Flassbeck: Usa, Cina, Germania e la prossima guerra valutaria
di L’ANTIDIPLOMATICO (Heiner Flassbeck; traduzione di Stefano Solaro)
In un recente approfondimento apparso su Makroskop, Heiner Flassbeck analizza le attuali dinamiche economiche tra Usa, Cina e Germania. Per l’economista tedesco si prospetta il rischio di una vera e propria guerra valutaria
Donald Trump fa paura a molti. Al momento a essere spaventata è la Cina, in quanto il presidente neoeletto minaccia di imporre dazi sulle importazioni provenienti dal paese asiatico, colpevole di aver sfruttato unilateralmente gli scambi commerciali con gli Stati Uniti.
Molti si domandano se Trump può davvero permettersi di scatenare una guerra commerciale con la Cina, considerato che si tratta del più importante importatore e, dopo il Giappone, del più importante creditore dell’economia americana, che, come è noto, soffre di un forte deficit commerciale.
La Germania dovrebbe fare molta attenzione al comportamento di Trump nei confronti della Cina. In questa partita internazionale anche il paese tedesco – il membro del G20 con il più grande il surplus commerciale (il 9% del PIL) – ha molto da perdere.
Gli Stati Uniti sono il partner commerciale con il deficit più grande nei confronti della Germania (60 miliardi di Euro). Presto o tardi Trump finirà per accorgersene. È probabile che succeda proprio quando il suo ministro delle Finanze gli presenterà il Currency Report annuale, nel quale vengono elencati, dal punto di vista americano, i più grandi peccatori in materia di commercio internazionale.
Cosa può fare quindi il presidente americano nei confronti dei paesi in surplus?
L’impressione diffusa in Europa è che una guerra commerciale finirebbe per danneggiare anche gli Stati Uniti. Questa considerazione in realtà è fin troppo semplicistica.
Prima di tutto non si può definire guerra economica il tentativo di riportare all’ordine i paesi in surplus. Secondo l’Organizzazione mondiale del commercio è del tutto lecito utilizzare i propri mercati nazionali per contrastare e sanzionare i Paesi in eccedenza commerciale.
In Germania e in Cina ci si dimentica poi di un ulteriore aspetto: chi accumula costante surplus danneggia a tutti gli effetti i paesi in deficit, inondandoli con i suoi prodotti ed esportando disoccupazione. Inoltre, l’incremento del benessere nel commercio estero non viene equamente distribuito tra i paesi in disavanzo e in avanzo. Il Paese in surplus vince sempre, quello in deficit non può che perdere. Ciò contraddice l’idea stessa di libero scambio e la speranza che a trarne vantaggio possano essere tutti in egual misura.
Anche la questione dell’elevato credito finanziario cinese nei confronti degli Stati Uniti non è così semplice.
In linea di principio i paesi in surplus accumulano crediti sempre crescenti verso i paesi in deficit, in quanto una parte dei prodotti trasferiti sono venduti proprio sotto forma di credito dalle nazioni in avanzo. In Cina, inoltre, la banca centrale ha provato a impedire per molti anni un apprezzamento della valuta cinese nei confronti del dollaro, facendo sì che lo stesso dollaro guadagnasse sul mercato valutario internazionale. Questi dollari sono stati poi scambiati principalmente con titoli del tesoro USA. Ora questa dinamica sta venendo al termine, in quanto la banca centrale cinese sta cercando di bloccare il deprezzamento della sua valuta vendendo dollari e riacquistando la propria moneta.
Gli Stati Uniti godono della posizione privilegiata di poter contare su un mercato dei capitali molto forte, sul quale questi processi hanno poca influenza. Se la banca centrale cinese dovesse vendere le obbligazioni statunitensi qualcun’altro le comprerà. Che in quest’ottica il cambio possa apprezzarsi o deprezzarsi non fa davvero differenza. D’altra parte gli Stati Uniti sono in una posizione favorevole perché quasi la totalità dei crediti esteri sono denominati in dollari USA che, come è noto, è la moneta creata dalla banca centrale americana.
Elevati crediti esteri possono quindi essere ridotti solo nel caso il valore del dollaro scenda rispetto ad altre valute. Anche questo tipo di operazione non è particolarmente difficile per il presidente americano. Deve solo lasciare che il proprio ministro delle finanze dica che gli Stati Uniti non hanno alcun interesse in un dollaro forte e la moneta automaticamente si deprezzerà, perché i mercati si aspettano che il presidente degli Stati Uniti faccia seguire delle azioni alle sue parole.
Un dollaro debole significa che le importazioni dall’estero saranno più costose e quindi verranno acquistate in minor misura, ma vuol dire anche che i crediti americani avranno minor valore per i loro depositari stranieri, in quanto gli Stati Uniti forniscono sempre e solo dollari in cambio delle merci.
Se quindi ci saranno conflitti tra Cina e Germania con gli States, si tratterà di una guerra valutaria prima ancora che commerciale. Solo se vedranno che la guerra monetaria non porta i risultati sperati, allora gli Stati Uniti faranno ricorso agli strumenti legali previsti dall’Organizzazione mondiale del commercio per scongiurare le importazioni. È meglio non farsi illusioni: le nazioni in surplus sono comunque dalla parte del torto.
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