L’altra Europa e le illusioni riformiste
di CARLO FORMENTI
Il numero di maggio-giugno della rivista “Il Ponte” è intitolato “Un’altra Europa”, per cui il lettore si aspetta le consuete argomentazioni delle sinistre radicali che auspicano un’evoluzione democratica delle istituzioni comunitarie e/o una svolta di centottanta gradi nella politica economica dell’Unione. Ma gli oltre dieci articoli raccolti nel fascicolo vanno in tutt’altra direzione: queste illusioni riformiste vengono infatti criticate da vari punti di vista; in particolare a partire:
1) dall’analisi della natura costitutivamente oligarchica della Ue e dei principi e valori dell’ordoliberalismo tedesco che ne ispirano il progetto;
2) dalla messa a fuoco delle contraddizioni del processo di globalizzazione e del conseguente acuirsi del conflitto interimperialistico fra grandi potenze;
3) dalla presa d’atto della natura neocoloniale della relazione fra Germania e Paesi della area mediterranea e dell’Est europeo;
4) dall’affermazione della necessità di rompere con la Ue e di dare avvio a processi alternativi di aggregazione fra Paesi periferici.
Per ragioni di spazio, non posso dare conto di tutti gli articoli e delle argomentazioni dei rispettivi autori, per cui mi concentrerò in particolare sui temi trattati negli interventi di Ernesto Screpanti, Luciano Vasapollo e Giorgio Cremaschi, nonché in quello firmato congiuntamente da Marco Baldassari, Diego Melegari e Stefano Zai. Mi pare opportuno partire dal ruolo che l’ossatura ordoliberale dell’architettura comunitaria attribuisce allo Stato (vedi Melegari, Baldassari e Zai).
Contrariamente alla tesi di chi ritiene di cogliere l’”errore” della politica economica europea nel ritorno al dogma dello stato minimo, tipico del liberismo classico, e pensa che tale errore sia correggibile attraverso il ritorno a politiche neokeynesiane, si insiste giustamente (sulle tracce di autori come Dardot e Laval) sul fatto che la visione ordoliberale, adottata fin dalle origini dalla Germania postbellica, nega al contrario la capacità del mercato di autoregolarsi e affida allo Stato – uno Stato forte dunque! – il ruolo di definire un quadro giuridico istituzionale, una vera e propria “costituzione economica”, nel quale i fattori economici possano esplicarsi correttamente (stabilità dei prezzi, protezione della concorrenza da sostegni pubblici e interventi “lobbistici” dei corpi intermedi come i sindacati).
La politica non deve dunque compensare gli effetti del mercato (di qui l’obiettivo di smantellare il welfare) ma garantire il libero sviluppo di un’economia che – in quanto “economia sociale di mercato” – si presenta come un vera e propri utopia, una economia “morale” fondata su un mix di spirito imprenditoriale, valore comunitario e ordine sociale armonico.
Questa funzione di governance (più che di governo in senso classico) non necessita di legittimazione, per cui le critiche alla scarsa democraticità delle istituzioni europee, o alla presunta incompletezza del processo di unificazione politica cadono letteralmente nel vuoto: l’Unione non è uno stato federale “incompiuto”, bensì una superstruttura parastatale che ha il compito di gestire una governance multilivello, una superstruttura rispetto alla quale i trattati assumono valore costituzionale, funzionano come “una costituzione senza stato e senza popolo”.
Di fronte a tale realtà l’unico argomento che consente alle sinistre radicali di coltivare l’illusione riformista di poter democratizzare questa Europa è il dogma (fedele a una sorta di internazionalismo astratto che sconfina nel cosmopolitismo borghese) secondo cui il piano sovranazionale sarebbe l’unico sul quale è possibile rappresentare gli interessi delle classi subalterne.
Un secondo punto che ricorre in diversi articoli riguarda la relazione semicoloniale fra la Germania e gli altri Paesi, mediterranei e dell’Est, dell’Unione e la “necessità” di tale relazione, imposta dai rapporti di forza fra grandi potenze in conflitto reciproco sul mercato globale. Il processo di globalizzazione è stato a lungo trainato (cfr. l’articolo di Screpanti) dalla sostanziale convergenza di interessi fra Stati Uniti e Cina: da un lato, la politica americana di espansione della domanda aggregata che alimentava la crescita di consumi, investimenti e importazioni gonfiando il debito pubblico e privato (e facendolo pagare agli altri Paesi grazie all’egemonia del dollaro), dall’altro, il mercantislismo cinese che sfruttava la politica americana per alimentare i vertiginosi tassi di crescita del proprio surplus commerciale.
La crisi, argomenta Screpanti, ha rotto questi equilibri, inducendo quasi tutti i Paesi ad adottare forme di mercantilismo difensivo che tendono a rallentare lo sviluppo, nella misura in cui rallentano la domanda mondiale di importazioni. Secondo Screpanti, non è tuttavia corretto parlare di fine della globalizzazione, in quanto il processo di internazionalizzazione delle grandi imprese prosegue, anche se entra in contraddizione con il nazionalismo dei grandi stati.
In questo contesto la Germania, il cui modello di sviluppo è stato fin dall’inizio basto sulle esportazioni, tende ad accentuare ulteriormente la pressione sugli altri Paesi dell’Unione imponendo (Cfr. Luciano Vasapollo) una divisione del lavoro che assegna ai Paesi mediterranei il ruolo di importatori, mentre trasferisce all’Est Il sistema industriale per ridurre ulteriormente il costo del lavoro. Del resto il mito della convergenza delle economie nazionali dell’area Ue è tramontato da tempo, di fronte alla forbice che vede un Nord che cresce rapidamente grazie ai surplus commerciali opposto un Sud che cresce lentamente, ha elevati tassi di disoccupazione, debiti pubblici in aumento, bilanci commerciali in deficit e subisce un processo di deindustrializzazione.
Ormai è evidente che l’euro è lo strumento che ha consentito alla Germania di imporre ai soci di finanziare i suoi squilibri di bilancio (soprattutto dopo l’unificazione con l’Est), di costruire un nuovo proletariato industriale per le sue multinazionali e di esercitare un inedito colonialismo interno al polo europeo per sostenere le proprie ambizioni di potenza emergente a livello globale.
Di fronte a tale scenario, che rende irrealistico qualsiasi progetto di riforma di questa Europa, tutti gli articoli sostengono l’inevitabilità, per quelle forze politiche che intendano realmente rappresentare gli interessi delle classi subalterne, di lavorare per la rottura della Ue anche prendendo in considerazione l’ipotesi di un’uscita unilaterale (Italexit) del nostro Paese – uscita che, scrive Screpanti, mentre rappresenterebbe un processo dirompente per tutta l’Unione, non deve farci dimenticare che implicherebbe un prezzo elevato da pagare.
Nel suo articolo Screpanti spiega con quali strumenti, a suo parere, sarebbe possibile ridurre entro limiti accettabili il costo della inevitabile crisi successiva a una rottura. Non ho qui lo spazio per sintetizzarne le complesse argomentazioni sul tema. Tema che Vasapollo affronta da un altro punto di vista, sviluppando la prospettiva della costruzione di un’Europa dei popoli mediterranei in analogia all’alleanza politico-economica messa in atto alle rivoluzioni bolivariane in America Latina.
Più breve, di taglio più politico, forse meno ricco di argomentazioni tecnico giuridiche e tecnico economiche ma decisamente efficace l’articolo di Cremaschi. Qui il tema della crisi della globalizzazione viene – a mio parere giustamente – affrontato meno dal punto di vista delle contraddizioni “oggettive” del sistema, e più da quello della perdita di consenso delle masse popolari nei confronti delle élite che hanno governato il processo negli ultimi decenni.
A causa della crisi, gli avanzi della ricchezza accumulata non hanno più potuto essere ridistribuiti, aggravando ulteriormente gli effetti di una guerra di classe dall’alto che già aveva falcidiato occupazione, salari e welfare, per cui non è un caso se la rivolta è partita proprio in quei Paesi – Stati Uniti e Inghilterra, dove quasi mezzo secolo fa è iniziata la controrivoluzione liberista. Che poi questa rivolta abbia assunto connotati di destra (senza dimenticare tuttavia il caso Sanders!), sia stata cioè egemonizzata da forze che affidano ogni soluzione a un leader, si concentrano esclusivamente sulla lotta alle caste corrotte, dirottano la rabbia popolare sui migranti ecc. non toglie nulla al fatto che questo dissenso politico di massa sia il punto da cui è necessario partire per produrre qualsiasi cambiamento reale.
Le sinistre radicali che continuano ad allearsi alle socialdemocrazie in via di estinzione, o pienamente convertite al liberismo, si autocondannano alla ininfluenza più assoluta, viceversa, chi desidera veramente cambiare le cose deve necessariamente misurarsi con “l’onda populista”. Perché il vero problema ormai non è se ma come usciremo dalla globalizzazione.
Infine, per quanto riguarda l’Italexit, Cremaschi invita a non avere paura di affermare che la rottura con la Ue deve puntare alla sovranità popolare e democratica del nostro Paese, e ribadisce (punto sul quale mi pare che tutti gli autori del numero concordino) che la rottura dev’essere concepita come un momento di transizione verso un nuovo sistema economico e politico “che non è ancora socialista ma non è più neoliberista”.
Carlo Formenti
Fonte:http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=22839
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