La ragione neoliberista e i suoi critici Al tempo della Globalizzazione (1a parte)
di SINISTRA IN RETE (Giorgio Mele)
Per la 2a parte, leggi QUI: https://appelloalpopolo.it/?p=34410
La fine del compromesso socialdemocratico e il mercato globalizzato mettono in discussione uguaglianza e democrazia. La crisi aperta dal 2008 svela i limiti del modello, ma non emerge ancora un’alternativa di sistema. Le diverse analisi critiche e le proposte di intervento elaborate da Picketty, Stiglitz, Rosanvallon, Streeck, Dardot e Laval.
Quali sono gli elementi che caratterizzano questa epoca detta della globalizzazione neoliberista? [1].
A me sembra che si possano riassumere in questo modo:
a) il dominio del mercato;
b) l’eclissi della uguaglianza; c) la crisi della democrazia;
d) la scomparsa di un disegno alternativo allo stato di cose presente.
Come evidente i quattro elementi non possono essere presi singolarmente, ma sono profondamente intrecciati fra loro e tutti concorrono al dominio del neoliberismo che si presenta non solo come la potenza, dominante, ma come la struttura naturale del mondo, o meglio, la ragione[2] del mondo.
Marx nella Ideologia tedesca nel 1845 scrive con qualche capacità previsionale e come se parlasse a questo secolo: “Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l’allargarsi dell’attività sul piano storico universale, sono stati asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del cosiddetto Spirito del mondo, Weltgeist, etc.) a un potere che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale”.[3]
Il capitale inteso in ultima istanza, come dice Marx, come mercato mondiale è oggi la “situazione del mondo” che ha immanentizzato la ragione, che accoglie dentro di sé, relativizzandole, tutte le domande di senso. E’ la dimensione naturalmente immediata in cui ogni individuo è immesso, gettato. Ma la ragione neoliberista è una ragione deviata tesa alla giustificazione della metamorfosi negativa del mondo. Come afferma Jean Luc-Nancy[4] la globalizzazione ha trasformato il globo in “glomus“, pura agglomerazione, ammasso, accumulazione che concentra il benessere nelle mani di poche persone, tutto da una parte, e tutto il resto, una infinita miseria, altrove. Nel glomus si assiste simultaneamente alla crescita indefinita della tecnoscienza, alla crescita correlativa della popolazione, all’aggravamento delle ineguaglianze di ogni tipo e allo smarrimento delle certezze, delle immagini e delle identità che componevano il nostro mondo e la nostra umanità.
Pur tuttavia il neoliberismo, in quanto ragione del mondo, ha la forza di presentarsi come l’unico modo di vivere possibile senza alternative immaginabili e da questo punta di vista punta ad espungere e neutralizzare la possibilità di qualsiasi pensiero critico, perché “ontologicamente inammissibile”, in quanto esterno ed estraneo alla realtà così com’è. Una nuova e totalitaria forma della concezione “dell’uomo normale”, ma con una potenza pervasiva finora inedita nella storia umana, la razionalità neoliberista si presenta come una forma granitica della governamentalità dell’attuale forma capitalistica tesa a organizzare, come ha individuato Michel Foucault, non solo l’azione dei governanti, ma direttamente anche la condotta individuale dei governati.
Con la crisi del 2008 la marcia trionfale del neoliberismo si è interrotta e sono venuti in chiaro i guasti di questa razionalità deviata, a partire dalla voracità e il cinismo dei centri finanziari e i milioni di uomini portati alla disperazione in America come in Europa. Sono finalmente sorti movimenti di resistenza e di opposizione, si è aperta una fase di conflitto aspro in special modo in Europa, con la rivolta popolare ed elettorale in Grecia e in Spagna, la nascita di nuovi leader come Jeremy Corbin o Bernie Sanders, che non rappresentano purtroppo ancora una alternativa al neoliberismo, ma certo un primo importante barlume di speranza in questo senso. A cui però si contrappongono imponenti e pericolosi movimenti di destra o regimi apertamente fascisti come quello ungherese o personaggi grettamente reazionari come Donald Trump negli United States.
Come è noto il nuovo modello sociale e culturale che governa il mondo è l’esito dell’offensiva liberista iniziata a metà degli anni 70. Gli anni a cavallo tra i settanta e gli ottanta fanno da spartiacque della vicenda sociale, politica e culturale dell’occidente. Dalla fine della seconda guerra mondiale e sino alla fine degli anni sessanta, in quasi tutto l’occidente si assiste ad un rafforzamento dei programmi di protezione sociale, che accresce i livelli di benessere di settori crescenti delle classi medio-basse (sia di lavoratori autonomi, che dipendenti).
“Nella maggior parte dei paesi avanzati la spesa sociale si espande anche perché sono anni di sensibile crescita del Pil, di valori legati all’equità, di rafforzamento del potere sindacale; questi elementi determinano sia una estensione delle provvidenze che lo sviluppo delle grandi infrastrutture sociali (scuole, ospedali, edilizia popolare, servizi sociali, ecc) come garanzia di accesso all’educazione, alla salute, alla casa, il tutto attraverso un ruolo molto attivo dei sindacati e in presenza di un clima politico culturale aperto agli interventi dello Stato in campo sociale quale strumento di redistribuzione del reddito e della ricchezza (non a caso questo periodo viene unanimemente definito come l’epoca d’oro dello stato sociale)” [5].
Nel 1942 Lord William Beveridge (1879 – 1963, Regno Unito) presentò un Rapporto in cui si delineavano i caratteri essenziali di un moderno stato sociale che doveva essere gestito da un’unica entità e, quindi, centralizzato per una maggiore efficienza ed economicità ; essere universale ( accessibile a tutte le classi sociali senza alcun limite di reddito e coprire tutte le evenienze ) e finalizzato alla sconfitta di cinque flagelli : l’insicurezza del reddito, la malattia, l’ignoranza, la miseria, l’ozio determinato dalla disoccupazione. Conseguentemente venivano indicate politiche e provvedimenti di grande importanza come un reddito minimo sufficiente, nel momento in cui la capacità di guadagnare del singolo si interrompe per svariati motivi; assegni familiari per i figli sino a 15 anni, servizi per la salute, per l’educazione e, naturalmente, politiche per la piena occupazione perché nessun piano sarebbe finanziariamente sostenibile in presenza di una disoccupazione di massa.
La proposta di Beveridge ebbe una grande eco e contribuì in maniera determinante all’accettazione e alla diffusione, subito dopo la seconda guerra mondiale dell’idea di uno Stato capace di farsi carico di tutti i problemi sociali dei suoi cittadini in ogni momento della loro esistenza. Questa proposta politica troverà una legittimazione importante nella formulazione delle grandi costituzioni democratiche post belliche e nella carta dei diritti dell’ONU. A partire dalla fine della seconda guerra mondiale si avvia, certo con differenze e contraddizioni, in tutto l’occidente sia capitalistico che socialista, la stagione più avanzata dal punto di vista sociale di tutta la storia umana.
Il fatto che ciò sia avvenuto dopo il conflitto più devastante e distruttivo della storia del mondo non è un fatto marginale, ma forse una delle cause determinanti. Thomas Piketty[6] spiega nel suo ultimo lavoro che la costituzione dello stato sociale è direttamente collegata con l’ampliarsi delle leve della fiscalità. Fino al 1914 le imposte equivalevano al 10% del reddito nazionale, per cui l’intervento dello stato nell’economia e nel sociale era minimo[7] . Poteva assolvere solo alle grandi funzioni pubbliche: spese militari in primo luogo, polizia, giustizia, affari esteri, amministrazione in generale; venivano finanziate anche alcune infrastrutture minori e un certo numero molto limitato di scuole, università e centri sanitari. Dal 1918 la devastazione prodotta dal primo conflitto mondiale e il rischio di contagio della rivoluzione russa costringe i governi a istituire la imposta progressiva che porta il prelievo fiscale fino al 40% e in Usa e Gran Bretagna viene approvata addirittura una imposta confiscatoria su quelli che vennero chiamati i redditi eccessivi.
“E’importante – afferma Piketty – comprendere che l’imposta progressiva, decisiva nella costruzione dello stato sociale, è stata il prodotto delle guerre almeno quanto lo è stata della democrazia”[8] . Lo stato liberale aveva la necessità di ricostruire la sua credibilità politica e non poteva farlo senza il consenso di quelli a cui aveva chiesto di combattere e morire nella mattanza della guerra e senza che masse sempre più ampie venissero conquistate dal fascino del comunismo e dalla rivoluzione bolscevica del 1917. Negli Stati uniti questo processo si consoliderà ulteriormente a fronte della crisi del ’29, che imporrà un forte intervento dello Stato.
Ciò che è avvenuto dopo la prima guerra mondiale si rafforzerà con il disastro colossale, inedito, del secondo conflitto mondiale con i suoi cento milioni di morti. Il tasso di prelievo della fiscalità arriverà a toccare in alcuni paesi come gli Usa l’80%. E lo Stato seguendo in forme diverse le indicazioni di Beveridge provvederà a garantire ai cittadini, in primo luogo in Europa, la più ampia fruibilità dei diritti alla salute, alla educazione, alla casa, al lavoro.
Agli inizi degli anni ’70 questo equilibrio si rompe e si apre una crisi di tipo sistemico che cambierà tutto l’assetto dell’economia e della politica mondiale. La crisi nasce negli Stati uniti che, colpiti da spinte speculative, con un debito enorme causato dai costi della guerra ventennale contro il Vietnam, decisero nel 1971 di far saltare gli accordi di Bretton Woods con cui era stata regolata l’economia internazionale dalla fine della seconda guerra mondiale. In questo modo gli USA invece di aumentare le tasse per colmare il proprio deficit, decisero di scaricare i costi enormi della guerra in Vietnam su tutto il mondo con la svalutazione del dollaro. Ciò provocò un pesante contraccolpo in tutto l’occidente, a cui si aggiunse nel ’73 l’esplosione della crisi energetica.
Il cambio di fase, che abbatteva le certezze postbelliche, fece emergere attorno alla metà degli anni settanta analisi economiche sempre più critiche nei confronti dell’intervento dello Stato nell’economia e nel sociale, che consideravano la spesa pubblica e la spesa in campo sociale o inefficaci oppure insostenibili e per questo vennero indicate come le principali cause di tutti i mali dell’economia (riduzione del tasso di crescita del Pil, degli investimenti, inflazione e disoccupazione elevata, debito pubblico, ecc). Queste posizioni trovarono, come noto, la più coerente interpretazione nella scuola di Chicago, che coniò il termine neoliberismo e che sperimenterà le proprie ricette- deregulation, privatizzazione, riduzione delle spese sociali, distruzione del sistema pensionistico pubblico – con determinazione e non casualmente nella giunta cilena di Pinochet e poi in quasi tutti regimi dittatoriali dell’America latina.
La situazione cilena offriva una condizione ottimale per dimostrare al mondo come il neoliberismo fosse la cura migliore per far uscire dalla crisi un paese come il Cile stremato da anni di recessione economica e di lotte sociali. Venne implementato un programma ambizioso di drastiche privatizzazioni di aziende e beni dello Stato, di riforma del mercato del lavoro che rendeva perfettamente “flessibile” la forza-lavoro, di totale apertura all’estero, sia in termini di import/export che di libera circolazione dei capitali in entrata ed uscita. Gli effetti sociali, culturali, ed economici si avvertirono drammaticamente all’inizio degli anni ’80. La maggioranza della società cilena subì un vistoso processo di impoverimento, che colpì i lavoratori attraverso l’aumento esponenziale della disoccupazione e l’abbassamento dei salari, una parte rilevante del ceto medio, soprattutto intellettuale, e le minoranze etniche che vennero espropriate della terra e ghettizzate.
“El milagro chileno”, sostenuto massicciamente da interventi e prestiti finanziari molto generosi degli Stati Uniti si rivelò un disastro, che agli inizi degli anni 80 dovette essere corretto, anche se non abbandonato, perché non sostenibile nemmeno dalla dittatura fascista di Pinochet.
L’esordio storico del neoliberismo mostra plasticamente la sua ostilità, se non la sua contrapposizione alla democrazia. E che la democrazia fosse un problema e dovesse essere limitata viene confermato anche dalla nascita nel 1973 della commissione Trilaterale su iniziativa di David Rockfeller, che riunì altissime personalità della finanza e della politica, docenti universitari, esponenti sindacali e giornalisti provenienti da Stati Uniti, Europa e Giappone. La commissione si riuniva in Giappone e nel 75 viene pubblicato il Rapporto di Kyoto con un titolo significativo, ricco di promesse per il futuro: “La crisi della democrazia”, pubblicato in Italia con la prefazione di Gianni Agnelli. Lo studio denunciava una debolezza strutturale delle democrazie uscite dagli anni sessanta (cioè dalle crisi, a partire dal 68, organizzate e dirette dai poteri forti): debolezza degli esecutivi, perdita di credibilità e di autorità.
La Trilaterale auspicava, come rimedio, una maggiore dose di autorità. Gianni Agnelli, in un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera” il 30 gennaio 1975 afferma: “Probabilmente dovremo avere dei governi molto forti, che siano in grado di far rispettare i piani cui avranno contribuito altre forze oltre a quelle rappresentate in parlamento; probabilmente il potere si sposterà dalle forze politiche tradizionali a quelle che gestiranno la macchina economica; probabilmente i regimi tecnocratici di domani ridurranno lo spazio delle libertà personali. Ma non sempre tutto ciò sarà un male. La tecnologia metterà a nostra disposizione un maggior numero di beni e più a buon mercato”. Personaggi meno eleganti dell’Avvocato come Kissinger, ispiratore del golpe cileno, insisteva ancora con più nettezza sulla incompatibilità tra economia e democrazia.
Dopo gli esperimenti condotti nelle dittature sudamericane negli anni 70, il credo neoliberista si imporrà sempre più in tutto l’Occidente liberale a partire dall’America di Reagan e l’Inghilterra della Thatcher, che non potevano essere conquistati con la forza, ma con una potente operazione culturale e politica, a cui furono chiamati tutti gli apparati culturali e massmediatici, che travolse l’opinione pubblica. Era cominciata l’epoca del “grande freddo” che dura tuttora.
A partire dagli anni 80 in tutto l’occidente verranno introdotte, in misure diverse, provvedimenti di liberalizzazione, privatizzazione, attraverso una rigida selettività nell’erogazione degli aiuti sociali e i costi dei servizi saranno trasferiti gradualmente, ma decisamente, dalla fiscalità generale ai loro diretti fruitori, imponendotariffe sempre più vicine ai costi del servizio stesso e un’ampia liberalizzazione del mercato del lavoro, seguita da un violento attacco al ruolo del sindacato e a tutte le organizzazione dei lavoratori.
Negli anni novanta questo processo avrà uno sviluppo ulteriore con la fine di un’altra guerra, quella fredda, con la caduta dell’URSS e del sistema del cosiddetto socialismo reale e lo sviluppo della globalizzazione, che sancisce definitivamente la crisi dello stato sociale e il passaggio dall’era della solidarietà all’era della concorrenza generalizzata, che è il cuore della ideologia neoliberista. A quel punto non vi sono stati più limiti all’apertura al mercato di diverse aree del sociale e al tendenziale esautoramento del settore pubblico nei grandi comparti della sanità, della previdenza, pensioni, dell’assistenza, della scuola.
“Si assiste, così, ad un processo di internalizzazione dei costi dello stato sociale all’interno dell’unità familiare rispetto all’esternalizzazione sul sistema sociale ed economico; era la vittoria, sancita dalle politiche concrete, dei neo-liberisti, che ritengono che ciascuno debba far fronte agli eventi della vita con le proprie forze e che uno stato sociale universale rappresenti solo un costo eccessivo per la collettività (crisi fiscale), modesti sussidi potranno essere elargiti a coloro che non riusciranno, con le loro forze, a farsi carico degli eventi sgradevoli della vita (i perdenti). Si riapre, così, l’antico conflitto di classe tra chi ha le risorse per accedere ai servizi del mercato (una minoranza) e la maggioranza della popolazione che si ritrova nell’impossibilità di accedervi”.[9]
L’attacco ai fondamenti dello stato sociale ebbe come corollario il ribaltamento della politica fiscale e la messa in discussione della imposta progressiva in primo luogo negli USA e in Gran Bretagna.
In altre parole a partire dagli anni 80 si riapre in tutto l’occidente, e non solo, il problema dell’uguaglianza. L’ampliamento della spesa sociale aveva permesso fino agli anni 70, se non di eliminare, almeno di ridurre le disuguaglianze e di rafforzare di conseguenza la coesione sociale e la democrazia. L’attacco alla spesa sociale degli ultimi tre decenni non risponde solo alla logica contabile degli equilibri di bilancio, ma scaturisce direttamente da una rivincita di classe che ha prodotto nel corso del tempo una divaricazione impressionante della distribuzione delle ricchezze. Si calcola attualmente che il 10% della popolazione mondiale detenga il 58% delle ricchezze, il resto sia diviso tra gli alti 6,3 miliardi di persone. E le ultime cifre indicano che la crisi del 2008 non ha attenuato questa tendenza, anzi l’elite mondiale della ricchezza ha allargato ulteriormente il proprio patrimonio a scapito di tutti gli altri.
In questi ultimi 30 anni si è sviluppata una vera propria “mutazione antiegualitaria” che ha trasformato profondamente la struttura sociale e culturale delle nostre comunità. Si è verificata una sorta di secessione dei ricchi dal resto della civitas, che si presenta nelle forme di un moderno assolutismo, con la formazione di una moderna e ristretta aristocrazia, che guarda con sufficienza e disprezzo il resto del mondo, quelli che non ce la fanno. E domina con protervia secondo le proprie convenienze e interessi. La crescita delle diseguaglianze produce una regressione drammatica della cittadinanza sociale, che svuota dal di dentro anche la cittadinanza politica. “La crescita delle diseguaglianze produce una decomposizione silenziosa del legame sociale e simultaneamente della solidarietà”. E oblitera il principio strutturale della democrazia dei moderni.
“Questo cambiamento di rotta – afferma Rosanvallon – corrisponde a una vera cesura intellettuale nella comprensione dell’essenza dell’ideale democratico. Infatti la rivoluzione americana e quella francese non avevano separato il concetto di democrazia in quanto regime della sovranità del popolo da quello di democrazia come forma di una società degli eguali”[10].
La causa principale della rivoluzione era stata l’insofferenza verso le diseguaglianze e le ricchezze spropositate.
Una risposta
[…] per la 1a parte, vedi QUI: https://appelloalpopolo.it/?p=34408 […]