – come abbiamo appena sottolineato – sarebbe in linea con la quasi totalità di chi oggi si ritiene “progressista” e si riconosce nella sinistra moderna, post-moderna, post-sessantottina, nicciana, post-ideologica e post… socialista? (non a caso appellata spesso e volentieri “buonista”).
Sinistra “moderna” che noi, infatti, riteniamo abbia acquisito il moralismo tipico del liberalismo piccolo borghese nel processo totalizzante di restaurazione neoliberale, compattando le forze di reazione, e proponendo una finta dialettica tra liberali “modernisti” (alla Soros, per intenderci…) e liberali “conservatori/tradizionalisti” (cattolici, “destra sociale”, ecc.).
Moralismo che, tra l’altro, riteniamo essere una forma di classismo visto che, come nel caso delle posizioni a prescindere “antileghiste”, viene sottintesa e stigmatizzata una qualche forma “d’ignoranza” del gruppo sociale – di subalterni!, che siano salariati o piccoli e medi imprenditori – la quale si riconosce nelle istanze di quel particolare partito politico.
A differenza di ciò che è stato fatto oggetto di critica nel post precedente, l’analisi sul fascismo che ivi è stata proposta non è «esplicitamente derivata dal pensiero di Lelio Basso»: semplicemente, il grande democratico e tra i massimi socialisti marxisti del XX secolo, insieme ad Antonio Gramsci, supporta filologicamente insieme a tanti altri influenti pensatori – anche di matrice reazionaria e neoliberale – la tesi proposta dall’origine in questi spazi di discussione: la nostra Carta è antifascista in quanto antiliberista, ovvero keynesiana E socialista (v. capoverso art.3 Cost.).
Date queste premesse prendiamo le mosse per sostenere che tutte le forze democratiche che si richiamino alla Costituzione e, in genere, le istanze politiche internazionali che si rifacciano al suo modello “archetipizzato” nonché agli strumenti di politica economica che ne rendono effettivi i Principi fondamentalissimi, sono – per il semplice fatto di portare nei propri programmi almeno parte di tali rivendicazioni – essenziali interlocutori.
Inoltre, sosteniamo che la difesa della sovranità sia il punto fondamentale – la linea del Piave – la Resistenza all’imperialismo europeista, alla “dottrina Monroe” del grande capitale atlantista, all’oppressione eversiva e collaborazionista del cosmopolitismo borghese e al federalismo neocoloniale propugnato dalle classi egemoni. In assenza di sovranità, risulta infatti inutile ogni altra disquisizione.
1.1 Metodo e dialettica: una riflessione ad ampio respiro
Esistono oramai generazioni intere radicate – consapevolmente o meno – nel «mito fondativo» del “Sessantotto” e impantanate nella sua ideologia totalitaristicamente liberale dove lo slogan «vietato vietare» diviene il simbolo della distruzione di quelle norme etiche che regolano la convivenza sociale, che permettono la sindacalizzazione dei ceti subalterni e, in definitiva, lo sviluppo di coscienza di classe. Quella coscienza a cui è propedeutica la coscienza nazionale.
Il relativismo dell’opinione è lo strumento principe per l’atomizzazione delle masse lavoratrici e per la conseguente tirannia dei valori del più forte: ovvero quella del capitale industriale e finanziario che tutto mercifica e monopolisticamente prezza.
Il socialismo storico ricordava che i valori di libertà, uguaglianza e fraternità dei liberali rimanevano relativi (formali) fintanto che non fossero posti sulla sostanza materiale – “derelativizzante” – della giustizia economica e sociale. Della giustizia distributiva.
L’idealismo elitario dietro a questi proclami enfatici tipicamente borghesi doveva, per i socialisti, essere abbattuto portando questi concetti ideali e meramente formali sul piano materiale, empirico, in cui i fenomeni si sarebbero dovuti manifestare come emancipazione dalla miseria e dallo sfruttamento. Progresso sociale che avrebbe significato il contestuale sviluppo spirituale della persona umana, in un percorso volto all’autocoscienza annichilita da questa struttura sociale alienante chiamata capitalismo.
Il materialismo storico prende quindi forma grazie a Marx ed Engels che intuiscono che è la struttura sociale ad essere l’agente primo della Storia, e che questa è conformata dalla lotta politica tra le classi che vengono definite in base ai rapporti di produzione.
Poiché il modo di produzione capitalistico è tecnicamente avanzato, si sviluppa una scienza che prova a descriverlo: l’economia politica.
Nasce così nell’Ottocento, in ottica progressiva e rivoluzionaria, il socialismo scientifico che si contrappone all’economia politica liberale.
Perché mai Karl Marx chiama la sua via al socialismo “scientifica”?
1.2 I fondamenti epistemologici
Il metodo rigidamente seguito da questo gruppo di studio, oltre al metodo marxiano ed alle categorie dell’idealismo classico tedesco per l’analisi della totalità con focus nell’analisi economica del diritto, fonda ed integra tale metodo grazie agli strumenti di filosofia cognitiva tipici dell’atteggiamento fenomenologico della scuola husserliana.
Cosa significa?
Innanzitutto significa che si è consapevoli che «la teoria è già prassi».
Ovvero, in quest’ambito di discussione, la mancanza di solide basi teoriche implica con un certo grado di certezza una prassi inana o contropruducente; lo sforzo divulgativo in sé stesso diventa quindi una consapevole assunzione di responsabilità morale.
In secondo luogo, ed in modo estremamente riduzionistico, l’analisi segue circolarmente prima l’intuizione logica e, in un secondo momento, si riscontra l’esistenza di un supporto filologico o meno: la citazione non è quindi mera “appendice”, “abbellimento”, “virtuosismo” in un convegno di radical chic o di europeisti semicolti (pleonasmo): è parte dell’essenza stessa della dialettica, tra idealismo ed empirismo, tra hegelismo ed ermeneutica, che formano un tutt’uno nella totalità della Storia e nel microcosmo del cognitivismo.
Metodo scientifico ed ermeneutica.
Si evidenzia che il punto di incontro tra Husserl e Marx potrebbe consistere proprio nel restituire un senso all’empirismo e al positivismo tramite la filosofia classica, ossia quella profonda e significante attività di critica e di pensiero volta ad indagare il reale. Indagine leninianamente propedeutica alla prassi!
La più grande opera di Marx consiste – ricordando il suo “socialismo scientifico” – nello sviluppare una critica all’economia politica, un’opera immane che ha tentato di dare un significato all’economia politica borghese, opera che fornisce strumenti d’analisi che vanno oltre l’economia politica il cui “garbuglio economicistico”, però – con sconsolazione del pensatore di Treviri che ne aveva sottovalutato la complessità – rimarrà in gran parte irrisolto fino alla sua morte.
Tale “garbuglio” – com’è noto – verrà districato da Kalecki e poi da Keynes, in una convergenza non stupefacente tra socialismo ortodosso e liberalismo sociale. (Quando i principi morali convergono, convergono anche gli intenti come risultato dalla dialettica che può svincolare l’individuo dagli immediati interessi di classe)
A proposito di epistemologia, in un recente articolo possiamo leggere intorno allo sviluppo al pensiero marxiano:
«nell’incompleto superamento della versione economicista del marxismo, versione che aveva iniziato ad essere efficacemente criticata negli anni ’70 ed ’80 dello scorso secolo, grazie ad un lavoro teorico che si è però di fatto interrotto con il crollo dell’esperienza del socialismo reale e con la connessa crisi del movimento operaio occidentale.
Estremizzando (ma non troppo) i tratti fondamentali dell’economicismo marxista, diremo che esso è caratterizzato dalle seguenti tesi:
– la dinamica sociale del capitalismo è mossa dallo sviluppo delle forze produttive;
– tale sviluppo è lineare e progressivo e determina univocamente le forme culturali e politiche che gli corrispondono e che da esso dipendono in maniera meccanica;
– lo sviluppo delle forze produttive ha un contenuto sostanzialmente “neutrale”, perché dà luogo ad una socializzazione della produzione che costituisce la base della società socialista;
– esso peraltro produce anche il soggetto della rivoluzione socialista, perché generalizza il lavoro salariato e lo concentra in masse sempre più grandi, aumentandone la forza sociale e la consapevolezza politica, cosicché il punto più alto di sviluppo del capitalismo diviene anche il punto del suo rovesciamento radicale. »
Quest’analisi sarebbe anche corretta, tant’è che Gramsci chiamava questo adialettico determinismo storicista un «materialismo infantile».
Ora, di cosa possa essere stato criticato “efficacemente” negli anni ‘70 e ‘80 del ‘900 – considerando quale sia stato il risultato materiale e coscienziale negli Stati nazionali a maggior sviluppo economico – ci sarebbe da discutere a lungo.
E, forse, sta proprio qui il problema che si prova a sviscerare.
Se la critica sulle orme di Gramsci fosse volta ad approfondire l’economia politica E – contestualmente – ad unirla indissolubilmente al metodo dialettico e alla filosofia che questo sottende-, potremmo essere pacificamente d’accordo. Purtroppo, ci pare che – poiché non ci sono ulteriori riscontri sull’importanza dell’economia politica e del metodo scientifico – abbiamo di conseguenza a che fare con quel tipo di «relativismo dell’opinione », ossia del «fatti una tua personale opinione sulle cose », «usa la tua testa! », che si propaga a macchia d’olio nel mondo della cultura “di sinistra” tra gli anni ‘60 e ‘70. Ossia ai tempi della grande controffensiva neoliberista.
La domanda è: sono riflessioni “metodologicamente fondate”? I pensatori di “sinistra” hanno smarrito tra le barricate dei Settanta gli ultimi scampoli di filologia?
Certo, «il positivismo è assurdo», siamo d’accordo come con noi è d’accordo Husserl: «nel positivismo, consapevolmente o meno, ci sta dello scetticismo; e lo scetticismo è assurdo ». Tanto che Husserl parla proprio di «fallimento della scienza » in quanto «Galileo tanto scopre quanto ricopre».
Ma tutto ciò, a livello cognitivo e nell’ottica di una riflessione più ampia, non significa prosasticamente «ok, la scienza è fallita, liberi tutti, diamoci all’astrologia, alla rivoluzione interiore e a chi le spa… al “pluralismo dell’opinione” ». Significa che, oltre a poggiare i piedi sul solido terreno della scienza che nasce proprio per “oggettivare”, rendere “intersoggettiva” l’esperienza anche a distanza di spazio e di tempo, cercare un linguaggio comune e – quindi! – una dialettica, è altresì necessario “fondarla”, “significarla epistemologicamente”, ossia passare dalle verità scientifiche a delle opinioni coscienti.
Non passare, come dal Sessantotto in avanti, da insensate verità scientifiche ad ancora più insensate opinioni individuali. Il pensiero collettivo, critico, essendo generato per definizione da un flusso dialettico, deve essere scientificamente, empiricamente fondato.
Cosa passava a fare ore e ore Marx nelle biblioteche britanniche studiando le opere di Smith e Ricardo? È possibile rendersi conto che il linguaggio della “struttura”, primum agens della storia e della coscienza, è il linguaggio dell’economia politica? È possibile comprendere che la locuzione rapporto di produzione sottende contemporaneamente almeno un concetto economico, sociologico e giuridico? E queste, non a caso, sono tutte e tre scienze sociali.
1.3 Comunicazione e responsabilità
Tornando nel merito: la tesi che proponiamo è che «mai con» a prescindere è risultato di ciò che sembra proprio un paralogismo. Una precomprensione delle fondamenta stesse del grande pensiero marxiano e, in definitiva – come sottolineava Marx – falsa coscienza di natura ideologica e paramorale. Sovrastrutture di ciò che oggi è il capitale neoliberale.
Per farlo porteremo a sostegno citazioni di chi, seguendo il metodo proposto, ha potuto dare un grande contributo nella storia della lotta per l’emancipazione delle masse.
- Quando i socialisti erano “sovranisti”… (ringraziando Arturo per la citazione)
«Il compagno Parabellum [o, se si vuole, “Toni Negri”…] (nei nn. 252-253 della Berner Tagwacht) dichiara “illusoria” la “lotta per l’inesistente diritto di autodecisione” e ad essa contrappone la “lotta rivoluzionaria di massa del proletariato contro il capitalismo”, assicurando nello stesso tempo che “noi siamo contro le annessioni” (questa affermazione è ripetuta cinque volte nell’articolo di Parabellum) e contro ogni specie di violenza ai danni delle nazioni. Gli argomenti di Parabellum si riducono a questo: oggi tutti i problemi nazionali (Alsazia-Lorena, Armenia, ecc.) sono in sostanza problemi dell’imperialismo; il capitale ha superato i limiti degli Stati nazionali; non è possibile “girare all’indietro la ruota della storia” verso l’ideale ormai sorpassato degli Stati nazionali, ecc. »
Ci pare di averla già sentita….
«Innanzitutto proprio Parabellum guarda indietro invece di guardare avanti, quando, scendendo in campo contro l’accettazione dell’ “ideale dello Stato nazionale” da parte della classe operaia, volge i propri sguardi all’Inghilterra, alla Francia, all’Italia, alla Germania, cioè ai paesi in cui il movimento di liberazione nazionale appartiene al passato, e non all’Oriente, all’Asia, all’Africa, alle colonie dove questo movimento appartiene al presente e all’avvenire. Basta nominare l’India, la Cina, la Persia, l’Egitto. »
O la Grecia, aggiungiamo noi.
«Proseguiamo. Imperialismo significa superamento dei limiti degli Stati nazionali da parte del capitale, significa estensione e aggravamento dell’oppressione nazionale su una nuova base storica. Di qui, malgrado le opinioni di Parabellum, deriva precisamente che noi dobbiamo legare la lotta rivoluzionaria per il socialismo al programma rivoluzionario nella questione nazionale. Dal ragionamento di Parabellum risulta che egli, in nome della rivoluzione socialista, respinge sdegnosamente il programma rivoluzionario coerente nel campo democratico. Questo non è giusto. Il proletariato non può vincere se non attraverso la democrazia, cioè realizzando completamente la democrazia e presentando, ad ogni passo della sua lotta, rivendicazioni democratiche nella formulazione più precisa. È assurdo contrapporre la rivoluzione socialista e la lotta rivoluzionaria contro il capitalismo ad una delle questioni della democrazia, nel nostro caso alla questione nazionale. Dobbiamo unire la lotta rivoluzionaria contro il capitalismo al programma rivoluzionario e alla tattica rivoluzionaria per tutte le rivendicazioni democratiche: repubblica, milizia, elezione dei funzionari da parte del popolo, parità di diritti per le donne, autodecisione dei popoli, ecc. Finché esiste il capitalismo, tutte queste rivendicazioni sono realizzabili soltanto in via d’eccezione e sempre in forma incompleta, snaturata. Appoggiandoci alla democrazia già attuata, rivelando che essa è incompleta in regime capitalista, noi rivendichiamo l’abbattimento del capitalismo, l’espropriazione della borghesia, come base indispensabile per l’eliminazione della miseria delle masse e per l’introduzione completa e generale di tutte le trasformazioni democratiche».
Pare proprio che il leninismo abbia poco a che fare con Lenin… il quale pare aver molto più a che fare con la Luxemburg.
«L’imperialismo è l’oppressione sempre maggiore dei popoli del mondo da parte di un pugno di grandi potenze, è un periodo di guerre tra queste potenze per l’estensione e il consolidamento dell’oppressione delle nazioni, è un periodo di inganno delle masse popolari da parte dei socialpatrioti ipocriti, di coloro i quali – col pretesto della “libertà dei popoli”, del “diritto delle nazioni all’autodecisione” e della “difesa della patria” – giustificano e difendono l’oppressione della maggioranza dei popoli del mondo da parte delle grandi potenze. »
Questa è la descrizione dell’imperialismo fascista camuffato da umanitarismo irenico. Pare proprio quello che attualmente sta opprimendo le masse lavoratrici.
«Perciò, nel programma dei socialdemocratici, il punto centrale dev’essere precisamente quella divisione delle nazioni in dominanti e oppresse, che rappresenta l’essenza dell’imperialismo e alla quale sfuggono mentendo i socialsciovinisti e Kautsky.
Questa divisione non è sostanziale dal punto di vista del pacifismo borghese o dell’utopia piccolo-borghese della concorrenza pacifica tra nazioni indipendenti in regime capitalista, ma essa è indiscutibilmente sostanziale dal punto di vista della lotta rivoluzionaria contro l’imperialismo. E da questa divisione deve scaturire la nostra definizione – coerentemente democratica, rivoluzionaria e corrispondente al compito generale della lotta immediata per il socialismo – del “diritto delle nazioni all’autodecisione”.
In nome di questo diritto, lottando per il suo riconoscimento non ipocrita, i socialdemocratici delle nazioni dominanti debbono rivendicare la libertà di separazione per le nazioni oppresse, perché altrimenti il riconoscimento dell’eguaglianza di diritti delle nazioni e della solidarietà internazionale degli operai sarebbe in pratica soltanto una parola vuota, soltanto un’ipocrisia. »
Proprio come, a livello nazionale, lo sono i diritti nelle democrazie borghesi.
«Come esempio istruttivo può servire l’impostazione che ricevette la questione nazionale verso la fine del decennio 1860-1870. I democratici piccolo-borghesi, estranei a ogni idea di lotta di classe e di rivoluzione socialista, avevano immaginato l’utopia della concorrenza pacifica, in regime capitalista, tra nazioni libere e aventi eguali diritti. I proudhoniani “negavano” addirittura la questione nazionale e il diritto di autodecisione delle nazioni dal punto di vista dei compiti immediati della rivoluzione sociale.
Marx scherniva il proudhonismo francese, mostrava la sua affinità con lo sciovinismo francese. (“Tutta l’Europa può e deve restare tranquillamente seduta sul suo deretano, fino a quando i signori non aboliranno in Francia la miseria”… “Per negazione delle nazionalità, essi, a quanto pare, intendono inconsapevolmente l’assorbimento di nazionalità da parte della nazione francese modello”).
Marx chiedeva la separazione dell’Irlanda dall’Inghilterra, “anche se dopo la separazione si dovesse giungere alla federazione” e lo chiedeva non dal punto di vista dell’utopia piccolo-borghese del capitalismo pacifico, non per motivi di “giustizia verso l’Irlanda”, ma dal punto di vista degli interessi della lotta rivoluzionaria del proletariato della nazione dominante, cioè inglese , contro il capitalismo. La libertà di questa nazione era ostacolata e mutilata dal fatto che essa opprimeva un’altra nazione. L’internazionalismo del proletariato inglese sarebbe stato una frase ipocrita se il proletariato inglese non avesse chiesto la separazione dell’Irlanda. »
Lenin, “Il proletariato rivoluzionario e il diritto di autodecisione delle nazioni”, ottobre 1915
Chi usa gli strumenti analitici forniti dal materialismo storico non si può stupire dell’attualità di questa analisi di Lenin: l’UE e l’euro, fondati “sull’utopia della concorrenza pacifica” (cfr. art.3 comma 3, TUE), devono quindi essere abbattuti perché sono istituzioni volte alla reciproca oppressione delle nazioni: l’Italia è oppressa dalla Germania e dalla Francia, ma ne è complice quando si tratta di opprimere la Grecia (La Germania e la Francia sono oppresse dagli Stati Uniti). E tutto ciò a vantaggio dello sfruttamento.
Autodeterminazione versus imperialismo, che, come ricorda Lenin, non pare proprio essere “internazionalismo” come gli europeisti e gli “altreuropeisti” provano a spacciarlo, ma, ovviamente, proprio la sua negazione.
2.1 Prima riflessione
Che conseguenze ha avuto l’analisi di Parabellum poi ripresa dagli eurocomunisti in piena controrivoluzione neoliberista?
- Analisi marxista sul tema delle alleanze: Lelio Basso cita Marx, 1947
3.1 «Dall’unità antifascista all’unità democratica»
«[…] Per intendere il significato degli avvenimenti politici che hanno caratterizzato la storia del nostro Paese in questi ultimi anni e fare, ove occorra, una seria critica dei nostri stessi atteggiamenti, non sarà inopportuno rammentarci i principi fondamentali della dialettica delle classi e gli insegnamenti della categoria proletaria che Marx ci ha dato, oltre che nel Manifesto, in quel mirabile indirizzo del 1850 scritto a nome del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti.
- a) il partito operaio rivoluzionario […] non si distingue dagli altri operai in quanto sia depositario di verità particolari scoperte da qualche ideologo, o perché voglia realizzare un ideale precostituito di mondo migliore, ma solo perché esso è l’elemento più cosciente della classe operaia […] e pertanto è in grado di spiegare agli altri operai le ragioni per cui essi veramente combattono e guidarli verso delle finalità vere di classe;
- b) funzione precipua dei militanti rivoluzionari è pertanto quella di contribuire a creare nella classe operaia questa coscienza di classe, cioè dare unità al movimento operaio e indirizzarlo verso obiettivi rivoluzionari;
- c) a tal fine è necessario adoperarsi perché gli operai partecipino, in unione con tutte le forze democratiche e progressiste della borghesia, alle lotte contro i regimi reazionari, ma mantenendo sempre ed accentuando anzi in ogni momento le proprie caratteristiche di classe e di partito autonomo, cioè ponendo in ogni fase della lotta le rivendicazioni proprie del proletariato che dovranno costituire il tema della fase successiva; […]
Su questo problema della inserzione del proletariato nei conflitti interni delle diverse frazioni della borghesia, e delle alleanze che ne derivano, l’insegnamento di Marx è estremamente preciso.
Sforzarsi di unire tutti i partiti democratici contro i regimi reazionari, essere presenti in tutte le lotte e battersi decisamente anche per delle rivendicazioni immediate o per delle conquiste parziali; questo è certamente dovere dei proletari e dei militanti rivoluzionari che si pongono alla loro testa. Ogni passo in avanti sulla via del progresso democratico, ogni sconfitta delle forze reazionarie, è sempre anche un successo del proletariato, è un passo avanti verso il socialismo, ma non è ancora la battaglia per il socialismo.
Bisogna sempre sapere discernere, fra le frazioni della borghesia che lottano contro il regime dominante, quelle che lottano veramente in vista di un sostanziale progresso e quelle con finalità essenzialmente reazionarie; ma soprattutto bisogna sapere quali sono i limiti dell’azione di ciascuna di queste frazioni borghesi, cioè quali sono i suoi interessi fondamentali di classe che le impongono a un certo momento di fermarsi e, magari, di mutar fronte, denunciando le sue vecchie alleanze con i ceti più avanzati per allearsi invece con i ceti sconfitti. […]
Ora non v’è dubbio che, alla base della lotta antifascista sostenuta sotto l’insegna dell’“unità nazionale”, non vi fu un’impostazione di classe in questo senso.
Se è vero che era necessario che il proletariato partecipasse in unione con tutte le forze borghesi e democratiche alla lotta contro il nazifascismo, e vi partecipasse in prima fila, è lecito domandarsi se la forma di tale partecipazione non avrebbe dovuto essere diversa da quella che fu, se in luogo di un’alleanza non solo formale ma tale da fare sparire addirittura ogni differenza nella valutazione dei problemi e nell’impostazione della lotta, come fu quella dei C.L.N., non sarebbe stato più opportuno stringere quel tanto di alleanza che nasceva dalle comuni finalità, mantenendo però la propria autonomia non soltanto organizzativa di partito, ma politica di classe, ponendo risolutamente sul tappeto le istanza delle riforme di struttura; se cioè in luogo di combattere la battaglia in nome di una generica democrazia e di un più generico patriottismo contro la facciata soltanto del fascismo, non sarebbe stato necessario impostare subito i temi della lotta contro le cause del fascismo, e cioè le forze stesse reazionarie che, in previsione della sconfitta del regime fascista, si annidavano già in seno alla Resistenza. […]
Inoltre la mancanza di un programma di rivendicazioni sociali che caratterizzasse i partiti proletari e sulle quali si sarebbe forse potuto, nel clima della Resistenza, ottenere il consenso anche dei partiti borghesi, svuotò di ogni contenuto il movimento di liberazione all’indomani del 25 aprile, quando, per il solo fatto della caduta del fascismo, apparvero raggiunte le mete che il movimento si era prefisso […]
In sostanza, vi fu, alla base di questa politica, un abbandono dei principi strategici del marxismo, e la logica della lotta di classe si rivolse contro di noi, mettendoci dopo il 2 Giugno in condizioni di evidente inferiorità di fronte alla maggioranza democristiana. […]
Questa lunga analisi ci permette di concludere che il Fronte che nasce adesso, sulla base dell’unità democratica, è in realtà qualche cosa di diverso dall’unità semplicemente antifascista che dominò fino alla scorsa primavera la politica delle sinistre, perché le parole d’ordine attorno a cui l’unità si realizza escono finalmente dal terreno generico, puramente formale e politico dell’antifascismo, su cui si possono incontrare anche movimenti e partiti profondamente diversi, per investire finalmente i problemi economico-sociali che sono la vera pietra di paragone della democrazia, al di là di tutte le etichette e di tutti i programmi elettorali. […]
Si rende così possibile trasportare la lotta del diseducatore compromesso di vertici o dallo spontaneo ed episodico moto popolare alla grande mobilitazione di masse in vista di una conquista sostanziale ed organica.
È in questo senso che io ho parlato di risuscitare lo spirito della Resistenza, essendo bene inteso che dopo tre anni carichi di delusioni ma di esperienze, dopo una lotta politica confusa e tortuosa, ma alla fine sufficientemente chiarificatrice, quello spirito si è arricchito di altri motivi e di altro contenuto, e dal tono di vaga speranza di rinnovamento assume oggi quello di matura e cosciente volontà. […]
Che di questo vasto schieramento democratico, che abbraccia operai e contadini, ceti medi intellettuali e borghesia progressista, la classe operaia, o almeno la sua avanguardia più costante e più matura, sia l’elemento propulsore, è indubbiamente condizione del suo successo »
[L. BASSO, “Dall’unità antifascista all’unità democratica”, in Socialismo, luglio-dicembre 1947, n. 7/12, 139-144]
Per Marx, come per i grandi marxisti pare non ci fosse dubbio: prima le riforme strutturali in senso progressista, poi tutto il resto.
E, per far le riforme di struttura, id est., ritorno alla Costituzione – ora sovranità monetaria, fiscale, dipendenza della banca centrale dalle istituzioni democratiche, obbligo istituzionale alle politiche economiche keynesiane, ecc. – qualsiasi alleanza doveva essere presa in considerazione.
Chiunque nel merito può farsi un’opinione diversa, rispettabile o meno, strutturata e profonda oppure superficiale, ma – filologicamente – è improbabile che possa essere considerata marxiana.
(E qui si potrebbe fare un’altra riflessione sul perché Marx non sopportasse che si parlasse di “marxismo”, sul perché Lenin non ne voleva sapere del “leninismo”, né Trotskij del “trotskijsmo”; mentre a Stalin parlare di “stalinismo” andava benissimo… ma questo è solo un po’ di colore nel nero che si addensa sempre più all’orizzonte)
fonte: http://orizzonte48.blogspot.it/2017/06/sovranita-e-alleanze-un-falso-problema.html
Commenti recenti