“Il marxismo occidentale” di Domenico Losurdo (1a parte)
di SINISTRA RETE (Elena Fabrizio)
In un testo del 1993 (Cultura e imperialismo) lo studioso palestinese Said, nell’indagare la complicità della cultura occidentale con il progetto egemonico imperialista, imputava a Foucault, alla teoria critica della Scuola di Francoforte e in genere il marxismo occidentale di non essersi dimostrati «alleati affidabili della resistenza all’imperialismo», addirittura di fare parte «di quello stesso, offensivo “universalismo” che ha per secoli collegato la cultura all’imperialismo».
Sul versante africano, lo storico ed economista Hosea Jaffe (Abbandonare l’Imperialismo, 2008), nel denunciare il più grande «abbandono» della storia dell’umanità, il «terzo mondo» abbandonato dall’imperialismo del «primo mondo», richiamava alla lotta di classe anti-imperialista attraverso un’azione collettiva, politica ed economica di contro abbandono marcata dalla distanza che separa il marxismo-leninismo dal marxismo occidentale. Quest’ultimo, concentrandosi sulla dicotomia socialismo versus capitalismo e avendo amputato il capitalismo della sua radice imperialistica, meritava l’appellativo di «eurocentrico e amerocentrico» e convinceva Jaffe a guardare alla Cina, il paese che ha realizzato la più grande rivoluzione anticoloniale della storia, e alla sua economia «anti-imperialista in sé e nei suoi effetti» quali possibili sostegni di una storia rivoluzionaria alternativa dei paesi anti-imperialisti.
Sono riflessioni da cui emerge un quadro culturale e politico abbastanza chiaro che va a definire la divaricazione del marxismo occidentale dall’anti-imperialismo quale fatto della storia contemporanea. Sebbene esse non vengano chiamate in causa dal libro di Losurdo, potrebbero retrospettivamente essere portare a sostegno del suo meditato e appassionato j’accuse: la rimozione da parte del marxismo occidentale della questione coloniale che va a definire la genesi, la trama e l’esito di un rapporto mancato che attraversa tutto il Novecento.
Losurdo parte dal famoso manifesto di Anderson del 1976, con il quale la divaricazione teorico-politica tra il marxismo occidentale e quello orientale veniva collegata all’involuzione e deviazione dell’esperienza sovietica, della Cina popolare e dei partiti comunisti fedeli alle posizioni sovietiche. Un quadro rassicurante tuttavia magistralmente stravolto dall’analisi dei fattori storico-culturali, filosofici e politici che caratterizzano i due marxismi, e quindi rovesciato nel senso che ad aver subito deviazione e involuzione è il marxismo occidentale non quello orientale, sicché la posizione di Anderson ritorna ad essere parte del problema e non la soluzione per comprenderlo.
Genesi e prime incrinature
Nella ricostruzione di Losurdo il divario si manifesta, molto prima della reazione all’autocrazia staliniana, allorquando la Rivoluzione d’Ottobre, proiettando il marxismo in una dimensione mondiale, stimola le rivoluzioni anticolonialiste, le lotte di liberazione dei popoli oppressi dal disumano dominio politico, economico, sociale delle potenze coloniali, assumendole come parte integrante delle lotte per l’emancipazione della classe operaia e per il rovesciamento del capitalismo. In particolare, Losurdo retrodata le prime incrinature teoriche e politiche tra i due marxismi al periodo che va dal 4 agosto 1914 all’ottobre del ’17 individuandole nelle condizioni storico-oggettive che causano l’entusiasmo rivoluzionario, a Occidente stimolato dalla guerra, cioè solo quando il sistema capitalistico giunge a dispiegare anche in Europa tutto il suo potenziale economico-militarista e disumano, mentre a Est dal sistema colonialista-imperialista quale causa di tutte le oppressioni e di tutte le guerre, vale a dire dagli effetti dell’oppressione e della violenza che il sistema capitalista-colonialista aveva già tragicamente provocato nei paesi colonizzati ben prima della guerra.
È il comunismo bolscevico, con la sua condanna della guerra, come guerra imperialista delle grandi potenze per la conquista delle colonie e per il dominio del mercato mondiale, nonché guerra contro le stesse colonie conquistate per l’assoggettamento, l’umiliazione, la schiavitù dei popoli conquistati spesso ridotti a carne da cannone per le guerre dei padroni, a farsi portavoce della liberazione di questa parte dell’umanità. Ed è in riferimento a questo processo universale di liberazione che il marxismo giunge ad una svolta concettuale e pratica che va a legare la questione sociale a quella coloniale e a quella nazionale.
È in particolare Lenin a comprendere che il marxismo andava calato nelle condizioni storico-concrete per collegarlo all’impegno, di volta in volta determinato, contro una particolare forma di oppressione; che in definitiva la lotta per l’emancipazione contro la diseguaglianza di classe (socialismo versus capitalismo) non poteva essere disgiunta dalla lotta anticoloniale contro le diseguaglianze tra le nazioni (anticolonialismo versus colonialismo). Era una svolta che maturava e coniugava in un unico quadro le riflessioni di Marx sul nesso tra capitalismo, colonialismo e schiavitù (con tutti «gli atti di barbarie e le infami atrocità» che ne seguivano) con quelle che univano la questione sociale, la liberazione dalla soggezione economica e sociale dell’Irlanda e della Polonia da parte rispettivamente dell’Inghilterra e della Russia zarista, alla rivendicazione della questione nazionale.
La centralità della questione nazionale tuttavia non solo non sottovalutava la rivoluzione proletaria e la lotta di classe nelle metropoli occidentali, ma la integrava in una visione universalista più concreta, in uno sforzo congiunto e duplice che a Occidente doveva realizzare la rivoluzione socialista e a Oriente la rivoluzione anticoloniale. Questa è la svolta che, ad eccezione di Gramsci e Lukacs, il marxismo occidentale non ha saputo ereditare.
È infatti su questa svolta epistemologica e pratica che l’incrinatura si stratifica in una prima differenza di tipo geografico, espressione però di un denso nucleo teorico. La questione coloniale rinviando a quella nazionale, vale a dire ad un’emancipazione che si può realizzare solo attraverso il riconoscimento del diritto dei popoli oppressi a costituirsi quali Stati nazionali indipendenti, chiama alla storica resa dei conti alcuni presupposti ingenui del marxismo occidentale: l’estinzione dello Stato, la fine dell’economia del denaro, la sfiducia nella scienza-tecnologia, una visione restrittivamente sciovinista dell’idea di nazione. E dunque, mentre a Oriente il marxismo si concentra sulla questione coloniale attraverso un tormentato processo di apprendimento che andava a ridefinire il ruolo della nazione, dello Stato, dello sviluppo economico, a Occidente questo processo non viene compreso nella sua drammaticità e nella sua forza costruttiva.
In questo caso a condurre alla divaricazione è la lettura che in Occidente marxisti come il giovane Lukács, Bloch, Benjamin fanno dello Stato alla luce dell’apparato statale e militare quale espressione della volontà di potenza e di conquista e del nazionalismo che ha trasformato lo Stato-nazione in una macchina di morte e distruzione. La giusta critica che si fa alla connotazione che in un determinato periodo storico la forma Stato assume viene generalizzata in una critica assoluta che identificando Stato, potere, dominio e violenza sfocia in toni anarcoidi.
Toni che evidenziano la carente comprensione della lotta che i popoli coloniali iniziavano a rivendicare non solo per liberarsi dallo sfruttamento economico, ma anche per il riconoscimento della loro capacità di autogovernarsi: «a ispirare la rivoluzione dei popoli coloniali è la parola d’ordine non di “uno Stato in via di estinzione”, bensì di uno Stato in via di formazione» (p. 10). È ancora una volta la parola d’ordine del marxismo-leninismo ereditata alla luce della concreta situazione di oppressione e di disprezzo in cui si trovano i popoli colonizzati, si pensi soprattutto alla Cina di Mao, ad esigere la formazione di Stati nazionali indipendenti tanto necessari per liberarsi dall’oppressione del colonialismo e dell’imperialismo.
A ciò si aggiunga che alla diversa visione dello Stato, si affianca una diversa percezione del ruolo che lo sviluppo economico e la scienza-tecnologia devono avere nel processo rivoluzionario. Se a Occidente autori come Bloch, Benjamin, Weil, demonizzano l’economia del denaro quale «bestia selvaggia» che deteriorando tutti i rapporti umani deve essere superata in quanto tale, nell’Oriente rivoluzionario la lotta al capitalismo si incrocia con la lotta per la sopravvivenza che rendeva ineludibile lo sforzo collettivo della produzione e dello sviluppo dell’economia, se la lotta di liberazione nazionale voleva avere una chance di successo. Il rapporto che su questo versante i rivoluzionari comunisti intrattengono con la scienza-tecnologia è di apprendimento critico di un patrimonio culturale assunto come progressivo e funzionale al processo di emancipazione.
È ben nota, al contrario, la critica disfattistica che tra le due guerre impegna la cultura tedesca e quella marxista in generale (Benjamin, Lukács fino ai francofortesi) in una visione genealogica e onnicomprensiva che rovescia il potenziale progressivo della scienza-tecnologia in un’evoluzione regressiva che dal dominio della natura giunge al dominio sull’uomo attraverso il dominio della tecnica. In definitiva, secondo Losurdo, la situazione dell’orrore della prima guerra mondiale e la grande crisi storica che segue, con la grande depressione, il nazifascismo, la seconda guerra mondiale, vanno a rinforzare la matrice messianica ebraico-cristiana del marxismo e a condizionare una visione escatologica, redentrice e definitivamente liberatrice della rivoluzione condita dalla vana e poi delusa attesa di tutti quegli elementi (estinzione dello Stato, dell’economia di mercato, fine del lavoro) che nel frattempo a Est venivano iscritti in un processo storico che contraddiceva l’immaginario occidentale.
Qui, come invece secondo Losurdo aveva ben compreso Merleau-Ponty, osservatore delle lotte di emancipazione nazionale in Asia (Cina, Vietnam), la conquista del potere dei partiti comunisti pone subito alla loro agenda politica un duplice problema: consolidare il potere attraverso un rafforzamento dell’apparato statale, evitare il pericolo di un nuovo assoggettamento coloniale, quindi colmare il ritardo rispetto ai paesi più avanzati. Imbrigliati in un marxismo acritico e escatologico, i marxisti occidentali non riescono a leggere in questo sforzo di assimilazione e trasformazione nient’altro che gli elementi della manipolazione ideologica che il marxismo aveva subito ad Oriente.
La svolta nella svolta
Se su questo primo nucleo teorico si incardina la divaricazione geografica tra i due marxismi, essa segue anche una serie di scansioni temporali che nella ricostruzione di Losurdo conducono ad una seconda svolta nella storia del Novecento. Quando anche in Russia l’attesa della rivoluzione mondiale e di una società che potesse fare a meno dello Stato, dell’economia di mercato, dei confini nazionali si allontana dall’orizzonte storico, si avvia un processo di apprendimento che vede Lenin passare dall’entusiastica illusione di un’imminente rivoluzione che porterà il proletariato vittorioso sulla via dell’estinzione dello Stato (Stato e rivoluzione), ad un ripensamento che sostituisce all’obiettivo dell’estinzione l’impegno a lungo termine verso la costruzione di uno Stato socialista e di conseguenza al comunismo di guerra una politica economica finalizzata al miglioramento della produzione.
Sono passaggi teorico-politici significativi che attestano la presa di distanza dalla fase prerivoluzionaria che si presenta come negazione astratta e assoluta dell’ordinamento sociale e politico dominante, ad una gestione più concreta del processo rivoluzionario che nega sì l’ordine politico e sociale, ma attraverso un’espropriazione appropriante (Aufhebung) che invece di distruggere lo Stato e l’economia capitalistica, apprendeva dall’ordinamento negato e dalla sua classe politico-economica espropriata i mezzi e le tecniche utili alla gestione amministrativa e allo sviluppo economico.
Questa divaricazione temporale si intreccia ad Est con la nota dialettica interna ai quadri dirigenti del Pcus, tra chi lamentava nel passaggio al consolidamento dello Stato e alla Nep il fallimento del progetto rivoluzionario e chi invece al contrario sosteneva che esso contribuiva a realizzarlo. Una dialettica che finirà con lacerare il partito e imporre anche ad Est la divaricazione tra la visione occidentale del marxismo rappresentata da Trotskij e quella orientale rappresentata da Stalin. A completare il quadro storico intervengono poi i grandi rivolgimenti della situazione internazionale successiva all’Ottobre ’17 che hanno imposto alla politica sovietica di concentrare la lotta sulla seconda contraddizione: l’atteggiamento colonialista delle forze dell’Intesa contrario all’uscita dalla guerra della Russia e l’aggressione che essa subisce nel corso della guerra civile; l’atteggiamento razzista nei confronti dei bolscevichi che matura nella classe dominante occidentale; l’avanzata del progetto razzista e colonialista del Terzo Reich.
Di fronte a questo attacco si comprendono le condizioni storiche nuove in cui negli anni Trenta il socialismo sovietico si trova ad operare che rendevano improrogabile lo sviluppo delle forze produttive e dell’apparto militare-industriale e meno urgente l’edificazione del nuovo ordinamento sociale, comprensibile l’appello non solo al proletariato ma all’intera nazione chiamata a difendere la sua indipendenza. È la stessa situazione che impone alla Cina, nella seconda metà degli anni Trenta, di declinare la lotta di classe come lotta nazionale, quando subisce l’attacco imperialista del Giappone.
La vittoria del campo socialista contro i due imperialismi attraverso due guerre patriottiche di liberazione nazionale va a chiudere il lungo periodo di crisi inaugurato dalla seconda guerra dei trent’anni e ad imprimere alla storia del Novecento «una svolta nella svolta»: la svolta dell’Ottobre, che aveva unito le due contraddizioni, incorre in una seconda svolta che impone all’agenda politica lo scontro tra colonialismo e anticolonialismo aprendo l’epoca della rivoluzione anticolonialista mondiale che vede quasi sempre protagonisti partiti comunisti (Cina, Vietnam, Cuba).
Uno scenario epocale di emancipazione, quello ricostruito magistralmente da Losurdo, che spiega perché le speranze rivoluzionarie di estinzione dello Stato o di fine dell’economia di mercato non si erano realizzate, spiega l’importanza che assume per il consolidamento dell’indipendenza politica e per il miglioramento delle condizioni di vita, la necessità di colmare il ritardo economico e tecnico-scientifico dei paesi in lotta; spiega infine quel legame tra rivoluzione comunista e lotte di liberazione nazionale che i marxisti occidentali (Bloch, Horkheimer, Anderson), poco inclini all’analisi delle condizioni storiche oggettive, non riescono a spiegare se non in termini di degenerazione teorica e politica.
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