Vademecum per la difesa della sovranità democratica (no sovranità, no democrazia)
di LUCIANO BARRA CARACCIOLO
1. La sovranità viene oggi strumentalmente intesa come un concetto negativo che nuocerebbe alla pace internazionale e alla “crescita”, che sorgerebbero esclusivamente, ci dicono, per effetto del liberoscambismo più ampio possibile, cioè globalizzato a seguito di scelte politiche istituzionali assunte, in base ad una legittimazione “occulta” ai più, da oligarchie sottratte ad ogni controllo democratico (anche solo formale-elettorale) e, peraltro, trasformate in leggi di diritto interno (di ratifica o “recepimento”, peraltro costituzionalmente disfunzionali come fonti e come contenuti).
Queste leggi di ratifica e “recepimento” del sistema dei trattati corrispondente al diritto internazionale privatizzato (Lordon) vengono ritenute “ineluttabili” da parte degli “attori politici” nazionali che, anzi, così facendo, “valorizzano” il proprio ruolo realizzando interessi, – privati “ristretti” ed economicamente prevalenti-, estranei a quelli per la cui tutela hanno ricevuto il proprio mandato elettorale.
Le due principali obiezioni alla sovranità degli Stati nazionali (in quanto: a) anti-pace e b) anti-crescita), come sappiamo, si rivelano radicalmente false e fondano la propria accettazione acritica, da parte dei popoli oggettivamente danneggiati dalla globalizzazione mediante trattati,sulle “forze materiali sterminate” che creano e mantengono i “centri di irradiazione” di un sistema mediatico-culturale che, ormai, non si accontenta di occultare il vero concetto costituzionale (qui, pp. 9-14) di sovranità (democratica del lavoro), accolto dal diritto internazionale generale e dalle Costituzioni, ma accusa di costituire “fake news” ogni voce di dissenso, quand’anche intesa a richiamare la legalità costituzionale violata nella sua più elementare sostanza.
Forniamo dunque una serie di fonti che consentono – ad ogni cittadino italiano interessato alle sorti del benessere e della libertà propria e della propria famiglia- di verificare i punti essenziali di questa sintetica ma densa premessa. Padroneggiare questi argomenti è la base cosciente indispensabile per poter esercitare in modo “libero e eguale” il diritto di voto.
1a. Sulla natura istituzionale e non spontanea e naturalistica della globalizzazione:
“una “globalizzazione senza regole” non può esistere, perché essa non è un fenomeno “naturale” (come ben sanno i suoi maggiori teorici): la globalizzazione può essere solo un fatto istituzionale, cioè di regole pretesamente “superiori” alle Costituzioni democratiche, promosso ed imposto dal diritto internazionale. Nella nostra epoca, più che mai, dal diritto internazionale di specifici trattati.
I trattati pongono obblighi a carico degli Stati nazionali, e questi divengono il vettore di un’azione di denazionalizzazione e, dunque, di sostituzione dei loro scopi fondamentali (precedenti); vale a dire, inevitabilmente, per virtù della prevalenza reclamata dalle regole del trattato, sostitutivi di quelli che caratterizzano la sovranità costituzionale.
…
Le regole pattizie sovranazionali che impongono la globalizzazione, poi, sono regole di liberoscambismo, cioè di affermazione del dominio dei “mercati” sulle società umane, i cui bisogni, – l’occupazione, la dignità del lavoro, la solidarietà sociale espressa nella cura pubblica dell’istruzione, della previdenza e della sanità- divengono recessivi e subordinati alla “scarsità di risorse” (pp. 4-5), che caratterizza gli squilibri crescenti tra le varie aree del mondo,determinati dalla logica inevitabile del liberoscambismo istituzionalizzato e regolato “contro” le Costituzioni democratiche.
Infatti, l’essenza (supernormativa) del liberoscambismo istituzionalizzato mediante trattati, cioè sempre iper-regolato e vincolante, è quella di rimuovere gli ostacoli (pp. 7-10) alla instaurazione dell’ordine sovranazionale dei mercati, che altro non è che il perseguimento di una specializzazione estesa a livello mondiale (possibilmente; ma soprattutto e sicuramente €uropeo), in base al principio economico dei vantaggi comparati.
…
La globalizzazione è dunque un sistema di regolazione sovranazionale mirato a rafforzare le mire dei paesi (Stati nazionali) che la propugnano, da posizioni iniziali di forza politica ed economica, nel conquistare “i mercati esteri”.
Questo meccanismo fondamentale si esprime inevitabilmente non solo come denazionalizzazione ma anche in termini di privatizzazione (antistatuale) degli interessi tutelati dalle norme istituzionali sulla globalizzazione: la conquista dei mercati avviene da parte dei monopoli e degli oligopoli privati delle nazioni più forti a danno di quelle più deboli e presuppone la minuziosa conservazione dei saldi della contabilità nazionale.
Nulla più della globalizzazione istituzionalizzata indulge a rilevare gli effetti del “vincolo esterno“, cioè dell’indebitamento commerciale (e quindi privato) con l’estero dei vari paesi. E a trarne le conseguenze in termini di politiche che si impongono sui singoli Stati nazionali: politiche, a loro volta, riflesso automatico e condizionale delle regole precostituite nei trattati e per l’azione delle istituzioni organizzate che essi prevedono.
Vi chiederete allora (forse), perchè mai i più deboli aderiscano ai trattati: tendenzialmenteperchè gli Stati, che come abbiamo visto sono gli unici soggetti-parti del diritto internazionale,stanno già subendo, a livello pregiuridico, puramente socio-politico, il rapporto di forza che viene poi ratificato nel trattato; quest’ultimo, appunto, nella logica “transattiva”, mitiga, o consente di offrire un risultato, quantomeno in termini di comunicazione politica, che “deve” essere fatto apparire come utile (o eticamente positivo), ai cittadini-elettori, da parte dei governi che sono gli organi che, per il diritto internazionale, negoziano e concludono i trattati.
…
In un mondo che sostanzialmente vede la diffusione del modello capitalista (liberoscambista) a livello praticamente planetario, i rapporti di forza della comunità internazionale, che una volta erano legati alle dirette “pressioni” esercitate dalle “cannoniere”, sono oggi svolti sul piano essenzialmente economico-finanziario, e ovviamente monetario, e legati sempre più allacapacità di penetrazione dei grandi gruppi finanziari internazionali. Non si tratta più di indagare la prevalenza degli Stati in sé, ma il modo in cui gli stati collimino, nelle loro scelte, con la classe dirigente mondiale, la famosa oligarchia mondiale, e quindi non più con l’interesse nazionale in senso democratico. E su questo il professore coreano di Cambridge Chang nel suo libro “Bad samarhitans” credo offra il punto di vista più lucido.
Molte organizzazioni internazionali sono di fatto oggi dominate dai gruppi economici che utilizzano gli stati per la loro legittimazione formale.
In sede UE, WTO, Banca mondiale, FMI, gli Stati non vanno a rappresentare gli interessi delle componenti sociali che danno luogo all’investitura elettorale, ma sono presenti in quelle sedi con elites definite tecniche, che in realtà sono emanazione diretta di quei gruppi economico-finanziari che sempre più controllano le istituzioni. Lo stato che entra nell’alveo di tale tipo di organizzazione internazionale riflette quindi una scelta quasi irreversibile compiuta da chi ha acquisito una rappresentatività di diritto internazionale fuori dal controllo democratico. Lo stesso Stato nazionale fa sfumare la sua soggettività nell’ambigua, e spesso nascosta, investitura della multinazionale, del grande gruppo finanziario.”
Fortunatamente, e paradossalmente, buona parte del problema ce lo ha già risolto…Amato (qui, p.6.1.):
“Cito in argomento un autore insospettabile di antieuropeismo come Giuliano Amato(Costituzione europea e parlamenti, Nomos, 2002, 1, pag. 15):
“Quando si ratificano i trattati internazionali, in genere si ratificano quelli che disciplinano le relazioni esterne. Quando si ratifica una modifica dei trattati comunitari non si ratifica una decisione che attiene alle relazioni esterne, ma una decisione che attiene al governo degli affari interni.
Il processo di ratifica così com’è è congegnato è allora del tutto inadatto ad assicurare ai parlamenti il ruolo che ad essi spetta rispetto agli affari interni.
Il procedimento di ratifica è tarato sull’essere ed il poter essere un potere intrinsecamente dei governi esercitato sotto il controllo dei parlamenti. Tant’è vero che la legge di ratifica è una legge di approvazione e non è una legge in senso formale.”
Ma il vero clou del paradosso, dicevo, consiste nel fatto che “la politica dei piccoli passi nel processo di integrazione comunitaria ha fatto sì che mai nessuno abbia detto espressamente che, con i Trattati che si andavano stipulando, si stava costruendo una nuova costituzione.” (Luciani, op. cit., pagg. 85-6).
…
Un secondo punto da conoscere è quello relativo alla pretesa supremazia dei trattati sul diritto nazionale (e citiamo sempre il post di Arturo che, comunque, ha preannunziato di approfondire ulteriormente la questione):
“Dopo il fallimento del progetto di costituzione europea a seguito dei due referendum francese e olandese, il 22 giugno del 2007 la Presidenza del Consiglio Europeo se n’è uscito conquesta solenne dichiarazione:
“L’approccio costituzionale (ndr; in sede di trattato sull’unione europea), che consiste nell’abrogare tutti i Trattati e rimpiazzarli con un singolo testo definito “Costituzione” è abbandonato. […] Il TUE e il TFUE non avranno un carattere costituzionale.
La terminologia usata nei Trattati rifletterà questo cambiamento: il termine “costituzione” non verrà usato […]. Con riguardo alla supremazia del diritto comunitario, la conferenza intergovernativa adotterà una dichiarazione ricordando l’attuale giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea”.
Tale dichiarazione è diventata la numero 17 allegata all’atto finale della conferenza intergovernativa che ha approvato il Trattato di Lisbona firmato il 13 dicembre 2007, ossia:
“La conferenza ricorda che, per giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell’Unione europea, i trattati e il diritto adottato dall’Unione sulla base dei trattati prevalgono sul diritto degli Stati membri alle condizioni stabilite dalla summenzionata giurisprudenza.
Inoltre, la conferenza ha deciso di allegare al presente atto finale il parere del Servizio giuridico del Consiglio sul primato, riportato nel documento 11197/07 (JUR 260):
«Parere del Servizio giuridico del Consiglio
del 22 giugno 2007
Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia si evince che la preminenza del diritto comunitario è un principio fondamentale del diritto comunitario stesso. Secondo la Corte, tale principio è insito nella natura specifica della Comunità europea. All’epoca della prima sentenza di questa giurisprudenza consolidata (Costa contro ENEL, 15 luglio 1964, causa 6/64 […] non esisteva alcuna menzione di preminenza nel trattato. La situazione è a tutt’oggi immutata. Il fatto che il principio della preminenza non sarà incluso nel futuro trattato non altera in alcun modo l’esistenza del principio stesso e la giurisprudenza esistente della Corte di giustizia.”
…
Premettiamo pure che la “denunzia” di Amato, relativa alla non idoneità della legge di ratifica rispetto ai contenuti in quanto incidenti sugli “affari interni”, è una pregiudiziale di ordine “procedurale” (cioè attiene alla legittimità dello specifico strumento costituzionale nel caso di quei contenuti e con quegli effetti), e prescinde dall’autonoma questione se QUALSIASI strumento (previsto dalla Costituzione, ovviamente), e qualsiasi tipo di dibattito parlamentare, possano introdurre nell’ordinamento quei contenuti: tale questione si risolverebbe, negativamente, alla stregua dell’art.11 Cost. e dei c.d. controlimiti…ove mai fossero applicati da…”qualcuno”: v.qui, p.7, infine.
1.d. Sul ruolo e la portata degli “attori politici” nazionali che si fanno portatori della globalizzazione istituzionalizzata (ben diversa dal fenomeno storico sintetizzabile nel fatto che il progresso tecnologico, nel campo delle comunicazioni, dei trasporti, dei sistemi di produzione, riduca le “distanze fisiche” tra le varie aree del mondo rendendo più agevoli le condizioni di scambio e di investimento, senza che ciò nulla implichi sul radicale mutamento delle condizioni istituzionali, in ciascuno Stato, del perseguire selettivamente gli interessi fondamentali del rispettivo sub-strato sociale, cioè nell’esercizio della sovranità democratica):
La Sassen, famosa teorizzatrice della “città globale”, in un’illuminante intervista, ci dice alcune cose interessanti sui punti a) e b) sopra riassunti, che ci consentono di capire meglio quello c). Proviamo a esaminarle e a commentarle:
1) “…non esiste nessuna persona giuridica che rappresenti le marche globali; quello che esiste invece è uno spazio istituzionale, legale, formalizzato, che è stato prodotto passo dopo passo affinché le aziende globali potessero operarvi.
E questi nuovi regimi giuridici, indispensabili alla geografia globale dei processi economici, sono stati creati e legittimati dallo Stato, attra verso processi di denazionalizzazione. Gli spazi globalizzati non nascono dal nulla, ma sono stati creati attraverso un importantissimo lavoro altamente specializzato compiuto dallo stato. Questo significa che all’interno dello stato nazionale ci sono alcuni settori che risultano essenziali per edificare uno spazio internazionalizzato. In questo senso sostengo che il globale si afferma anche all’interno e per mezzo del nazionale, attraverso un processo di denazionalizzazione portato avanti da alcune componenti dello stato nazionale…
E’ chiaro il concetto? La globalizzazione è frutto di “nuovi regimi giuridici“, che, come sappiamo, fanno capo alla conclusione di trattati internazionali che, – come ammette senza alcuna preoccupazione, anzi, con un certo “apprezzamento”, la Sassen-, constano:
- a) di unpunto di riferimento finale, cioè iltitolare dell’interesse tutelato e realizzato dai trattati, individuato nelle “marche globali” (sarebbe poi a dire, le industrie multinazionali);
- b)un punto di riferimento statuale nazionale, individuato in“alcuni settori“, o “alcune componenti” interne allo Stato nazionale (!) che con un lavoro “altamente specializzato” – cioè di quelli ben retribuiti- portano avanti la denazionalizzazione per edificare uno spazio internazionalizzato nell’interesse non dei cittadini – che, necessariamente, sono coloro nel cui interesse devono agire i vari “settori” dello Stato-, ma delle imprese multinazionali.
Infatti queste, poverine, non avendo una persona giuridica che le tutela (a livello mondiale), si devono accontentare di…catturare settori dello Stato per fargli attuare politiche di proprio interesse…non nazionale!
E la Sassen ce lo dice così, senza battere ciglio, con l’intervistatore, a quanto pare, incapace di scorgere la portata di quanto apertamente affermato!
…
“Perché se riconosciamo i processi di denazionalizzazione, se in altri termini comprendiamo che la globalizzazione è un processo parzialmente endogeno al nazionale piuttosto che a esso esterno, possiamo capire che è proprio all’interno del nazionale che si stanno aprendo nuovi spazi politici potenzialmente globali per tutta una serie di attori confinati nel nazionale. Attori che possono prendere parte alla politica globale non solo attraverso strumenti globali, di cui possono anche non disporre, ma attraverso gli strumenti formali dello stato nazionale…”.
Questo passaggio può apparire un po’ criptico e, addirittura, (nella tentazione di andare oltre), può indurre a soprassedere. Mal ve ne incoglierebbe! Quello che la Sassen ci sta dicendo nel suo metalinguaggio (che l’ha ormai resa celebre) è, tradotto in corretti e concreti termini giuridico-economici:
i politici che assumono il ruolo di promuovere, concludere e, successivamente, attuare i trattati internazionali che tutelano gli interessi delle “marche globali”(=”multinazionali”) acquistano un maggiore e crescente spazio istituzionale, funzionalmente giustificato dallo sviluppo dell’azione agevolatrice già svolta.
Al riguardo, ci basterà rammentare i dati, nudi e crudi, che si offre Ha-Joon Chang, in “Bad Samaritans” (capitolo 1, “The real history of globalization”, pagg.6-14).
Ebbene, già al tempo dei “misfatti” dell’Impero inglese, – che pur ammessi non portano gli storici ad ammettere, altrettanto, la realtà economica conseguente e induce anzi a continuare a lodare gli effetti positivi “per tutti i paesi coinvolti” della globalizzazione “imperialista”dell’800-, l’Asia, che prima dei trattati aveva paesi al vertice dei PIL mondiali (tipicamente la Cina nella prima parte del secolo) crebbe solamente dello 0,4% all’anno tra il 1870 e il 1913.
L’Africa, il più vantato esempio di civilizzazione e progresso free-trade colonialista, crebbe, nello stesso periodo, dello 0,6%.
Europa e USA crebbero invece, rispettivamente, dell’1,3 e dell1,8% in media negli stessi anni.Notare che i paesi dell’America Latina, che nello stesso periodo recuperarono autonomia tariffaria e di politica economica, crebbero allo stesso livello degli USA! (Tralasciamo gli eventi susseguenti alla crisi del ’29, quando i free-traders dominanti, abbandonarono il gold-standard e aumentarono sensibilmente le tariffe alle importazioni, prima nei settori dell’agricoltura e poi in generale nell’industria manifatturiera)
…
Che accadde nel dopoguerra del 1945, quando si verificò il progressivo smantellamento del colonialismo e l’adozione degli Stati interventisti praticamente in tutto il mondo, sviluppato (e in ricostruzione) o in “via di sviluppo” (col tanto deprecato neo-protezionismo, da incentivazione pubblica all’industria nazionale e alla ricerca)?
Riassuntivamente: nei deprecati anni del protezionismo, rigettato come Satana dai vari governatori di tutte le banche centrali del mondo divenute indipendenti, in specie negli anni ’60 e ’70, i paesi in via di sviluppo che adottarono le “politiche “sbagliate” del protezionismo, crebbero del 3% in media all’anno: questo dato, sottolinea Chang, è il migliore che, tutt’ora, abbiano mai accumulato.
Ma gli stessi “paesi sviluppati” crebbero, negli stessi decenni, al ritmo di 3,2% medio all’anno.
…
Poi intervengono le liberalizzazioni nella circolazione dei capitali e gli accordi tariffari: i paesi sviluppati, già negli anni ’80 vedono la crescita media annuale abbattersi al 2,1%.
Anche questi facevano le riforme, e infatti gli effetti di deflazione e rallentamento della crescita si vedono (finanziarizzazione e redistribuzione verso l’alto del reddito crescono a scapito delle invecchiate democrazie sociali). Ma le riforme più intense, sono imposte proprio ai paesi in via di sviluppo, tramite il solito FMI: è qui che si registra il calo della crescita più marcato.
I paesi emergenti, infatti, debitamente “riformati” e “aperti” nelle loro economie, vedono lacrescita praticamente dimezzarsi dal 3% a circa la metà, negli anni ’80-’90, cioè all’1,7 medio annuo.
Ma attenzione: la decrescita “infelice”, cioè l’impoverimento neo-colonizzatore, sarebbero ancora più marcati se si escludessero Cina e India. Infatti, nota Chang, questi paesi si imposero progressivamente alla crescita, realizzando un 30% del prodotto globale dei paesi in via di sviluppo già nel 2000 (dal 12% degli anni ’80): ma India e Cina rifiutarono il Washington Consensus e le “riforme” stile “golden straitjacket” tanto propugnate dal noto Thomas Friedman (che abbiamo già incontrato in questo specifico post).
1.f. Sulla “curiosa” dimenticanza storica che il free-trade globale non sia portatore di imperitura pace (di certo non di “prosperità..), com’è del tutto naturale in quanto si fonda sull’imposizione e amplificazione di rapporti di forza che, ben lungi dal travalicare in “nazionalismo”, tendono a evolversi inevitabilmente in “imperialismo”: cioè in uso della forza da parte, pensate un po’, dei forti (cosa del tutto prevedibile, anzi scontata, ma che il sistema mediatico da ESSI controllato si adopera costantemente di nascondere ai popoli “dominati”) per preservare l’assetto da essi istituzionalizzato, allorché i popoli assoggettati si risveglino nella disperazione materiale e respingano il carattere predatorio del “vincolo esterno” asimmetrico:
“Keynes, si interroga sulla efficacia dell’internazionalismo economico relativamente all’ottenimento della pace (sempre nei limiti di contesto, punto di osservazione, e di momento storico, fin qui tratteggiati; cfr; pagg.95-98):
“…al momento attuale non sembra logico che la salvaguardia e la garanzia della pace internazionale siano rappresentate da una grande concentrazione degli sforzi nazionali per conquistare i mercati esteri, dalla penetrazione, da parte delle risorse e dell’influenza di capitali stranieri, nella struttura economica di un paese e dalla stretta dipendenza della nostra vita economica dalle fluttuazioni delle politiche economiche di paesi stranieri.
Alla luce dell’esperienza e della prudenza, è più facile arguire proprio il contrario.
La protezione degli attuali interessi stranieri di un paese, la conquista di nuovi mercati, il progresso dell’imperialismo economico, sono una parte difficilmente evitabile di un sistema che punta al massimo di specializzazione internazionale e di diffusione geografica del capitale, a prescindere dalla residenza del suo proprietario.
…Ma quando lo stesso principio (ndr; di scissione tra proprietà “azionaria” del capitale e gestione dell’impresa multinazionale, cioè che investe all’estero) è applicato su scala internazionale, esso è, in periodi di difficoltà, intollerabile: io non sono responsabile di ciò che posseggo e coloro che gestiscono non sono responsabili verso la mia proprietà non sono responsabili nei miei confronti. Vi può essere qualche calcolo finanziario che mostra i vantaggi di investire i miei risparmi in qualche parte della Terra, mettendo in evidenza la più elevata efficienza marginale del capitale o il più elevato daggio d’interesse ch eposso ricavare. Ma l’esperienza dimostra sempre di più che quando si considerino le relazioni tra gli uomini, il distacco tra proprietà e gestione è un male, e che esso quasi sicuramente, nel lungo periodo, provocherà tensioni e antagonismi, facendo fallire il calcolo finanziario.”
…
Sulla scorta di questa premessa previsionale, relativa a “tensioni e antagonismi” che, col senno di poi, paiono un understatement rispetto agli eventi che si produrrano sulla scena mondiale,Keynes azzarda una ricetta, applicando la quale per tempo si sarebbe potuto evitare il disastro.
I paesi colonizzati, in questo schema, avrebbero avuto un necessario grado di autonomia politica per poter sviluppare, con un ragionevole protezionismo (qui, p.6), l’infant capitalism(ben prima della fase del trentennio d’oro), i mostri del nazi-fascismo sarebbero stati (forse) in gran parte ridimensionati, sul piano delle stesse motivazioni sovrastrutturali che li animavano, dalla riapertura dei giochi (specie sulle materie prime,) e delle conseguenti “gerarchie” che erano la giustificazione per la conservazione degli imperi coloniali europei; la stessa tendenza al gold-strandard e alle politiche di bilancio austere in caso di crisi, incentrate sul riequilibrio naturale dei prezzi e dei salari, avulse dalla politica delle bilance di pagamento in attivo (o del loro equilibrio raggiunto a scapito della permanente dipendenza economica delle aree coloniali), avrebbero perso gran parte della loro implicita ragione politica (molto più forte, già allora, di quella economico-scientifica, essendo in corso già le conseguenze della crisi del ’29).
…
In conclusione, a complemento del discorso svolto da Keynes, ci pare opportuno riportarel’analisi di Gramsci (citata da Francesco), che con la sua consueta nitidezza, tratteggia, in raccordo alle stesse intuizioni keynesiane, una cornice storico-economica che, oggi, risulta più che mai attuale; la visione gramsciana, infatti, appare capace di descrivere le analoghe tensioni a cui sono esposte, sempre a causa dell’ordine internazionale dei mercati come paradigma che si deve affermare a qualsiasi costo, la pace e il democratico benessere dei popoli:
“Lontani anni luce da Gramsci che non si era fatto attrarre da tali sirene,consapevole della vocazione globale del capitalismo mercataro e del falso mito dell’internazionalismo: “Tutta la tradizione liberale è contro lo Stato. […] La concorrenza è la nemica più accerrima dello stato. La stessa idea dell’Internazionale è di origine liberale; Marx la assunse dalla scuola di Cobden e dalla propaganda per il libero scambio, ma criticamente” (A. Gramsci, L’Ordine nuovo, 1919-1920, Torino, 1954, 380).
E sulla “globalizzazione”, diversamente da rapporti inter-nazionali tra Stati sovrani come concepita, già allora scriveva: “Il mito della guerra – l’unità del mondo nella Società delle Nazioni – si è realizzato nei modi e nella forma che poteva realizzarsi in regime di proprietà privata e nazionale: nel monopolio del globo esercitato e sfruttato dagli anglosassoni. La vita economica e politica degli Stati è controllata strettamente dal capitalismo angloamericano. […] Lo Stato nazionale è morto, diventando una sfera di influenza, un monopolio in mano a stranieri. Il mondo è “unificato” nel senso che si è creata una gerarchia mondiale che tutto il mondo disciplina e controlla autoritariamente; è avvenuta la concentrazione massima della proprietà privata, tutto il mondo è un trust in mano di qualche decina di banchieri, armatori e industriali anglosassoni” (A. Gramsci, L’Ordine nuovo, cit. 227-28).
(A proposito: chi mi ritrova il commento, credo di Arturo, ove era riportato il discorso di Hitler sulla politica economica salariale legata alla sola crescita reale del prodotto e in condizioni di gold standard, cioè dando priorità alle esportazioni?)
Fonte: http://orizzonte48.blogspot.it/2017/09/vademecum-per-la-difesa-della-sovranita.html
Commenti recenti