La ragione neoliberista e i suoi critici Al tempo della Globalizzazione (2a parte)
di SINISTRA IN RETE (Giorgio Mele)
per la 1a parte, vedi QUI: https://appelloalpopolo.it/?p=34408
Tuttavia non possiamo non segnalare come in questi anni, nonostante il mugugno, la diseguaglianza abbia goduto di un consenso diffuso; la sete di giustizia non ha messo in discussione il carattere oggettivo delle disuguaglianze, che vengono ritenute inevitabili nella dinamica economica e sociale. Si condannano le diseguaglianze di fatto mentre si riconoscono come legittime le cause della diseguaglianza che le condizionano. Questo paradosso è l’involucro vischioso da cui occorre uscire se si vuole ricreare una prospettiva di giustizia e se si vuole invertire un corso che sta impoverendo milioni di uomini e di donne.
Guardiamo meglio i caratteri di questo paradosso che è la coltre ideologica neoliberista che ha conquistato il mondo e ha reso l’eguaglianza una “divinità lontana” e impossibile. Il centro di questo disegno potente è stato ed è la ridefinizione della condizione umana, quella che Dardot e Laval chiamano “la costituzione del soggetto neoliberista”, come unica e insuperabile dimensione esistenziale.
La politica di contenimento e smantellamento delle protezioni sociali si accompagnava ad una grande offensiva culturale che aveva l’obiettivo di conquistare il consenso ad essa orientando la “condotta” simbolico/pratica degli uomini. Lo stato sociale o previdenziale non veniva attaccato solo perché produceva deficit, ma anche e soprattutto perché era causa della “demoralizzazione” degli uomini, frustrava la loro dinamicità. I sussidi per la disoccupazione venivano indicati come una delle cause della disoccupazione, perché disincentivano a cercare lavoro, la gratuità degli studi distruggeva la serietà degli studi, le politiche redistributive reprimevano gli sforzi delle persone a cercare altri sbocchi e svalorizzavano la loro personalità.
Lo stato sociale o “burocratico distrugge le virtù della società civile, l’onestà, il senso del lavoro ben fatto, l’impegno personale, la civiltà, il patriottismo”[11]. Il mercato al contrario favorendo l’avidità del guadagno non distrugge la società civile. Mentre lo stato con le sue provvidenze “smorza le spinte della moralità e della dignità individuale”.[12] Il neoliberista è quindi il contrario del degradante uomo assistito e ridà vigore al processo sociale con la sua volontà di autoaffermazione individuale competitiva. La società neoliberista è la società del rischio in cui l’individuo è il solo responsabile della sua sorte, “la società non gli deve nulla, e anzi deve sostenere prove continue per meritare le condizioni della propria esistenza”.[13]
L’uomo immerso nella competizione globale neoliberista quindi non è più un soggetto titolare di diritti, ma semplicemente un soggetto proprietario del proprio capitale umano da spendere nelle diverse offerte che la società privatizzata gli offre e che rischia mettendosi in gioco giorno. Egli deve far conto solo su stesso, sul suo corpo e la sua famiglia, come un capitale da valorizzare; scegliere la migliore scuola, i migliori servizi – tutto privato naturalmente – ne va della propria dignità e considerazione nell’ambito della propria comunità. Occorre dire che il capolavoro del neoliberismo è stato quello di inglobare e valorizzare la spinta all’autonomia individuale che emerse negli anni 60/70, anche a partire dalla rivolta antiautoritaria del 68, ricollocandola, da un quadro solidale proprio di quegli anni, all’interno di una dimensione ipercompetitiva.
L’uomo neoliberista è l’esito di una doppia operazione politico-culturale-sociale, da un lato la retorica del fattore umano tesa a far identificare il lavoratore completamente con la logica d’impresa e con il suo destino e dall’ altro la contemporanea trasformazione del lavoratore in semplice mercanzia con l’erosione progressiva dei suoi diritti, la precarizzazione di tutte «nuove forme di occupazione», la maggiore facilità del licenziamento, l’indebolimento del potere d’acquisto fino all’impoverimento di interi settori delle classi popolari.
La mancanza di un’alternativa culturale a questa visione ha determinato la oggettiva introiezione nel soggetto neoliberista della naturalità della diseguaglianza propria della logica d’impresa, dei rapporti di subordinazione vigenti che essa impone, ed è spinto a ciò dalla convinzione, che in fin dei conti non c’è niente da fare, che il mondo va così e per questo si deve adattare e se non riesce è solo colpa sua. La condizione umana del soggetto neoliberista sembra essere, quindi, una “normalità” unidimensionale senza alternativa: un soggetto imprenditoriale, ontologicamente diseguale, individualisticamente antiegualitario, competitivo, aggressivo, hobbesianamente immerso nella competizione mondiale.
Questa mutazione della condizione umana ridefinisce le categorie sia della cittadinanza sociale che della cittadinanza politica, cambia il senso della politica e della funzione dello Stato e delle istituzioni pubbliche. Il neoliberismo non è antistatalista, non rappresenta un semplice ritorno al passato, non richiede una ritirata dello stato; il suo obiettivo è quello di trasformare la funzione dell’azione pubblica. Le parole d’ordine della dottrina liberista sono “economia, efficienza, efficacia” come strumenti d’azione nella concorrenza generalizzata. Il neohobbesianesimo liberista ha da un lato l’esigenza di destrutturare la funzione sociale dello stato denunciando l’insostenibilità dei suoi costi, ma dall’altro costruire un nuovo Leviatano che usi tutti i mezzi per costringere gli uomini ad accettare il nuovo ordine.
Questa situazione si è fatta ancora più complessa con l’esplodere della crisi del 2008 che ha sconvolto la vita di milioni di uomini e ha aperto un conflitto politico strategico che non si è ancora concluso, perché la crisi non è finita ed è destinata a durare ancora a lungo a segnare di sé varie generazioni future. Le forze neoliberiste, nonostante il fallimento evidente delle loro ricette, tentano di regolare i conti a loro favore e comunque di imporre le loro regole e le loro politiche. In questi anni l’epicentro di questo conflitto è stata l’Europa, il continente del compromesso socialdemocratico, che conserva sacche di resistenza alla deriva liberista a cui è stata imposta quella che Étienne Balibar definisce, una «dittatura commissaria».
La costruzione dell’unità europea nasce infatti con il sigillo della dottrina liberista e cioè con l’imposizione della unità monetaria e con il primato delle politiche di bilancio, al di fuori di qualsiasi controllo democratico. Questa scissione tra politica ed economia ha elevato ad unico governo il sistema finanziario e la Bce, mentre l’unione europea è diventato una sorta di super stato internazionale anch’esso di fatto estraneo alla democrazia dei governi degli stati. Questo predominio della tecnica sulla politica sta alla radice della crisi democratica esplosa a partire dal 2008, e della modalità autoritaria con cui si sono imposte le politiche dette dell’austerità, o delle “riforme strutturali”: deregulation, privatizzazione, riduzione delle spese sociali, tendenzialedistruzione del sistema pensionistico pubblico, liberalizzazione del mercato del lavoro.
Seguendo una rigida interpretazione della disciplina di bilancio, come impone la scuola monetarista e la moneta unica, le economie più deboli, hanno proceduto ad una sorta di “svalutazione interna”, ovvero tagli salariali, tagli alle prestazioni sociali, crescente flessibilità del mercato del lavoro. Ma il processo non ha risparmiato gli strati più deboli delle economie più forti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la distruzione del modello sociale europeo, la mortificazione di popoli, la desertificazione dell’origine dell’Occidente. E in questa desertificazione, sotto la pressione delle tensioni internazionali, si sono pericolosamente affermate le tendenze reazionarie, xenofobe e nazionaliste.
Il punto critico di questa situazione è che non vi è un’altra Weltanschaung, che sappia opporsi con la forza di un punto di vista, un disegno alternativo allo stato di cose presente e all’origine di questa mancanza c’è, come ha sottolineato recentemente Habermas, la volatilità della sinistra che, per la sua maggior parte, ha fatto propria quella che venne chiamata nel 1989 la “verità interna” del pensiero conservatore e neoliberista e cioè l’impossibilità dell’eguaglianza e la centralità non più del lavoro, ma dell’impresa. Ciò che residua della sinistra novecentesca è oggi per lo più parte integrante della ragione liberista.
Nei discorsi della sinistra la parola eguaglianza trova ancora posto, ma “risuona solo come una conchiglia vuota”, come un termine fra gli altri per evocare una maggiore equità, “ma senza più disegnare l’immagine di un mondo desiderabile. Non ha più una portata universale”, sembra una rivendicazione generica, “spesso associata solo all’idea riduttiva di una lotta contro la povertà più evidente, per questo la sinistra ha perso ciò che storicamente aveva costituito la sua forza e la sua legittimità”[14]. Questo inaridirsi della sinistra, la sua resa culturale, ha impedito e impedisce di creare gli anticorpi contro il modello sociale liberista e il connesso degrado della vita democratica risucchiata sempre più dai demoni dell’identità, dell’omogeneità, della xenofobia, della guerra e da una evidente deriva di destra.
A fronte di questa situazione è interessante vedere, anche se a grandi linee, le proposte di intervento degli studiosi già citati e di alcuni altri come Joseph Stiglitz e Wolfgang Streek. In quasi tutti non vi è un disegno alternativo o la proiezione di un modello altro da quello capitalistico. Per lo più si tratta di interventi che mirano alla ricostituzione in forma rinnovata di un compromesso socialdemocratico e alla salvezza dello stato sociale. In questa direzione, ma con proposte molto diverse, vanno gli studi di Joseph Stiglitz, di Thomas Piketty e Wolfgang Streek, Pierre Rosanvallon. Altri propongono pratiche rivoluzionarie e sociali che alludono a un modello sociale alternativo come Toni Negri o Dardot e Laval.
Nel suo ultimo libro “Le nuove regole dell’economia”, Stiglitz ripropone la analisi che è andato svolgendo in questi anni indicando soluzioni che possano correggere le distorsioni della economia globalizzata. Il punto di partenza dello studioso americano è la denuncia del livello insopportabile raggiunto dalla disuguaglianza sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo. Per Stiglitz la disuguaglianza non è stata l’evoluzione naturale del sistema capitalistico ma una scelta che come abbiamo visto si è andata affermando a partire dagli anni 70 con precise regole economiche che hanno ampliato a dismisura il potere del mercato e fatto crescere il potere finanziario.
Ciò ha comportato la creazione di una ristretta elite di dirigenti le cui retribuzioni sono arrivate alle stelle. Questo processo è stato accompagnato dalla fine della politica monetaria finalizzata allo sviluppo della piena occupazione, la riduzione dei diritti dei lavoratori con il crollo “alle fondamenta delle norme di lavoro”. A questo, sostiene Stiglitz, con particolare sguardo al suo paese, si deve aggiungere la crescita della discriminazione razziale e di quella di genere.
A fronte di questa situazione il nostro propone di voltare pagina e riscrivere le regole al fine di “ridurre la disuguaglianza e a migliorare la performance dell’economia”[15]. Le proposte contenute nel suo ultimo libro fanno riferimento alla situazione degli Usa e agiscono fondamentalmente su due fronti di intervento. Il primo intervento “consiste nel contrastare quelle forme di rendita he avvantaggiano indebitamente i più ricchi accrescendo i costi per il resto della società riducendo l’efficienza e la stabilità della nostra economia”[16]. A tal fine si propone di varare regole per ridurre il potere smodato dei mercati e ridurre la autonomia e la tracotanza del potere finanziario che è alla base della crisi del 2008.
Il secondo campo di interventi è quello dedicato, possiamo dire, alla re-istituzione dello stato sociale che in America è stato praticamente azzerato. Sotto questo rispetto Stiglitz propone per il suo paese un programma volto a “ristabilire regole e istituzioni che garantiscano sicurezza e opportunità alla classe media”[17]. E i passi, come sottolinea l’economista americano, sono piuttosto semplici. “Occorre ripristinare la piena occupazione e investire in infrastrutture pubbliche, aggiornare e applicare le norme che tutelano i lavoratori per fare in modo che i salari tengano il passo della produttività, ridurre gli ostacoli della partecipazione al mercato del lavoro specie per le donne, le persone di colore e per gli immigrati”[18]. Infine assicurare ad ogni cittadino “istruzione, cure sanitarie, assistenza all’infanzia, prestazioni finanziarie accessibili e prestazioni pensionistiche adeguate e sicure”. Insomma un programma di ripristino delle precondizioni di base della democrazia che specialmente negli States, ma non solo, sono fortemente deteriorate e in gravissima crisi.
Piketty partendo da un punto di vista simile a Stiglitz e dalla insostenibilità del livello di disuguaglianza raggiunto, propone quella che chiama “un’utopia utile” e cioè una imposta mondiale sul capitale per regolamentare il capitalismo patrimoniale globalizzato. “Perché la democrazia possa riprendere il controllo del capitalismo finanziario globalizzato del nuovo secolo vanno creati strumenti del tutto nuovi adatti alle sfide attuali. Lo strumento ideale sarebbe un’imposta mondiale progressiva sul capitale, accompagnata da un altissimo grado di trasparenza finanziaria.” Secondo lo studioso francese una tale misura sarebbe in grado di arrestare la spirale della disuguaglianza e arginerebbe “l’inquietante” concentrazione mondiale dei patrimoni.
Wolfgang Streek, guardando all’Europa, propone di superare la crisi del vecchio continente attraverso la riacquisizione da parte dei singoli stati della sovranità monetaria, ora appannaggio della carattere sovranazionale dello Stato europeo. La svalutazione è stata lo strumento con cui i singoli stati hanno potuto bilanciare nei decenni passati democrazia e competitività. L’euro è stato un” esperimento frivolo”, che ha impoverito gli stati, per cui per salvaguardare democrazia e stato sociale occorre uscire dalla moneta unica, perché significherebbe avviare una politica che definisca e limiti i confini della cosiddetta globalizzazione. Se la globalizzazione significa sottomissione ad una legge di mercato, allora la soluzione è quella di andar oltre l’euro che “impone proprio questo modello all’Europa”.[19]
Una posizione più radicale e geneticamente diversa è quella esposta da Dardot e Laval nei loro ultimi due libri. I due studiosi francesi, pur sottolineando il carattere pervasivo e vincente del neoliberismo, ricordano a se stessi e al mondo che esso, in quanto costruzione storica, “non è un destino necessario che incatena l’umanità” e che occorre consentire che un nuovo senso del possibile si faccia strada. E che alla ragione neoliberista si opponga un’altra ragione del mondo, la ragione del comune.
A tal fine i due sociologi propongono una rivolta etico-politica di resistenza alla governamentalità neoliberista, che non ha come obiettivo primario il governo delle istituzioni rappresentative, che esercitano una costrizione esterna degli individui, ma quello di costruire una “contro-condotta” umana fondata sul rifiuto della condotta neoliberista e cioè il rifiuto di comportarsi verso se stessi come un’impresa e verso gli altri secondo la modalità competitiva della concorrenza e rifiuto del lavoro come dettato da queste norme. Tale pratica del rifiuto non si fonda su un soggetto collettivo come aveva individuato Marx, né può rimandare alla costituzione di un partito o come di diceva una volta a farsi Stato. Il rifiuto è, in quanto tale, fatto soggettivante che attiva una diversa condotta.
È l’atto di rottura che si determina secondo un “desiderio senza scopo e senza causa”. La sua causa è la rottura della causalità (della produzione, della divisione del lavoro) e gli scopi “non preesistono alla rottura.” Di qui si può ampliare la soggettivazione “secondo le pratiche della comunizzazione del sapere, di mutua assistenza, e di lavoro cooperativo”[20] e disegnare le linee della nuova ragione e governamentalità del comune. Questa pratica, come indicava la riflessione dell’ultimo Foucault, deve contribuire a creare una dissimmetria tra potere e contropotere. Il legame del desiderio con la realtà non deve fuggire o rifugiarsi nelle “forme della rappresentazione”, o dare alla pratica politica valore di verità.
La soggettivazione è moltitudine in movimento non cristallizzabile né temporalmente, né formalmente, è pratica spontanea del comune. Pura distanza dal presente. In questo quadro Dardot e Laval, sembrano riprendere molte delle tesi contenute nelle opere di Toni Negri e Michael Hart, Empire e Moltitude, ma ne contestano radicalmente la tesi principale, ovvero che la moltitudine, i lavoratori cognitivi, la figura sociale di massa del nuovo capitalismo siano pensabili come il nuovo “soggetto” forte e alternativo al capitalismo contemporaneo, ovvero come gli uomini nuovi del comunismo. Una tale idea è un’illusione per Dardot e Laval perché “fondata, (come accadeva anche in Marx per la classe operaia) su un privilegio ontologico di esteriorità che collocherebbe la moltitudine in un al di fuori radicale rispetto ai rapporti di potere in cui gli attori di una società dono da sempre inviluppati”[21].
Non sfugge il fatto che la pratica soggettivante e non soggettiva della politica è conseguente ad una visione non molto convincente del capitale descritto come a-soggettivo, inafferrabile, né precisamente identificabile, per cui la rivoluzione è una modalità di distanziamento critico che agisce sul bordo dell’essere sociale, teso a corrodere la sua struttura come forma concorrente della pratica sociale sulla base di una spinta etica, che si struttura al momento e che non deve costruire sovrastrutture che possano ingabbiare l’individuo. E’ questa, dicono gli autori, “la lezione da trarre a modo nostro dal neoliberismo: il soggetto è sempre da costruire. Il punto è come combinare la soggettivazione con la resistenza al potere”[22]. Il rifiuto etico delle modalità neoliberiste è già di per sé attivazione di politica come affermazione di una contro condotta sociale alternativa che sarà positiva se diventa “un’invenzione collettiva”, prodotta dalla moltiplicazione e dall’intensificazione delle contro-dedotte di cooperazione”.
Devo dire che in questa visione teorica-politica si intrecciano lucidità analitica della contemporaneità e arcaismo politico. Un’attitudine non nuova alla sinistra. Che il neoliberismo si presenti come la ragione del mondo dovrebbe condurre a pensare ad un’altra ragione che però non emerge, non si va oltre la petizione del Comune e delle forme di associazione cooperativistica.
La pratica soggettivante che dovrebbe abbattere il neoliberismo si concretizza simbolicamente in forme, luoghi fisici e politici dove praticare la contro-dedotta antiliberista come esempi da moltiplicare. Un’idea che alla fine scinde politica e struttura sociale e si rinchiude, come è avvenuto in altri momenti, in enclaves di forte alternatività simbolica e di bassa intensità di incidenza strutturale nei meccanismi sociali. In più questa visione antistatuale contraddice uno degli aspetti più importanti della analisi dei nostri autori, i quali diversamente dalla vulgata corrente, spiegano con chiarezza che nel mondo neoliberista non viene meno il ruolo dello stato, che muta, ma rimane l’asse fondamentale della struttura politico sociale e quindi risulta ancor più stupefacente la mancanza di una riflessione strategica su questo punto decisivo o la considerazione della sua inutilità rispetto alla prospettiva rivoluzionaria.
Il nodo attorno a cui si struttura questa visone è il concetto di moltitudine che sia per Dardot e Laval che per Negri e Hardt è la nuova figura sociale indotta dal neoliberismo, che deriva dal carattere globale del capitalismo e dalla conseguente crisi della forma democratica che mette fine alle soggettività novecentesche, a partire dalla nozione di classe operaia. La moltitudine come soggettività non ingabbiabile mette fine all’idea di popolo come riduzione dei molti all’uno e quindi a ciò che ruota attorno ad esso e cioè lo Stato, il sovrano, la volontà generale. La moltitudine si coniuga come risorsa pubblica interpsichica che strutturerebbe una nuova modalità della pratica collettiva esterna ai confini statuali e tendente verso una diversa universalità intesa come preliminare e non come fine. È importante sottolineare che in questa concezione la crisi della democrazia viene assunta come data e non revocabile e si tenta una strutturazione sociale in termini speculari al neoliberismo fuori dagli schemi della democrazia nei termini di uno scontro tra “condotte” concorrenti.
Più complessa, diversa e in generale più convincente la posizione di Rosanvallon che nel suo libro la Società dell’eguaglianza vuole contribuire a ricostruire una prospettiva socialista del XXI secolo e a tal fine indica la necessità di recuperare e rielaborare una nuova e aggiornata concezione dell’eguaglianza, fondata sui concetti di singolarità, reciprocità e comunalità, su cui regolare una nuova politica redistributrice e l’idea di un nuovo modello di sviluppo ispirato alla sobrietà, la quale afferma Rosanvallon, è diventata una condizione perché la specie umana sopravviva. Un nuovo modello di sviluppo è invocato “dal fatto che, sul lungo termine, la crescita si stabilizzerà meccanicamente sull’1 e il 2 %” e sul fatto che la riduzione delle disuguaglianze deve essere associata “ad una impresa di de-mercificazione del mondo, che metta l’accento sullo sviluppo e sulla suddivisione dei beni comuni”.
In un mondo in cui è impossibile abolire le disuguaglianze di reddito e di patrimonio, il mantenimento del posto dedicato ai beni pubblici e allo spazio pubblico rappresenta infatti un elemento decisivo per correggere gli effetti distorsivi delle disuguaglianze. Ma perché questo possa aver luogo occorre, secondo Rosanvallon, anche un progetto di rilegittimazione della democrazia, attraversata da fenomeni di contro-democrazia, intesi sia come necessità di controllo dei cittadini nei confronti dei comportamenti della politica, sia come atteggiamenti di antipolitica.
Occorre una riappropriazione della democrazia attraverso un più complessa e trasparente raccordo/confronto tra potere e società e in questo quadro egli propone anche la ri-nazionalizzazione della democrazia, intesa come recupero roussoviano di un ambito geopolitico compatibile, in cui poter sviluppare la coesione e la solidarietà sociale.
Una risposta
[…] Per la 2a parte, leggi QUI: https://appelloalpopolo.it/?p=34410 […]