Capitalismo di Stato e normalità capitalistica ai tempi della crisi
di MICRO MEGA (Alessandro Somma)
Sino al crollo del Muro di Berlino il confronto tra capitalismo e socialismo aveva monopolizzato l’attenzione degli studiosi. Solo in seguito ci si è dedicati alle varietà di capitalismo, anche e soprattutto per promuovere la diffusione di quella più in linea con l’ortodossia neoliberale, da ritenersi oramai la normalità capitalistica. La crisi ha però incrinato molte certezze, tanto che alcuni hanno ipotizzato un futuro caratterizzato da un ritorno del capitalismo di Stato.
Di qui uno dei tanti motivi di interesse per l’ultima fatica di Vladimiro Giacché: un’antologia degli scritti economici di Lenin introdotta da un ampio saggio in cui si sintetizza e commenta il percorso che ha portato a concepire il comunismo di guerra prima, e la nuova politica economica poi1. È in questa sede che si individuano alcuni punti di contatto tra le teorie economiche leniniane e la situazione attuale, alle quali dedicheremo le riflessioni che seguono.
Ci concentreremo inizialmente sullo scontro tra modelli di capitalismo e sulla possibilità di ricavare dal pensiero Lenin, pur nella radicale diversità dei contesti, alcuni spunti utili al dibattito. Verificheremo poi come attingere da quel pensiero per contribuire a un altro aspetto rilevante per la riflessione sulle varietà del capitalismo: la sua instabilità nel momento in cui prende le distanze dall’ortodossia neoliberale, ovvero l’assenza di alternativa tra il superamento del capitalismo e il ritorno alla normalità capitalistica.
Capitalismo renano vs capitalismo neoamericano
L’epoca in cui si sviluppa il raffronto tra capitalismi è caratterizzata, oltre che dal crollo del socialismo, anche dal trionfo di quanto è stato definito come “capitalismo neoamericano”, la varietà di capitalismo sponsorizzata negli Stati Uniti da Ronald Reagan e nel Regno Unito da Margaret Thatcher. Questa forma di capitalismo si affermava in opposizione a quella incentrata sul cosiddetto compromesso keynesiano, espressivo di una mediazione tra libero mercato e intervento dei pubblici poteri, questi ultimi impegnati in un’estesa regolamentazione della vita economica, oltre che nella definizione di incisive forme di redistribuzione della ricchezza.
Tipica del capitalismo neoamericano è insomma una rinnovata fiducia nella capacità del mercato di autoregolarsi, alla base di una visione conflittuale delle relazioni sociali e di una riduzione di queste ultime alle relazioni economiche. Visione che evidentemente investe anche la concezione dell’impresa, chiamata a massimizzare i profitti degli azionisti e a concepire le relazioni tra datore di lavoro e lavoratori come normali relazioni di mercato, in quanto tali flessibili e precarie. Tipica del capitalismo neoamericano è anche l’idea che lo Stato e la sicurezza sociale siano catalizzatori di inattività e dunque di improduttività, ovvero una sorta di effetto negativo della modernità. Per questo motivo il capitalismo neoamericano contempla una ridotta pressione fiscale in funzione perequativa, mentre affida la previdenza sociale al mercato e contiene al massimo le limitazioni alla negoziabilità di beni come la salute o l’educazione2.
Opposto al capitalismo neoamericano è quello definito “renano”, realizzatosi in Germania, per certi aspetti assimilabile a quello tipico dei Paesi del Nord Europa e del Giappone. Questa variante di capitalismo comprende una visione delle imprese come comunità complesse bisognose di armonia, esattamente come la comunità statale nel suo complesso, per questo governata attraverso una vasta rete di strutture di matrice corporativa. Ecco la ragione per cui è tipica del capitalismo renano un’organizzazione del lavoro incentrata su rapporti contrattuali stabili e duraturi, e soprattutto non subordinata al fine di massimizzare il profitto azionario.
Tipica è poi la ricomposizione cooperativa dei conflitti tra datori di lavoro e lavoratori, e una gestione dell’impresa comprendente la partecipazione di questi ultimi alla sua amministrazione: gli azionisti non sono i signori dell’impresa, le cui sorti sono decise con il tendenziale coinvolgimento di tutte le sue componenti, e in parte della comunità sociale in cui opera. Assolve infine alla funzione di indurre cooperazione, oltre che pacificazione sociale in genere, anche la particolare estensione dello Stato e della sicurezza sociale prevista dal capitalismo renano. Quest’ultimo è infatti caratterizzato da una elevata spesa pensionistica e sanitaria, finanziata da una pressione fiscale altrettanto elevata, così come da una ridotta negoziabilità dei beni funzionali a soddisfare i diritti sociali3.
Questa tassonomia, come altre proposte nello stesso periodo4, fotografano una situazione che per molti aspetti non appare più attuale, se non altro in quanto alla fine del socialismo ha corrisposto una convergenza dei modelli di capitalismo. E quest’ultima, per quanto abbia fatto i conti con il contesto istituzionale di partenza, si è registrata sul terreno tipico del capitalismo neoamericano, piuttosto che su quello del capitalismo renano: viviamo una fase di incalzante “americanizzazione”5.
Tipico del capitalismo renano era il rapporto stretto tra imprese e banche, le seconde principali finanziatrici delle prime, alla base di un sistema di partecipazioni incrociate destinato ad amplificare il punto di vista della collettività nell’esercizio dell’attività economica. E proprio in questo ambito si evidenziano i cambiamenti maggiori, tutti riconducibili al processo di finanziarizzazione dell’economia, che ha reso il mercato dei capitali il principale canale di finanziamento delle imprese: l’istituzione principe attorno a cui ridisegnare la mappa del capitalismo6.
Ugualmente sbilanciata è la convergenza dei modelli di capitalismo quanto al peso attribuito alle liberalizzazioni e privatizzazioni in campi che in area europea continentale erano un tempo sottratti all’operare del libero mercato. Lo stesso vale evidentemente per il modo di intendere lo Stato e la sicurezza sociale, che persino nella patria del capitalismo renano sono stati fortemente ridimensionati. Per non dire poi della progressiva e inarrestabile diminuzione delle tutele nel lavoro dipendente, sempre più accettate nella misura appena necessaria e sufficiente a produrre, più che riscatto, pacificazione e cooperazione sociale.
Nuovo capitalismo di Stato
Sino allo scoppio della crisi il quadro delineato sembrava immutabile: la convergenza verso un modello unico di capitalismo, sempre più aderente all’ortodossia neoliberale e dunque incentrato sui parametri di quello neoamericano, indicava una linea evolutiva apparentemente priva di alternative. Le cose sarebbero però cambiate per effetto delle modalità adottate per affrontare le conseguenze della crisi proprio nel Paese che diede i natali al capitalismo neoamericano. Modalità decisamente poco in linea con l’intento di marcare la distanza dall’interventismo in economia, intento costitutivo della reazione al capitalismo renano e ciò nonostante rinnegato addirittura da un’amministrazione repubblicana, quella presieduta da George W. Bush.
Esemplare da questo punto di vista il programma per l’acquisto di titoli tossici dagli istituti di credito (Tarp, Toubled assets relief program), voluto dall’allora Ministro del tesoro Henry Paulson: il programma prevedeva che in cambio dell’acquisto lo Stato ottenesse azioni privilegiate, ovvero che divenisse esso stesso imprenditore7. E lo stesso è avvenuto nella ristrutturazione dell’industria automobilistica, a cui si sono destinate risorse provenienti dal fondo istituito a favore delle banche nell’ambito dell’Automotive Industry Finance Program. Il salvataggio ha riguardato in particolare General Motors e Chrysler, delle quali lo Stato è divenuto azionista, incidendo fortemente sulle scelte imprenditoriali: si sa che fu l’amministrazione Obama a coinvolgere Fiat nel salvataggio di Chrysler, il tutto con la benedizione della Corte suprema statunitense8.
Queste e altre misure dello stesso tenore, adottate in modo più o meno diffuso in diversi Paesi colpiti dalla crisi, sono alla base dell’approfondimento dedicato da un noto settimanale inglese, tradizionale sostenitore del libero mercato, alla “ascesa del capitalismo di Stato”, richiamato nel saggio introduttivo di Giacchè (91). L’approfondimento, significativamente intitolato “la mano visibile”9, sintetizza le vicende degli ultimi decenni come transizione dalla credenza nel libero mercato alimentata da Margaret Thatcher e Ronald Reagan, a una nuova commistione tra capitalismo e interventismo dei pubblici poteri, affermatasi come reazione alla crisi. Una simile evoluzione mostrerebbe come il punto di riferimento per la costruzione dell’ordine economico sia divenuta la Cina, non a caso “la grande economia di maggior successo al mondo”, nella quale il governo è il principale azionista delle imprese nazionali.
Sono però altri i Paesi che si riconoscono in questa ricetta e che grazie a essa ottengono risultati di tutto rispetto: “il capitalismo di Stato è in marcia”, e se la Cina è indubbiamente la patria del capitalismo di Stato (80% delle imprese in mano pubblica), non sono da meno la Russia (62%) e il Brasile (38%)10. Questa forma di capitalismo è del resto considerata tipica delle cosiddette economie emergenti, e in particolare dei Paesi del Brics: Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa11. E si appresterebbe ora, come abbiamo detto per effetto della crisi, a divenire un punto di riferimento anche per i Paesi nei quali prevale il capitalismo neoamericano, per tradizione o in seguito alla regressione del capitalismo renano.
Potere, beni comuni e nazionalismo economico
Ovviamente si parla qui di “nuovo capitalismo di Stato”, distinto da quello vecchio in quanto privo dell’antica carica ideologica, che anche per questo comprende livelli di interventismo differenziati in base alle caratteristiche del contesto12. Risiederebbe proprio in questo la sua forza performante, fondata per un verso sull’azione dei pubblici poteri, ma per un altro sulla loro capacità di muoversi valorizzando le istituzioni del libero mercato. Quindi, tra l’altro, accettando di operare in un contesto globalizzato, rifuggendo la carica mercantilistica tipica delle economie chiuse entro cui operava il “vecchio” capitalismo di Stato13.
Ma sono altre e numerose le differenze tra il vecchio e il nuovo capitalismo di Stato. E tutte puntualmente ricostruibili ricorrendo alla preziosa antologia curata da Giacché, oltre che alle sue annotazioni, che si sviluppano proprio a partire dalla funzione del capitalismo di Stato ai tempi della crisi: socializzare le perdite e soprattutto addossarle alle classi subalterne. A riprova di come sia opportuno valorizzare le riflessioni di Lenin sulla “centralità del problema del potere” (92) che emerge dalla distinzione tra “capitalismo di Stato che esiste nel regime capitalistico” e “capitalismo di Stato che esiste nel regime comunista”: il primo al servizio della borghesia e il secondo controllato dal proletariato (457) che concentra nelle sue mani “tutte le leve del comando” (478).
Fa bene Giacché a rimarcare questo aspetto, perché porta a concludere che, se il capitalismo di Stato non si risolve in uno strumento di redistribuzione della ricchezza, non è tanto per le modalità con cui esso si esprime, come ad esempio quelle menzionate da Lenin: la concessione, la cooperazione e l’intermediazione commerciale (357 ss.). Queste modalità non sono di per sé alternative a quelle contemplate dal capitalismo di Stato “che esiste in regime capitalistico”, ovvero alle situazioni in cui “il potere statale controlla direttamente certe aziende capitalistiche” (457): come è recentemente avvenuto per porre rimedio alle conseguenze della crisi.
L’attualità di questo aspetto si può verificare considerando il dibattito sui beni comuni: beni per i quali è irrilevante la titolarità pubblica o privata, dal momento che la proprietà viene dissociata dalla gestione14. Quest’ultima è partecipata e coinvolge una sfera soggettiva più ampia di quella che si può individuare attraverso categorie in ultima analisi legate al produttivismo capitalista: come i lavoratori e i consumatori. Il tutto proprio per evitare che la proprietà pubblica sia scambiata per un’istituzione in quanto tale portatrice di emancipazione, ovvero che sia trascurato il tema del controllo sull’esercizio del relativo potere.
Tanto più che le ultime vicende, dalla elezioni statunitensi a quelle francesi passando per la Brexit e l’imperialismo tedesco in area europea, mostrano come il capitalismo di Stato sia ora divenuto una forma di nazionalismo economico: la partecipazione attiva dei pubblici poteri al conflitto planetario per la conquista dei mercati internazionali, e comunque il tentativo di combinare globalizzazione e mercantilismo15. Con il risultato che le novità nel panorama dei modelli di capitalismo sono solo apparenti: assistiamo alla conferma della pervasività del capitalismo neoamericano e dunque del neoliberalismo.
Con variazione attinenti al livello di ingerenza dei pubblici poteri che talvolta si esprime con l’intervento diretto, ora detto nuovo capitalismo di Stato, e talaltra con quello indiretto: ad esempio con l’utilizzo della concorrenza come strumento di direzione politica delle condotte economiche, strumento non meno incisivo e condizionante di una partecipazione azionaria, come ampiamente dimostrato nell’ambito del pensiero ordoliberale16.
Il capitalismo dal volto umano come transizione
Evidentemente, per Lenin, il capitalismo di Stato non costituiva il punto di approdo della rivoluzione, che comprendeva tra l’altro l’abolizione dello scambio mercantile e del denaro (46). Tuttavia, per ottenere un simile risultato, occorreva prima abbattere il sistema patriarcale e il burocratismo ereditato dalla società zarista: il capitalismo “è un male in confronto al socialismo”, e tuttavia “è un bene in confronto al periodo medievale” perché facilita la transizione “dalla piccola produzione al socialismo” (362). Non era però scontato che la promozione del capitalismo, per quanto realizzata sotto il controllo delle forze proletarie, sortisse l’effetto sperato: che il superamento delle strutture sociali premoderne portassero al socialismo e non invece alla modernità borghese. Era cioè possibile la vittoria del “capitalista al quale noi stessi apriamo la porta” e dunque la sconfitta del “potere statale proletario” (403).
Giacché si sofferma su questo aspetto (70 s.), rilevante per la riflessione attuale sul capitalismo anche perché strettamente legato al tema del controllo sull’ingerenza dei pubblici poteri nell’ordine economico. Si offrono qui spunti per valutare la possibilità storica di interventi sul capitalismo capaci di attenuare stabilmente la ruvidità tipica del modello neoamericano in quanto modello vincente: tema a ben vedere affrontato negli anni in cui esso stava prendendo corpo, determinando così la crisi del compromesso keynesiano. Allora si disse che questa vicenda aveva prodotto il ritorno della “normalità capitalistica”17, ovvero a un ordine incentrato sulla proprietà privata e la libera concorrenza.
Come se la costruzione di un capitalismo compatibile con l’aspirazione verso forme di emancipazione individuale e sociale fosse condannata a svilupparsi secondo due scenari alternativi: il superamento del capitalismo o la sua riaffermazione come teoria e pratica della sopraffazione. Senza che vi fosse la possibilità di una soluzione diversa: il capitalismo senza ortodossia neoliberale non può dar vita a costruzioni resistenti nel tempo.
Lenin pensava che il ritorno alla normalità capitalistica fosse impedito dalle dinamiche stesse del capitalismo: il suo sviluppo avrebbe determinato “la rinascita della classe proletaria” e questa avrebbe consentito la transizione verso il socialismo (403). Anche oggi si sostiene che il capitalismo sia un ordine destinato prima o poi all’autofagia18, ma la realtà fa emergere linee evolutive di tutt’altro tipo. Fa ritenere che non vi siano alternative alla normalità capitalistica, o se si preferisce che non sia possibile sviluppare da parte dei lavoratori forme di controllo sull’esercizio del potere statuale. Del resto, se per un verso il potere statuale non è certo svanito in quanto fondamento primo dell’ordine capitalista, per un altro è sempre più impermeabile al conflitto sociale: è divenuto un dispositivo postpolitico19.
Comunque sia, come osserva Giacché, riflettere sul percorso intellettuale di chi ha inteso abbattere il capitalismo, soprattutto “in un tempo di politici terrorizzati alla sola idea che un regime di cambi fissi abbia fine”, allena alla riflessione critica: induce a vedere nella politica qualcosa di più della mera amministrazione dell’esistente. Un simile esercizio è certamente un’eresia per “un’epoca in cui il pilota automatico è elevato a miglior metodo di governo” (11), ma è più che mai necessario se si vuole imparare a disinserirlo e finalmente invertire la rotta.
NOTE
13 C.A. McNally, How Emerging Forms of Capitalism Are Changing the Global Economic Order, cit., p. 3.
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