di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Daniele Perra)
Un’analisi dell’evoluzione e delle dinamiche interne alla società tribale dell’area levantina non può che partire dalla voluminosa opera di Ibn Khaldun (1332 – 1406) al-Muqaddima (Prolegomeni). Tale opera ha avuto un impatto decisivo non solo all’interno del mondo islamico ma nella stessa cultura europea. Ibn Khaldun ha di fatto segnato il passaggio dalla storiosofia (una concezione della storia che presuppone un intervento diretto dello Spirito divino dei mondi soprasensibili in questo mondo) alla filosofia della storia; ovvero l’idea che la storia sia determinata da una casualità che elimina ogni forma di trascendenza. Di fatto, con Ibn Khaldun, la filosofia è passata dall’essere ancilla theologiae ad essere ancilla sociologiae attraverso un irrimediabile processo di secolarizzazione. Questa è la principale ragione della fortuna di Ibn Khaldun nel mondo europeo. Il filosofo maghrebino, considerato intellettualmente più affine e facilmente comprensibile, ha rappresentato agli occhi degli europei il canto del cigno della filosofia islamica. Tuttavia, tale considerazione ignora del tutto il meraviglioso fiorire della metafisica del sufismo e dello sciismo anche nei secoli successivi e di cui Mulla Sadra (1571 – 1640) è il più fulgido esempio.
Ora, al centro dell’elaborazione teorica di Ibn Khaldun vi è il concetto di asabiyya (spirito o solidarietà di gruppo). Un concetto che ricorda molto da vicino quello di “passionarietà” elaborato dall’antropologo sovietico Lev N. Gumiliev. L’asabiyya è il risultato in primo luogo dei legami di sangue e nessun obiettivo può essere raggiunto senza di essa.
Afferma Ibn Khaldun: “L’affetto e la compassione per coloro che hanno il tuo stesso sangue è qualcosa che Dio ha posto nei cuori degli uomini.”
Gli arabi, radicati nella vita del deserto, rappresentano un gruppo naturale. I beduini, costretti a muoversi nello spazio desertico per una questione di mera necessità vitale, al contrario delle popolazioni sedentarie che si circondano di beni di lusso sempre più sofisticati, restringono il campo dei loro averi ai soli beni necessari. Questo li rende più vicini a Dio rispetto ai sedentari in quanto meno attaccati al lusso ed agli interessi individuali, più disposti ad atti di coraggio e più timorosi rispetto al volere divino.
La purezza del lignaggio è comune tra gli arabi del deserto e solo quando la discendenza non è più chiara e viene stabilità solo in base ad accurate ricerche scientifiche, essa risulta incapace di smuovere l’immaginazione collettiva così da negare l’affetto derivato dalla solidarietà di gruppo. Ed il lignaggio è alla base del sentimento tribale di appartenenza. L’obiettivo naturale dei beduini, secondo Ibn Khaldun, è comunque l’urbanizzazione e la sedentarietà. E l’obiettivo al quale conduce inevitabilmente l’asabiyya è l’autorità regale.
Sin dall’era preislamica (successivamente identificata come jahiliyya – ignoranza della religione) la città della Mecca, sotto il dominio dei Banu Quraish, rappresentava un importante snodo commerciale e religioso all’interno della penisola arabica. Larga parte degli introiti economici dell’aristocrazia meccana derivavano dal flusso di pellegrini al santuario della Ka’ba; facente funzione di axis mundi anche quando il paganesimo era maggioritario tra le popolazioni dell’area.
La predicazione del Profeta Muhammad venne percepita dall’aristocrazia Quraish come potenzialmente dannosa non solo perché metteva a rischio gli introiti economici derivanti dal pellegrinaggio, ma soprattutto perché mirava a scardinare un millenario sistema basato sull’appartenenza tribale a favore di uno basato sulla comunanza della fede religiosa. Abbandonare la propria tribù per l’Islam significava in primo luogo rinnegare i propri legami di sangue per avvicinarsi ad un più alto principio trascendete e metafisico secondo il quale gli uomini sono tutti uguali e fratelli di fronte a Dio.
L’Islam delle origini ha rappresentato il principale e più pericoloso avversario del sistema tribale ed in ciò consisteva il suo portato rivoluzionario
Tuttavia, solo grazie alla protezione della tribù (i Banu Hashim – uno dei lignaggi legati alla più ampia tribù dei Quraish) il Profeta, almeno fino alla dipartita dello zio Abu Talib, poté sopravvivere alla Mecca nonostante la crescente ostilità dell’aristocrazia cittadina. L’Egira del 622 d.C. ha rappresentato la definitiva rottura con i legami tribali. La società costituita a Medina era basata su pochi saldi principi: il riconoscimento del Profeta come capo della Umma ed arbitro delle controversie, l’assoluta cooperazione tra tutti gli abitanti della città, siano essi musulmani, ebrei o pagani. La fitna e la successiva instaurazione della dinastia omayyade (discendente dal lignaggio Banu Umayd dei Quraish), la cui volontà di potenza si espresse nell’appropriazione del titolo di Khalifa Allah (vicario di Dio, rispetto a Khalifa Rasul Allah – vicario del messaggero di Dio – utilizzato dai “califfi ben guidati”) hanno segnato per certi versi la rivalsa del principio di appartenenza tribale sull’Islam e la costruzione dell’autorità regale (mulk) nell’Islam sunnita. Tale retaggio ancestrale si è dimostrato più saldo della stessa credenza religiosa pur riuscendo a convivere facilmente con essa e, sotto certi aspetti, plasmandola a seconda delle proprie necessità.
L’imperialismo occidentale e la successiva divisione lungo linee del tutto arbitrarie del Levante sulla base del concetto europeo di Stato-nazione, a sua volta, non è riuscito ad eliminare il tribalismo ma per certi versi l’ha ulteriormente accentuato. Di fatto, laddove uno Stato è debole il tribalismo tende a riemergere con più forza. Tuttavia, ad oggi, le tribù, a differenza di ciò che spesso viene presentato sui media, non rappresentano dei blocchi uniformi ma una varietà di correnti spesso in contraddizione tra loro (la presenza all’interno della stessa tribù di sunniti e sciiti è emblematica) e presenti in ambito sovranazionale (come nel caso della tribù Anizzah, discendente dai Banu Bakr, presente alla pari dei Shammar, Jabbur o dei Dulaim in diversi Stati dell’area). Ora, è importante sottolineare il fatto che una tribù può essere classificata a seconda della grandezza e delle sue caratteristiche: Qabila indica solitamente una confederazione di diverse tribù (come nel caso della già nominata tribù Jabbur – confederazione di oltre 50 tribù); Ashirah indica una grande tribù; Fakhd è il clan; Fundah la parte di un clan; Hammulah è un agglomerato di più famiglie. Ogni tribù, improntata su una rigida linea patriarcale, ha un suo Sheykh, autorità sia politica che religiosa, che si occupa dei rapporti con il potere centrale. Si diventa Sheykh per lignaggio ereditario, per carisma e capacità, ed ogni sua decisione è comunque frutto di consultazioni (il principio della shura islamica). Ogni legame all’interno della tribù è dunque basato sulla lealtà dovuta dalla comune discendenza, sul senso di appartenenza e sull’onore.
Negli Stati postcoloniali la tribù ha rappresentato lo strumento attraverso il quale si palesava il potere: una dinamica spesso e volentieri ben più invasiva di quella etnico-settaria. Lo studio del pensatore e sociologo kuwaitiano Khaldun al-Naqib ha messo in luce la dinamica, da lui denominata come al-qabaliyya al-siyasiyya (tribalismo politico), attraverso la quale le tribù vengono sedentarizzate in forma più o meno forzosa attraverso la distribuzione di sussidi, la cooptazione nei gangli delle istituzioni statali o il reclutamento nell’esercito. Un discorso a parte lo merita l’Arabia Saudita. Nonostante anche il Regno dei Sa’ud sia entrato a pieno titolo nel novero delle nazioni che fanno del tribalismo politico, seppur con la precisa marginalizzazione di alcuni gruppi (vedi gli sciiti del Qatif), il loro strumento di governo, esso ha basato le sue fortune, almeno prima della sua definitiva elezione a strumento geopolitico occidentale, sul reclutamento di un esercito tribale (gli ikhwan) in nome del gihad e del riformismo religioso anti-tradizionale promosso dal teologo hanbalita Muhammad Ibn Abd al-Wahhab nella seconda metà del XVIII secolo. Proprio secondo Ibn Khaldun la propaganda religiosa può fornire un potere addizionale ad una dinastia rispetto a quello derivato dalla solidarietà di gruppo. E le due cose sono l’una consustanziale all’altra.
La casa dei Sa’ud ha rivendicato una sua discendenza mai del tutto dimostrata dalla già menzionata tribù Anizzah.
L’agente britannico John Philby, che ebbe un ruolo decisivo nel successo saudita al termine del primo conflitto mondiale, per sostenere tale tesi, individuò l’origine della tribù Anizzah nel deserto del Najd. Tuttavia, se è vero che gli Anizzah, pur non partecipando attivamente al gihad wahhabita – saudita, mantennero un atteggiamento sostanzialmente favorevole nei suoi confronti, è altrettanto vero che l’Enciclopedia dell’Islam risulta non poco scettica rispetto a questa presunta discendenza. Ben più chiaro il fatto che il penultimo Re saudita fosse figlio di una Shammar e sposato con una Shammar: tribù che ha sempre mantenuto un atteggiamento ambiguo nei confronti del regime di Saddam e che ad oggi ha ottimi rapporti con i curdi di Mas’ud Barzani alleati degli Stati Uniti.
Il sociologo iracheno Ali al-Wardi, in tempi recenti, ha attualizzato il lavoro di Ibn Khaldun e lo ha applicato all’odierno scenario levantino ed in particolar modo all’Iraq. Al-Wardi ha messo in luce la dicotomia tribalismo/cittadinanza facendo notare come in Iraq tutti siano ufficialmente cittadini ma, tuttavia, dopo la dissoluzione dello Stato a causa dell’invasione statunitense del 2003, ognuno ha iniziato a definirsi attraverso la propria appartenenza tribale o alla propria confessione religiosa. È vero che diverse tribù sunnite dell’area di Mosul, soprattutto appartenenti alla più vasta tribù Dulaim, che vantava numerosi membri nei servizi di sicurezza nel regime di Saddam, hanno giurato fedeltà all’ISIS tramite il sistema islamico della bay’a (letteralmente “vendere” ma termine che indica la sottomissione ad un capo).
Tale sistema, secondo il pensatore islamista radicale Abu Jafar al-Hattab, consiste in due tipi diversi di bay’a: a) un giuramento con determinate restrizioni, limitate all’ambito del gihad, che si dà al leader di un gruppo militante come poteva essere Abu Musab al-Zarqawi (leader di al-Qaeda in Iraq, gruppo di cui lo Stato Islamico è diretto erede); b) un giuramento senza restrizioni, che invece viene dato al leader di una comunità politica e religiosa (come dovrebbe essere nel caso dell’autoproclamato califfo) ed i cui termini sono illimitati e riguardano ogni aspetto della vita della comunità. Tuttavia, non si può con certezza affermare, come spesso molti analisti occidentali sono portati a pensare, che l’intera tribù dei Dulaim, alla pari di altre tribù irachene, vista la loro natura estremamente composita, possa essere stata connivente con il presunto neo-califfato.
E la stessa distopia califfale dell’ISIS, strumento agli ordini degli interessi strategici delle monarchie del Golfo, pur farneticando sulla fratellanza nella Umma universale ed il ritorno alla purezza dell’Islam delle origini, ha dovuto fare i conti con il mai sopito senso di affiliazione tribale
Non va sottovalutato, allo stesso tempo, che le alleanze nell’area hanno spesso dimostrato una certa fluidità. Il Regno di Giordania, ultimo superstite degli Stati hashemiti costruiti dall’imperialismo britannico, oggigiorno è uno dei principali alleati (se non un vero e proprio protettorato) di quello che è stato uno dei mortali nemici del suo lignaggio: ovvero la Casa dei Sa’ud. A dimostrazione del fatto che di fronte allo strapotere dell’egemonia economica imposto dalla modernità non vale più l’affermazione dello stesso Ibn Khaldun che vedeva negli arabi un popolo orgoglioso ed ambizioso ben poco disposto, rispetto alle altre nazioni, a vedersi subordinati l’un l’altro.
fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/esteri-3/tribu-medio-oriente/
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