La liberazione di Deir Ezzor e la rabbiosa impotenza degli Stati Uniti
di Federico Dezzani
Dopo tre anni di assedio, martedì 5 settembre, le truppe governative siriane hanno rotto l’assedio dell’ISIS attorno alla città di Deir Ezzor, ricongiungendosi con la resistenza militare e la popolazione civile. La vittoria non ha soltanto un forte significato simbolico, ma anche un’evidente valenza strategica: con la liberazione di Deir Ezzor, Damasco e Mosca superano di slancio gli angloamericani nella corsa per il controllo dell’est della Siria, dove si fa sempre più precaria la posizione dei ribelli sostenuti da Washington. Fallito il tentativo di “riagganciarla” al blocco occidentale, la Russia sta emergendo come il nuovo dominus del Medio Oriente: il rinnovo delle sanzioni economiche e le rappresaglie diplomatiche testimoniano l’impotenza degli Stati Uniti, relegati ai margini dei nuovi assetti regionali.
Sfumati anche gli ultimi disegni separatistici
Non c’è alcun dubbio che nei piani degli strateghi angloamericani la città di Deir Ezzor abbia sempre rivestito un ruolo di primo piano: bagnata dal fiume Eufrate, nodo stradale cruciale tra Siria ed Iraq, ricca di idrocarburi, questo centro urbano, che contava 200.000 abitanti prima della guerra, avrebbe dovuto costituire una delle colonne portanti del “Califfato”, la cui nascita è sempre l’inconfessabile priorità nelle cancellerie occidentali. Un’entità politica, di matrice sunnita ed estremista, collocata nel cuore del Medio Oriente, affiancata da un Kurdistan ritagliato anch’esso tra Siria, Iraq e Turchia: due nuovi corpi politici, studiati per impedire all’Iran di proiettarsi fino al Mediterraneo e garantire la supremazia angloamericana in una regione balcanizzata.
Sull’asse Raqqa-Ramadi, la città di Deir Ezzor è sempre mancata all’appello, anche quando sembrava (2014-2015) che il Califfato fosse ormai una realtà acquisita: all’avanzare dell’ISIS, la guarnigione locale si asserraglia in città ed avvia una strenua resistenza contro gli assedianti. Di fronte alla tenacia di quest’enclave governativa, nel settembre 2016 la coalizione a guida americana lancia “per errore” una serie di raid aerei: muoiono 62 soldati dell’Esercito Arabo Siriano ed un centinaio rimangono feriti, suscitando le ire di Mosca e Damasco1. L’immediata offensiva dell’ISIS fallisce però l’impresa di scardinare le difese e quando, nel gennaio successivo, i miliziani conquisteranno infine l’aeroporto della città, i russi ricorreranno ad un ponte aereo per garantire il rifornimento degli assediati2. È sempre dall’aria, dimensione in cui sinora gli angloamericani hanno sempre avuto un’indiscussa supremazia, che il 5 settembre è arrivata la svolta decisiva: i missili Kalibr, partita dalla nave da guerra russa “Ammiraglio Essen”, attraversano i cieli della Siria per piombare sugli ultimi bastioni dell’ISIS, consentendo ai parà dell’ormai famigerato generale Zahr Eddine di rompere definitivamente l’assedio3 (nel corso delle operazioni perdono la vita anche due “consulenti” russi4).
Grande è l’esultanza sugli organi di stampa di Damasco, ma il commento più significativo è certamente quello rilasciato dal presidente Vladimir Putin al vertice dei BRICS, che si svolge in contemporanea in Cina. Commentando gli ultimi sviluppi militari, Putin afferma5:
“The situation in Syria is changing dramatically, and that is an obvious fact. I hope that our partners will follow through with their effort in Raqqa. And Deir ez-Zor is a strategic military stronghold for the entire radical opposition – radical in the worst sense of the word, the ISIS-affiliated opposition. As soon as the operation in Deir ez-Zor is finished, the terrorists will suffer a very serious defeat and the government forces will get an obvious advantage. Then the next step would be to foster the ceasefire and the de-escalation zones and to fully establish the political process,”
La liberazione di Deir Ezzor ha ripercussioni strategiche, tali da mutare il quadro generale in Siria: già, perché sventa i residui disegni separatistici coltivati dagli angloamericani. Fallito il tentativo di smembrare l’intera Siria, persa la città di Aleppo, sfuggita la presa su Palmira, l’obbiettivo minimo era quello di conservare nella sfera atlantica l’est del Paese, installandovi ribelli più o meno “moderati” ed impedendo la nascita del temutissimo corridoio Damasco-Baghdad-Teheran. La riconquista di Deir Ezzor da parte delle truppe governative compromette irreparabilmente gli ultimi piani di balcanizzazione e getta un’ombra anche sull’ultima testa di ponte angloamericana in Siria: quanto potranno resistere a Raqqa i curdi delle Syrian Democratic Forces, schiacciati tra una Turchia ostile e le truppe di Damasco che risalgono il fiume Eufrate?
Per il blocco atlantico si profila una sconfitta storica: incuneatosi nel cuore della Mesopotamia con la spedizione di Bush junior, allargatosi all’intero bacino mediterraneo con la rivoluzioni islamiste del 2011, lo schieramento occidentale sta vivendo uno spaventoso reflusso. Respinto in Siria, scaricato in Iraq, inviso in Turchia, sospettato in Egitto, mal digerito in Arabia Saudita. Ed ovunque retroceda l’americano, avanza il russo.
Di fronte alla prospettiva di una clamorosa disfatta (la cui portata, per attori coinvolti e territori interessati, supera la debacle in Vietnam), l’establishment atlantico è furente. Se il presidente Donald Trump fosse stato libero d’agire, si sarebbe tentato di riesumare la vecchia dottrina di Henry Kissinger: accomodamento con Mosca, rottura della triangolazione Russia-Cina-Iran, soluzione concordata in Siria. Ma l’oligarchia atlantica è troppo furente per scendere a patti con l’avversario che si credeva annichilito dopo l’implosione dell’URSS: si avanza così con sterili azioni militari (l’abbattimento del jet siriano dello scorso giugno) e rabbiose mosse diplomatiche. Il 28 luglio il Congresso americano approva con una schiacciante maggioranza l’inasprimento delle sanzioni economiche e finanziarie contro la Russia (e l’Iran): segue a ruota l’espulsione di 755 diplomatici statunitensi da parte del Cremlino e, come contromossa, la chiusura di alcune strutture diplomatiche russe sul suolo americano.
Lo strangolamento mediatico-diplomatico-economico fallisce però miseramente: troppo piccoli, ormai, gli Stati Uniti d’America rispetto “al resto”. Mosca incrementa il dialogo con i BRICS, digerisce la recessione causata dalle sanzioni, continua il suo sostegno al governo siriano, ottiene, dopo Aleppo e Palmira, la strategica vittoria di Deir Ezzor. Non paga, studia come rimettere discretamente un piede in Afghanistan, storico cimitero di eserciti che si è inghiottito Bush junior, Barack Hussein Obama e sta inghiottendo anche Donald Trump.
Mentre i tassi della Federal Reserve e della Banca Centrale Europea rimangono schiacciati sullo zero, la società americana mostra preoccupanti segnali di sfaldamento ed i leader europei, sempre più discreditati, vagheggiano improbabili rilanci dell’integrazione europea: sull’intero Occidente grava oggi una cappa di rabbia, inquietudine ed strisciante angoscia. Si avvertono distintamente gli scricchiolii del prossimo crollo ed uno, più forte degli altri, si è alzato proprio ieri da Deir Ezzor, sulle rive del fiume Eufrate.
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