La serietà del servitore
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Antonio Romano)
Per deplorevole conformazione della lingua essere servitore dello stato non equivale ad essere servo del popolo pur essendo, in democrazia, Popolo e Stato sinonimi. Ha senso distinguere le due figure?
A proposito del delicato rapporto fra politica e giustizia, non si fa mai sufficiente chiarezza sui rapporti che legherebbero la giustizia e il suo cugino deficiente, il giustizialismo: non è mai sufficiente in quanto attiene al tema delicatissimo della conoscenza e della pedagogia sociale. Il problema sembra essere un improprio uso di giustizia, improprio non tanto nei fini o nei modi (anche se poi sfocia in certi fini usando certi modi), ma nel concepimento: per qualcuno la Giustizia non è bendata come la fortuna e non adopera bilancia e spada, bensì spada e livella e ci vede benissimo come la sfiga. Ma come dare conto di questa differenza sottile, che permette ai giustizialisti di dare dei fiancheggiatori ai garantisti e ai garantisti di non saper porre paletti ai giustizialisti? Come discernere i due cugini e isolare quello manettaro, nella dicotomia essenziale fra una giustizia intesa come recupero e unagiustizia intesa come arma? Abbiamo le parole per due giustizie “diverse” e sappiamo nominarle distinguendole?
Per deplorevole conformazione della lingua, è difficile se non impossibile trovare due sinonimi perfettamente equivalenti, e sul punto si potrebbe benissimo osservare che non serve a nulla se non al disordine avere due parole di identico significato e solo di grafie diverse. Anzi, sarebbe molto strano trovare sugli identikit, invece del “maschio bianco” di circostanza, uno sconcertante “uomo candido”. Se fosse solo un problema di sinonimi avremmo difficoltà minori, ma parliamo anche di un cambio di significato in base alla posizione: mentre Francesco De Sanctis può biasimare certi poeti barocchi e le loro “inezie laboriose”, Giorgio Manganelli può esaltarle come laboriose inezie. O viceversa, dato che molto conta anche chi si appropria di simili inversioni: non è secondario chi parla.
Questa condizione riguarda altri scambi di senso che sarebbe molto fruttuoso evocare e investigare. Per esempio, stante che in democrazia Stato e popolo sono sinonimi, ha significato distinguere fra un servitore dello Stato e un servo del popolo? Assodarlo non è un’esigenza peregrina, per più motivi, tra i quali il fatto che – benché sinonime – le due espressioni ci sembrano antitetiche e sembrano perfette per dare immagine rispettivamente alla giustizia e al giustizialismo.
Il primo ha il potere di richiamare alla mente l’immagine molto diffusa di Borsellino e Falcone che confabulano sorridenti. Forse per questo, anche l’immagine del servitore dello Stato nasconde le sue ombre: essendo ormai disagevolmente accostata a una specie di eroe (una volgarizzazione che ha avuto il potere di trasformare i due magistrati antimafia in una specie di duo), questo imprinting permette a chi si richiama all’immagine del servitore dello Stato, come ricordava Sciascia in un famoso articolo del 10 gennaio 1987, di rendere invisibili i suoi routinari doveri amministrativi (chi, dentro o fuori dal partito o dal Csm, rinfaccerà a un sindaco o a un magistrato antimafia di andare troppo in tv a parlare contro la mafia, invece di essere al suo posto per risolvere alluvioni di rifiuti, ingestiti problemi di salute pubblica e smaltire cause?) e di rendersi incriticabile. Ciò dovrebbe indurci a essere cauti su chi se ne appropria.
Molto più auto-evidente, il servo del popolo, espressione di sapore vagamente sovietico (una serie tv ucraina si chiama così), si appresta bene al personaggio di Berlioz del Maestro e Margherita, “presidente di una delle maggiori associazioni letterarie di Mosca, il MASSOLIT”, nonché delatore di scrittori non allineati al regime: insomma, calza a tutta una serie di personaggi che fanno del tema della giustizia un’arma politica (trincerandosi dietro i numi tutelari di Borsellino e Falcone). Quindi, da sembrare tanto distanti, i cugini, essendo sinonimi, si possono ritrovare nello stesso campo: quello del rapporto della giustizia con la politica – non estraneo al tema “etico” del conformismo, che ammette il “buon senso” solo come common sense. Questo, però, non estingue il problema di distinguerli.
Se chi si appropria dell’immagine di servitore dello Stato passa per indiscutibile – nel senso più castalepossibile – eroe, così il servo del popolo è subito rimesso al ruolo di godemiché della maggioranza – nel senso più dittatoriale possibile (anche qui tocchiamo con mano cosa intendiamo per conformismo). Queste due lamelle si collegano nell’immaginario per reciprocità: il primo ha portato la giustizia alle sue estreme conseguenze, richiamandosi a Falcone e Borsellino; il secondo l’ha portata alle sue conseguenze estreme, brandendo orgogliosamente la parola onestà (da cui discendono scontri e scontrini, nonché il limite dei due mandati che impedisce la formazione di una dirigenza politica del M5s). Detto in un tweet, sul piano della comunicazione politica Ingroia è contiguo a Grillo (entrambi presi come semplici pezzi della scacchiera). Li unisce un sostanziale sprezzo dell’equità della bilancia, per l’uguaglianza della livella: la giustizia intesa come vendetta agita contro il potere politico e, come tale, fonte di consenso.
Cosa giustifica allora la distanza fra i sinonimi “servitore” e “servo”? Potrebbe trattarsi di una vertigine letteraria, come quella del Tema del traditore e dell’eroe di Borges: l’eroe della rivoluzione si scopre essere un traditore della rivoluzione e, come tale, giudicato dai cospiratori, accetta d’espiare platealmente la propria condanna a morte e,
animato da questo minuzioso destino che lo redimeva e lo perdeva, più d’una volta arricchì con atti e parole improvvisate il testo del suo giudice.
Da questo esempio si nota che anche il traditore può essere eroico (e non è nemmeno troppo celata la suggestione del destino di Giuda, che in Borges ritorna, ed è espressamente citato Giulio Cesare), a condizione che sia per l’emancipazione della patria. Allora, la differenza non potrebbe stare nel fatto che il servo non ha nulla da insegnare, mentre il servitore ha un esempio da trasmettere? La loro differenza non sta in un problema di conoscenza, dove il primo è strumento passivo (il godemiché) e riflessivo mentre il servitore ha il potere di cambiare il padrone, che nel caso della democrazia è il popolo o lo Stato?
Ciò che, a livello politico o giudiziario, mette uno steccato fra servo e servitore sta nell’esempio – torniamo così al tema della pedagogia, senza il fantasma che essa possa risolversi in un livellamento, in un conformismo etico – che il “chi” che parla pone in essere a partire da se stesso: traditore ed eroe, come servo e servitore, possono essere sinonimi, ma non lo sono più quando diventano strumenti per l’emancipazione della patria, cioè quando è il servus (la radice comune di servo e servitore, l’area semantica in cui sono ancora indistinti) a dare una lezione e il servitore si differenzia dal servo.
Avendo richiamato Falcone e Borsellino, può darsi spazio a un equivoco: che si debba morire per dare una lezione. Ma non è che un diversivo, non necessariamente la morte serve a dare un esempio. Talvolta è sufficiente rimanere in ufficio a smaltire delle pratiche o, per dirla con Antonino Di Maio, insediatosi a fine giugno nell’allegra procura di Trani,
non mi piace la giustizia spettacolo, la giustizia va fatta con gli atti processuali nelle aule dei tribunali […] testa bassa e pedalare.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/filosofia/servitore-dello-stato/
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