Trump agenda: dopo il sì della Corte Suprema, minaccia la Siria e abbraccia l’India
di LOOKOUT NEWS (Luciano Tirinnanzi)
Dopo che la Corte Suprema degli Stati Uniti ha accettato il ricorso del governo relativo al bando contro l’ingresso dei cittadini di sei Paesi islamici – consentendo che questo resti in vigore in attesa di studiare meglio il caso (la sentenza definitiva a ottobre) – il presidente Trump canta vittoria e dichiara che la decisione dei giudici «è una chiara vittoria per la nostra sicurezza nazionale». Questo ridà vigore all’azione di governo, la cui iniziativa politica si è concentrata questa settimana su una materia particolarmente sensibile come il terrorismo, tralasciando le bagarre interne connesse al Russiagate, dove peraltro il presidente incassa un’altra buona notizia: tre giornalisti della CNN hanno perso il posto proprio per aver diffuso notizie non veritiere e non verificate sul caso (tra loro, c’è anche un premio Pulitzer).
La Casa Bianca, incoraggiata dal momento positivo (ma lo avrebbe fatto comunque), è passata subito a un altro dossier caldo, quello siriano: lunedì 26 giugno, ha rilasciato un comunicato che accusa il regime siriano di Bashar al-Assad di preparare «potenziali preparazioni per un altro attacco con armi chimiche» e ha minacciato direttamente il rais, affermando che «pagherà un prezzo pesante» se ciò si verificherà ancora.
Quell’«ancora» è legato, infatti, alle accuse secondo cui ci sarebbe proprio Damasco dietro all’attacco chimico avvenuto a Khan Sheikhoun, nella provincia di Idlib, lo scorso 4 aprile, in seguito al quale gli Stati Uniti hanno bombardato la base aerea militare dalla quale sarebbero decollati i caccia accusati di aver sganciato gli agenti chimici sulla popolazione.
(l’uso di armi chiiche in Siria si ripete indiscriminatamente dal 2014)
Assad nel mirino di Washington
«Gli Stati Uniti hanno individuato potenziali preparativi per un altro attacco di armi chimiche da parte del regime di Assad, che causerebbe l’omicidio di massa dei civili, compresi bambini innocenti» è stata la formula usata dal portavoce dell’amministrazione, Sean Spicer.
«Le attività rilevate sono simili ai preparativi che il regime ha fatto prima dell’attacco delle armi chimiche del 4 aprile 2017. Come abbiamo già affermato, gli Stati Uniti sono in Siria per eliminare lo Stato islamico dell’Iraq e della Siria, ma se Assad condurrà un altro attacco per omicidi di massa con armi chimiche, lui e la sua milizia pagheranno un prezzo pesante» è il tono del comunicato.
Lo strike americano di aprile è stato il primo intervento militare diretto degli Stati Uniti contro il regime di Assad da quando è esplosa la guerra civile nel 2011. Ma, con l’approssimarsi della battaglia per Raqqa volta ad eliminare lo Stato Islamico dalla regione, il gioco si fa sempre più duro, anche per gli altri attori regionali.
In aprile, ispettori internazionali affermarono di aver trovato quella che hanno poi chiamato «prova incontrovertibile» del fatto che nell’attacco chimico che ha ucciso 89 persone sia stato utilizzato il gas Sarin, o una sostanza simile. La Siria ha prontamente accusato dell’azione i gruppi terroristici che governano la provincia di Idlib, ovvero Tahrir Al Sham, l’alleanza jihadista legata ad Al Qaeda. Ma, quale che sia la verità, essa si perde nell’impossibilità di verifiche in zone ad alta intensità di combattimenti, dove nessuno dei belligeranti può dirsi innocente. Tantomeno il dittatore siriano.
Sia come sia, Washington con queste accuse ha già messo le mani avanti, e tutto va in direzione di una volontà precisa dal parte dell’Amministrazione Trump: trovare il modo di rovesciare il regime di Damasco, costi quel che costi.
(l’abbraccio tra i due leader, Modi e Trump – Washington D.C. 26 giugno 2017)
La visita del premier indiano Modi
Se la partita in Medio Oriente si gioca su equilibri molto delicati, di diverso tono sono le relazioni internazionali che l’amministrazione Trump sta tessendo in Asia Centrale, dove il dossier principale riguarda Afghanistan e Pakistan, due clienti da sempre difficili per gli americani.
A tal riguardo, va sottolineata la visita del premier indiano Narendra Modi alla Casa Bianca nel pomeriggio del 26 giugno, che è stato accolto nel giardino delle rose con un più che affettuoso abbraccio rivoltogli dal presidente Trump.
Nell’occasione – che non ha prodotto un vero comunicato né alcun accordo vincolante – è stata però ribadita l’amicizia tra i due paesi, come peraltro affermato dallo stesso Donald Trump durante la campagna elettorale del 2016: «è esattamente questo che hai adesso, un vero amico» ha dichiarato il presidente che si è mostrato molto affabile col collega, con il quale ha poi scherzato affermando che entrambi sono «leader mondiali nei social media» visto il numero di follower e l’attività spasmodica su Twitter che contraddistingue entrambi.
Certo non mancano le frizioni tra i due paesi in materia economica: anche la politica economica di New Delhi punta sui prodotti nazionali per aumentare produzione e posti di lavoro, e Modi è alla ricerca d’investimenti stranieri in patria per rinverdire il “made in India”, mentre Trump al contrario vuole smantellare le industrie americane che sono state delocalizzate in India per contenere i costi di produzione, per riportarle in America.
(Il Taj Mahal di Mumbai, uno degli obiettivi dei terroristi , 26 novembre 2008)
Il dossier pakistano
Ciò nonostante, non era questo l’unico argomento dell’incontro. Una materia molto calda che è stata trattata ha riguardato i pluriennali contrasti con il vicino Pakistan, pericoloso antagonista regionale che mantiene un atteggiamento ostile con l’India e un comportamento ondivago con la stessa Casa Bianca (è qui che, tra l’altro, è stato nascosto per dieci lunghi anni Osama Bin Laden, ex nemico pubblico numero uno per gli USA).
«Vogliamo assicurarci che il suo territorio non venga usato per lanciare attacchi terroristici in altri paesi e vogliamo che siano consegnati alla giustizia gli autori degli assalti di Mumbai e Pathankot e altre azioni transfrontaliere» ha espresso in merito la Casa Bianca.
Il riferimento è alla serie di assalti contro obiettivi civili avvenuti il 26 novembre 2008 a Mumbai, e all’assalto armato contro la base aerea militare indiana di Pathankot, nel Punjab, entrambi opera di formazioni jihadiste ascrivibili alla galassia qaedista pakistana: Lashkar-e-Taiba nel primo caso eJaish-e-Mohammed nel secondo.
Pur assicurando di voler «mantenere la nostra cooperazione con il Pakistan», il presidente Trump ha affermato che gli Stati Uniti potenzieranno l’intelligence e le azioni di controterrorismo nell’area.
Infine, Modi e Trump si sono accordati anche sulla Corea del Nord, cui l’India ha fornito molti aiuti in passato, al punto da esser stato il secondo partner commerciale di Pyongyang dopo la Cina (New Delhi tra il 2015 e il 2016 ha esportato beni in Corea per un valore di 111 milioni di dollari e importato per 88 milioni), mentre oggi si limita all’invio di provviste alimentari e medicinali in seguito alle sanzioni che hanno isolato il paese nordcoreano.
Trump, in sostanza, non ha promesso niente a Modi ma ha avvicinato a sé un possibile potente alleato regionale, anche e soprattutto in funzione anti-cinese.
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