La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica (1a parte)
di SINISTRA IN RETE (Riccardo Bellofiore e Joseph Halevi)
Relazione per il convegno LA CRISI GLOBALE. CONTRIBUTI ALLA CRITICA DELLA TEORIA E DELLA POLITICA ECONOMICA (Siena 26-27 Gennaio 2010)
P. M. Sweezy
Il capitalismo è in una crisi ‘sistemica’. Iniziata nell’estate del 2007, a partire dalle difficoltà di un segmento particolare del mercato finanziario statunitense, l’instabilità finanziaria ha finito col contagiare l’intero pianeta. La crisi finanziaria si è tramutata in crisi bancaria, poi, nel giro di un anno, in crisi reale. La recessione sarà lunga. Ammesso e non concesso che la flebile ripresa si confermi, e che non si abbia un doppio salto nella depressione, il capitalismo potrebbe avere davanti a sé una prolungata stagnazione. Torna all’orizzonte la disoccupazione di massa.
La prima fase del neoliberismo: gli anni Ottanta
Per capire meglio la condizione in cui siamo è bene collocare la crisi attuale in un’ottica di lungo periodo(1). Di cosa, esattamente, stiamo vivendo la crisi? Non certo di un ‘liberismo’ sfrenato. Il lungo quarantennio che abbiamo alle spalle, a partire dalla svolta neo-liberista del 1979-1980, tutto è stato meno che una generica ritirata dello Stato, e tanto meno un vuoto della politica economica interventista. E’ sicuramente vero che l’inversione ad U della politica economica alla fine degli anni Sessanta determinò rapidamente una compressione della domanda effettiva. Il drastico aumento dei tassi di interesse nominali e reali e il diffondersi dell’incertezza contribuirono alla caduta degli investimenti privati. Questa prima fase della c.d. svolta neoconservatrice potrebbe essere definita una fase ‘monetarista’, declinata sulla pretesa di controllare l’offerta di moneta per controllare salari e prezzi dei beni e servizi, e insieme sulla convinzione che la curva di Phillips fosse verticale a livelli significativi del tasso di disoccupazione. A ciò si accompagnarono la riduzione della spesa pubblica, soprattutto nella sua componente sociale, e la caduta del consumo dei lavoratori, imputabile alla riduzione della quota dei salari.
Viene spontanea la domanda: come mai la Grande Crisi (da domanda) non si è materializzata già nel corso degli anni Ottanta? La risposta breve è che effettivamente vi fu una tendenza alla Grande Crisi da domanda nei primissimi anni Ottanta, ma che essa fu battuta da controtendenze politiche. La più evidente fu il ‘doppio disavanzo’ reaganiano che tenne sopra il pelo dell’acqua gli Stati Uniti e di rimbalzo, in conseguenza delle maggiori importazioni di quel paese, il resto del mondo: disavanzo del bilancio pubblico, all’interno, da un lato; disavanzo della bilancia corrente, all’esterno. Gli Stati Uniti, con pochi altri paesi più piccoli come Inghilterra, Spagna, Australia, furono lo sbocco di ultima istanza dei neomercantilismi ‘forti’ (come la Germania o il Giappone) o ‘deboli’ (come parte dell’economia italiana).
La seconda fase del neoliberismo: gli anni Novanta
Ma si trattava, appunto, di controtendenze. Il punto da comprendere bene è che, proprio in conseguenza delle dinamiche attivate da questa prima fase ‘monetarista’ della contro-rivoluzione neoliberista, è emerso nel corso degli anni Novanta un ‘nuovo’ capitalismo ancora una volta centrato sugli Stati Uniti e caratterizzato da una sorta di paradossale keynesismo ‘privatizzato’. Questo ‘nuovo’ capitalismo – nuovo rispetto al capitalismo del Novecento, anche se per certi versi risuscita alcuni aspetti del capitalismo dell’Ottocento – si muoveva sulle due gambe della finanziarizzazione (in questo senso lo si può anche definire un keynesismo ‘finanziario’) e della precarizzazione del lavoro. Esso si è retto sull’equilibrio instabile (e alla fine insostenibile) tra le tre figure del lavoratore ‘traumatizzato’, del risparmiatore ‘maniacale’ e del consumatore ‘indebitato’. Vediamo di capire in che senso(2).
Il lavoratore traumatizzato e la ‘centralizzazione senza concentrazione’
La prima figura, il lavoratore traumatizzato, è anche l’esito del rinnovato primato della finanza, ma in una forma originale rispetto al mondo precedente la Prima Guerra Mondiale. Una forma, per di più, che ha prodotto effetti reali significativi – e, si potrebbe dire, capitalisticamente ‘virtuosi’ – sulla gestione della produzione (dunque, sulla valorizzazione immediata), sul modo del finanziamento dell’economia (dunque, sull’immissione della moneta e sulla forma assunta dalla intermediazione finanziaria), sulla domanda effettiva (dunque, sul suo livello e la sua composizione). Durante la stessa fase che è stata impropriamente definita come l’età dell’oro del capitale, e ancora più dopo la sua crisi, si è andato progressivamente affermando quello che Minsky ha chiamato il money-manager capitalism, Aglietta le capitalisme patrimonial, ma che potrebbe anche essere definito come il ‘capitalismo dei fondi pensione’(3). Il risparmio delle ‘famiglie’ viene dirottato nei ‘fondi’ istituzionali. La loro gestione è affidata a ‘specialisti’ ed è inevitabilmente finalizzata a rendimenti il più alti possibile nel brevissimo periodo. I manager delle imprese non finanziarie vengono cooptati con il meccanismo delle stock-option, mentre quelli delle imprese finanziarie possono imporre criteri di corporate governance che incidono radicalmente sulla produzione e sul lavoro.
Ne è sortita una vera e propria ‘centralizzazione senza concentrazione’(4). Nei settori chiave si è assistito a gigantesche fusioni e acquisizioni: la ‘centralizzazione’. Ciò non ha però dato vita a grandi imprese verticalmente integrate – la ‘concentrazione’ – ma ad una ‘rete’ tra unità produttive frammentate. Nel frattempo si era andata praticando tra i global player del manifatturiero e dei servizi una concorrenza sempre più aggressiva anche nelle strategie di investimento, dando così luogo ad un cronico eccesso di offerta in alcuni settori. La catena della produzione del valore si andava riorganizzando profondamente, facendosi autenticamente transnazionale (sono molto utili per comprendere questo processo le analisi di Francesco Garibaldo(5)). La rete di imprese si è stratificata secondo la diversa forza relativa delle singole unità nella filiera. Al polo alto vi sono fornitori di moduli con autonomia imprenditoriale e gestionale, mentre al polo basso si lotta per sopravvivere. Contro la visione troppo facile di un degrado generale in una corsa verso il basso, la condizione dei lavoratori è dipesa dalla collocazione della singola impresa nella filiera.
Anche per queste dinamiche la crescita della produzione non è più sinonimo di espansione di una classe operaia tendenzialmente sempre più omogenea, concentrata nello stesso territorio(6), nella stessa ‘fabbrica’, soggetta ad identiche condizioni materiali, giuridiche, e così via. Il lavoro è stato frammentato e reso sempre più insicuro. La precarietà può sembrare assente ad un polo e devastante ad un altro: essa però condiziona come minaccia anche la condizione dei più ‘garantiti’. Dentro questi caratteri andrebbe inquadrato anche il sempre più esteso lavoro migrante(7). All’indebolimento del mondo del lavoro hanno contribuito il crollo del socialismo reale e l’entrata nel circolo del capitalismo globale di Cina e India, eventi che hanno insieme prodotto un sostanziale raddoppio dell’ ‘esercito industriale di riserva’.
La capital asset inflation e la ‘sussunzione reale’ del lavoro alla finanza e al debito
Le trasformazioni della condizione del lavoro non sono state indipendenti da quella che possiamo definire una vera e propria ‘sussunzione’ del mondo del lavoro alla finanza e al debito: una integrazione subordinata che non è più solo formale, è ormai anche reale. Essa incide nelle condizioni della valorizzazione all’interno della produzione immediata, spingendo i lavoratori a tempi di lavoro più lunghi e più intensi. E’ anche in forza di ciò che estrazione di plusvalore assoluto e estrazione di plusvalore relativo si sono intrecciate sempre più indissolubilmente(8), mentre la dicotomia centro-periferia ha perso la sua connotazione rigida e si è tendenzialmente riprodotta all’interno di ogni area e nazione(9).
Per comprendere meglio l’interconnessione tra dinamiche finanziarie e dinamiche reali quale si istituisce nel corso degli anni Ottanta si deve fare riferimento alla tendenza insita nel capitalismo dei ‘fondi’ a produrre una inflazione nel prezzo dei capital asset. Come ha rilevato Jan Toporowsk(10), l’afflusso crescente di denaro sui mercati finanziari proveniente dai fondi pensione e dai fondi istituzionali ha consentito alle imprese non finanziarie di emettere azioni a costi decrescenti, mentre il rendimento delle ‘attività-capitale’ era sempre più riconducibile alla componente di guadagno speculativo. La capital asset inflation si è accompagnata ad una sovracapitalizzazione delle imprese ‘produttive’. Vista la convenienza di espandere l’investimento finanziario più di quello reale, si emettevano titoli di proprietà in eccesso rispetto ai propri bisogni industriali e commerciali, e il capitale di lungo termine così raccolto veniva investito in attività finanziarie con un orizzonte di corto termine. L’interesse dei gestori di fondi alle rendite finanziarie e alla valorizzazione azionaria si è fuso con l’interesse del management imprenditoriale, attirato dai nuovi meccanismi di remunerazione. Di qui la spettacolare ondata di fusioni e acquisizioni e le selvagge ristrutturazioni delle imprese.
Sui mercati finanziari questi processi hanno stabilito una sistematica tendenza al disequilibrio ‘verso l’alto’, senza alcun meccanismo di riaggiustamento nel breve-medio termine. I ‘mercati’ divenivano sempre più liquidi, la qualità del collaterale migliorava costantemente, i margini di sicurezza erano ex post sempre più rassicuranti. Per questo l’indebitamento crescente delle economie è stato sempre più attribuibile alle imprese finanziarie e alle famiglie, e sempre meno alla dinamica dell’investimento ‘fisico’ delle imprese non finanziarie. Queste ultime avevano sempre meno bisogno delle banche, che a loro volta hanno dovuto cambiare schema di attività. Da agenti preposti in primo luogo alla selezione e al monitoraggio delle imprese ‘produttive’ come debitore principale, hanno dovuto cercare i propri rendimenti nel credito ai consumatori e nelle commissioni legate al processo di cartolarizzazione (il modello originate and distribute).
La capital asset inflation spiega molto della ‘euforia irrazionale’ che è stata pervasiva prima sui mercati azionari e poi sul mercato immobiliare. E’ qui che entrano in gioco le altre due figure che rendono conto del ‘nuovo’ capitalismo, e che sono due facce della stessa medaglia: il risparmiatore nella sua fase ‘maniacale’ e il consumatore sempre più ‘indebitato’. Quando la rivalutazione del prezzo delle azioni o delle case nutre una vera e propria bolla speculativa, è in effetti possibile consumare di più a credito. Il risparmio sul reddito disponibile si riduce o diviene negativo, il consumo si fa autonomo dal reddito e viene gonfiato da un ‘effetto ricchezza’. Tutto ciò, evidentemente, sostiene la domanda effettiva. La deflazione salariale e la decostruzione del mondo del lavoro, da un lato, la capital asset inflation e il crescente leverage di famiglie e finanza, dall’altro lato, sono aspetti complementari di un meccanismo perverso dove sono proprio gli aspetti più tossici della finanza a drogare la crescita reale. Vanno in crisi le visioni tradizionali costruite su una opposizione statica tra capitale ‘industriale’ e capitale ‘fittizio’, tra rendita e profitto, tra produttivo e improduttivo.
Cambia nel frattempo la forma tipica del circuito monetario, sia all’apertura che alla chiusura. L’immissione di moneta-credito nel sistema ha ora come suo punto di partenza privilegiato l’indebitamento delle famiglie e non il finanziamento alla produzione(11). La liquidità immessa nella circolazione dalle banche alle famiglie (direttamente o tramite gli intermediari) viene trasferita dalle famiglie alle imprese sul mercato dei beni e dei servizi, garantendo così anche la realizzazione del valore e plusvalore. Oppure essa viene mantenuta all’interno del mercato finanziario, facendo girare ancora più velocemente il mulinello della rivalutazione dei prezzi delle attività. Si tratta in sostanza di un modo indiretto, ma efficace, di garantire lo stesso finanziamento della produzione alle imprese non finanziarie, mentre la domanda di beni capitali si basa prevalentemente sull’autofinanziamento.
L’indebitamento crescente delle famiglie così come la sovracapitalizzazione delle imprese non finanziarie si appoggiano a loro volta sull’esplosione dell’indebitamento interno alla finanza. In questo mondo incantato si è infatti potuta sbizzarrire senza limiti la fantasia dell’innovazione finanziaria, con la conseguenza di rendere la creazione delle monete ‘private’ del sistema bancario ‘ombra’ quasi totalmente indipendente dalla emissione di moneta da parte del sistema bancario ‘tradizionale’.
Il risparmiatore in fase maniacale, il consumatore indebitato e la nuova politica monetaria
Un quadro del genere sarebbe soggetto a gravi fraintendimenti se non si aggiungessero alcune importanti qualificazioni relative: (i) alla ‘nuova’ politica economica senza la quale il funzionamento fluido di un meccanismo del genere sarebbe stato impossibile; (ii) alle precondizioni istituzionali e geopolitiche che hanno consentito che si mettesse in piedi il mondo del ‘nuovo’ indebitamento privato; (iii) al significato sociale del ‘nuovo’ consumatore, che ne fa l’espressione di una società che si impoverisce e non che si arricchisce.
Per quanto riguarda il primo punto, la ‘nuova’ politica economica, dovrebbe essere ormai chiaro dopo quel che si è detto che il capitalismo degli anni Novanta tutto è stato meno che un capitalismo ‘stagnazionistico’. Ciò è stato però in larga misura dovuto ad una diversa gestione della politica economica, e in particolare ad una manovra eminentemente politica della domanda effettiva (a cui non poteva non corrispondere una particolare composizione della produzione). Si tratta ora di vedere come questa gestione politica della domanda si sia costruita ed articolata.
Il fenomeno del lavoratore ‘traumatizzato’ ha significato che i pericoli sul fronte dell’inflazione non venivano più dal mondo del lavoro. Detto altrimenti, le autorità di politica economica si sono rese progressivamente conto che la disoccupazione poteva ridursi senza provocare tensioni sul salario. Detto altrimenti, la ‘curva di Phillips’, su cui si era incentrata la diatriba tra ‘keynesiani’ e ‘monetaristi’, si è sostanzialmente appiattita(12). Ciò rendeva nuovamente praticabile l’obiettivo di una ‘piena occupazione’. Nel nuovo quadro si poteva trattare però solo della ‘piena sotto-occupazione’ di una forza-lavoro flessibile e precaria. Una piena sotto-occupazione che può rovesciarsi all’improvviso nella disoccupazione di massa, come vediamo accadere ai nostri giorni.
Lo strumento di politica economica per raggiungere l’obiettivo del pieno impiego non è stato più la politica fiscale. Sicuramente non la politica di spesa pubblica in disavanzo: mentre si è talora impiegato lo strumento delle riduzioni di imposte. Ad assumere centralità è stata invece la politica monetaria. Non, anche qui, nel senso degli effetti del ‘basso costo del denaro’ sulla domanda privata di beni di investimento. La catena causale è stata tutta diversa. La Banca Centrale ha regolato la liquidità nel sistema nella quantità adeguata a far correre verso l’alto le quotazioni sui mercati azionari (o, più in generale, sui mercati delle attività). Direttamente o indirettamente: dove indirettamente significa anche che l’istituto di emissione ha dovuto farsi garante della stabilità del sistema bancario ‘ombra’ e della qualità della intermediazione finanziaria. E’ così che ad ogni accenno di crisi finanziaria nel ‘centro’ la Banca centrale ha operato come prestatore ‘di prima istanza’ (per usare la felice espressione di De Cecco(13)). Si fissava così un pavimento alla caduta dei prezzi delle attività, e questa aspettativa veniva incorporata dai mercati finanziari (il c.d. Greenspan put, che aveva fatto i primi passi proprio con la risposta alla crisi dell’ottobre 1987, e che si confermò e ingigantì durante tutto il mandato di Greenspan). Il monetarismo quantitativista lascia la scena, per essere esplicitamente sostituito dal controllo del tasso di interesse di base al quale viene fornita tutta la moneta domandata.
Come la curva di Phillips, anche la curva dell’offerta di moneta diviene ‘piatta’ agli occhi delle stesse autorità di politica economica. Lungi dal riconoscere la verità interna dell’ ‘orizzontalismo’ della teoria endogena dell’offerta di moneta, la teoria corrente razionalizza questo cambiamento di regime facendo riferimento alla ‘regola di Taylor’. L’interazione tra politica monetaria e mercato dei titoli (o delle attività) contribuisce alle variazioni della domanda di consumo per il tramite delle variazioni del valore ‘virtuale’ dei patrimoni. Si può definire questa seconda fase del neoliberismo come una sorta di paradossale keynesismo privatizzato, dove la domanda aggregata viene trascinata verso l’alto in forza delle bolle nei prezzi delle attività che la politica monetaria produce o consente.
Le precondizioni geopolitiche e istituzionali dell’indebitamento
Per quanto riguarda il secondo punto, le precondizioni istituzionali e geopolitiche che hanno reso possibile, e per una certa fase stabile, il mondo del ‘nuovo’ indebitamento privato, dobbiamo guardare essenzialmente a Stati Uniti e Giappone negli anni Settanta e Ottanta. Già allora l’Europa non solo accettava ma addirittura propugnava la stagnazione come mezzo per produrre la deflazione salariale14. Stati Uniti e Giappone misero invece in atto misure per combattere la stagnazione15. Dopo il crollo a Wall Street dell’ottobre 1987 il Giappone reflazionò abbattendo i tassi di interesse e inondando di liquidità tanto i propri mercati quanto la borsa americana. Ne seguì una bolla che le autorità di politica economica giapponese fecero scoppiare aumentando nel 1992 i tassi di interesse, con l’effetto indesiderato di far collassare la propria economia e far schizzare verso l’alto il proprio tasso di cambio sino al 1995. La risposta fu ultra-keynesiana, con tassi di interesse pressoché nulli e enormi disavanzi dello Stato finanziati con nuova moneta, senza che con ciò peraltro si uscisse dalla stagnazione. Ciò cambiò la direzione del c.d. carry trade. Certi che la valuta giapponese non si sarebbe rivalutata, divenne conveniente indebitarsi in Giappone in yen per investire negli Stati Uniti e nei paesi con un più elevato tasso di rendimento. Ciò non solo nutriva gli squilibri sui mercati finanziari, sostenendo le rivalutazioni speculative delle attività, ma anche sganciava l’andamento del tasso di cambio dallo stato delle partite correnti congelando i tradizionali meccanismi di riaggiustamento.
Se la politica economica giapponese era intervenuta due volte, a fine anni Ottanta e a metà anni Novanta, a sostenere il processo di finanziarizzazione negli Stati Uniti, in quel paese il processo era già in atto per cause indipendenti. Vi avevano contribuito, a partire dagli anni Settanta, la finanziarizzazione delle stesse imprese ‘produttive’ e l’incanalamento verso i mercati finanziari del risparmio destinato alla pensione. L’esplosione finanziaria fu anche favorita, prima dalla liberalizzazione dei movimenti di capitale, poi dallo smantellamento delle salvaguardie istituite dal New Deal di Roosevelt e dalla compressione dei disavanzi pubblici. Si creava così spazio alla creazione di debito privato. Sui mercati finanziari periodo dopo periodo si confermavano le aspettative positive sulla capitalizzazione dei rendimenti futuri. E’ questo oceano di liquidità, sostenuto dalla nuova politica monetaria, che ha sorretto i fuochi di artificio delle quasi monete private e l’espansione pressoché senza limiti del mercato dei derivati.
Una dinamica del genere si è ulteriormente approfondita con la crisi della new economy nel 2000, e le guerre in Afghanistan e Iraq del 2001 e del 2003. Proprio ciò che dava fiato alla speculazione pareva contemporaneamente attutire gli effetti delle eventuali crisi che si verificassero strada facendo. Lo stesso succedersi di crisi confermava anzi la virtuosità del ‘nuovo’ capitalismo. Le crisi fuori dal ‘centro’ (Messico, Est asiatico, Brasile, Russia, Argentina …) facevano affluire ancora più denaro nei mercati finanziari dei paesi centrali (e in primo luogo a Wall Street). Le crisi nel ‘centro’ venivano controllate con relativa facilità (LTCM). Sino al 2007 la accresciuta resilienza del sistema, che aveva superato anche una sua prima e significativa crisi generale (quella del 2000-2001), pareva avallare la convinzione che si fosse entrati nell’era della Grande Moderazione. L’orizzonte era quello di una crescita rapida senza inflazione nei prezzi delle merci, salvo i timori che venivano sul fronte delle materie prime, senza che ci fosse da preoccuparsi dell’inflazione sui mercati delle attività.
Ancora sul consumatore indebitato, e sul rapporto con il neomercantilismo
Per quanto riguarda il terzo punto, è bene chiarire che il consumatore indebitato non corrisponde affatto ad un quadro di benessere, anche se incorpora una distorsione dei consumi verso l’opulentismo (minor consumo di beni essenziali, maggior consumo di beni non essenziali). Come mostra per lo stesso caso degli Stati Uniti una testimonianza al Senato di Elizabeth Warren del maggio 2007 relativa alle classi medie, per mantenere il medesimo reddito reale degli anni Settanta nello stesso nucleo familiare devono oggi lavorare più persone, più ore, con maggiore intensità(16). Si è relativamente ridotta la quota del reddito monetario spesa in beni ‘fisici’ di consumo, grazie alla importazioni di beni a buon mercato dalla Cina. Si sono però gonfiate altre voci del consumo come l’istruzione, la sanità, l’assicurazione etc.: beni pubblici sempre più privatizzati e luogo di ricerca di rendite finanziarie. L’indebitamento è stato per molti, quando non una necessità, l’unica opportunità di difendere il proprio tenore di vita a fronte di salari reali individuali stazionari se non declinanti. La sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito corrisponde di fatto ad una accresciuta dipendenza delle condizioni di riproduzione della forza-lavoro dal capitale in forza di quella che è stata definita una ondata di nuove enclosures (abbiamo qui una sorta di nuova accumulazione originaria(17), o anche una accumulation by dispossession(18)).
Tiriamo le fila. Il ‘nuovo’ capitalismo ha avuto il volto trino della finanziarizzazione del capitale, della frantumazione del lavoro dentro la nuova catena del lavoro transnazionale, della sempre più intensa concentrazione della politica economica nella politica monetaria. I tre aspetti si sono rinforzati l’uno con l’altro. Si è così prodotto, almeno per alcuni anni, uno sviluppo capitalistico dinamico, ma massimamente inegualitario, imperniato sul consumo a debito. Se il consumatore indebitato è stato il traino della crescita negli Stati Uniti, gli Stati Uniti sono stati a loro volta gli acquirenti finali dei modelli neomercantilisti: non solo Giappone e Germania (e parte significativa dell’Europa), ma anche e soprattutto Cina. La coppia risparmiatore maniacale/consumatore indebitato che spiega la crescita nel ‘nuovo’ capitalismo è stata però al fondo non soltanto fortemente instabile ma anche, in senso proprio, ‘insostenibile’. In fondo, la stessa new economy, fondata sulla interazione tra dinamiche borsistiche e politica monetaria, era andata in crisi quasi subito, già nei primi mesi del 2000(19). A quel punto si era profilato il rischio concreto che il risparmiatore entrasse in fase ‘depressiva’: in quella situazione, cioè, in cui le ‘famiglie’ devono ridurre la spesa rispetto al reddito disponibile per rientrare dal debito privato. Si fece allora di tutto perché l’eventualità non si concretizzasse.
Gli sforzi ebbero successo, grazie al keynesismo di guerra di Bush jr, all’inondazione di liquidità a basso tasso di interesse di Greenspan, ma anche grazie alla modificazione dei rapporti con l’Asia. Dalla fine degli anni Novanta, lungi dall’importare capitali, i paesi asiatici che esportavano merci negli Stati Uniti vi esportavano anche i capitali, rifinanziandone i disavanzi. Vista la dipendenza dal grande mercato americano, non avevano in realtà altra scelta. E’ quella realtà che viene ideologicamente rovesciata di 180 gradi dalla tesi che imputa gli squilibri globali al saving glut(20).
Note
1 Il ragionamento svolto nelle pagine che seguono riprende l’analisi del ‘nuovo’ capitalismo e l’interpretazione della crisi finanziaria che abbiamo svolto nel 2005 e nel 2007 in due convegni di “Rive Gauche”, alquanto ‘disallineati’ – come ci fu debitamente rimproverato – da quella che era la posizione dei promotori di quelle iniziative: cfr., negli Atti delle due iniziative pubblicati dalla manifestolibri, rispettivamente Bellofiore-Halevi 2006 e Bellofiore-Halevi 2008 (in inglese, cfr. Bellofiore-Halevi 2010a, 2010b). Si tratta peraltro di una lettura che, per la forza delle cose, è diventata pressoché senso comune a partire dalla fine del 2008, come testimoniano numerosi interventi sulla stampa quotidiana e sui periodici della sinistra radicale. Nel nostro caso, essa affonda le sue radici nella lettura critica della new economy che in modo parallelo abbiamo condotto sulla “rivista del manifesto” tra il 1999 e il 2004, e in una fondazione teorica che ci vede da sempre distanti non soltanto dal neoliberismo e dal social-liberismo, ma anche dal neoricardismo e dal keynesismo per come è stato recepito in Italia. In questa e nelle note che seguono faremo prevalentemente riferimento a nostri contributi in cui il lettore interessato può trovare un approfondimento delle questioni qui trattate, e dove si può reperire la relativa bibliografia.
2 Nell’esposizione sintetica che segue riprendiamo ed espandiamo formulazioni che si trovano anche in Bellofiore 2009a e 2009b. Vedi anche Bellofiore 2008a.
3 Cfr., rispettivamente, Minsky 1993, Aglietta 1998, 2001, Bellofiore 2000b. Per una introduzione al pensiero di Minsky e per una sua attualizzazione, cfr. Bellofiore 2009c, e per una critica ad Aglietta cfr. Bellofiore 2002. Aglietta 2001 è la traduzione della postfazione alla terza edizione francese (1997) di Régulation et crises du capitalisme. Opera, si deve dire, ben più interessante nella sua prima edizione del 1976, che aveva un taglio marxista già attenuato dalla introduzione alla seconda edizione del 1982, inizio della attuale transizione ad una posizione social-liberista. Solo recentemente Aglietta pare aver parzialmente riconosciuto la instabilità radicale e irrimediabile che affligge il ‘nuovo’ capitalismo. E’ questo un limite ricorrente della riflessione dell’economista francese. Basti ricordare le sistematiche e non casuali smentite che hanno avuto le sue posizioni del 1990 sulla globalizzazione del mercato dei capitali, o del 1996 sulla cartolarizzazione; o si ricordi ancora il suo giudizio su Alan Greenspan al termine del suo mandato. Uno sguardo ben più lucido è stato quello del suo coautore André Orlèan, già prima della crisi delle dot.com: cfr. Orléan 1998. In Italia un economista che tempestivamente ha visto la connessione tra ‘economia della borsa’ e nuova politica monetaria è stato Nardozzi 2002. Questo autore ha però sottostimato la instabilità del modello, e l’insostenibilità alla lunga del money manager capitalism (cfr. Bellofiore 2003). Un’altra analisi interessante, anch’essa di taglio social-liberista (e teoricamente debitrice del versante ‘imperfezionista’ del mainstream), è stata quella di Marcello Messori. Essa è rimasta però intrappolata in una visione irenica del capitalismo dei fondi pensione, ed è stata parimenti cieca sulle contraddizioni di fondo del nuovo capitalismo. Si veda come il tempo ha fatto giustizia delle analisi economiche e delle proposte di politica economica della Fondazione Di Vittorio, per la quale Messori ha diretto la sezione Scienze Sociali. Si vedano i volumi pubblicati dal Mulino. Per una sintesi cfr. Costa-Messori 2005.
4 Per un approfondimento, vedi Bellofiore 2008b.
5 Cfr. p. es. Garibaldo 2008.
6 Non possiamo sviluppare qui questo argomento, peraltro centrale. Vedi i saggi raccolti in Vertova 2006, 2009.
7 Anche quest’altro tema meriterebbe di essere approfondito. Vedi recentemente il bel saggio di Gambino-Sacchetto 2009.
8 E’ un punto su cui insiste da vari anni, in modo originale, e con ragione, Massimiliano Tomba. Si veda p. es. il saggio incluso in Sacchetto-Tomba 2009.
9 Si veda l’introduzione della curatrice a Vertova 2009.
10 Cfr. in particolare Toporowski 2000, 2009. Per un altro nostro lavoro dove incrociamo la nostra lettura con quella di Toporowski si veda Bellofiore-Halevi 2010c.
11 Il punto era già stato di fatto chiarito, sia pure telegraficamente, da Graziani 2004, p. @@@. Una esposizione dettagliata del circuito monetario nel ‘nuovo’ capitalismo della sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito si trova in Seccareccia 2009.
12 Su questo punto insiste da qualche tempo, con ragione, Marc Lavoie. Vedi p. es. Lavoie 2009.
13 Si veda per una analisi spesso illuminante De Cecco 2007.
14 Cfr. Bellofiore-Halevi 2006b, 2007.
15 Cfr. Halevi 2005.
16 Cfr. Warren 2007.
17 Vedi Sacchetto-Tomba 2009.
18 Il riferimento è alla riflessione di David Harvey. Cfr. p. es. Harvey 2003.
19 Una analisi preveggente di quel che stava per avvenire in Godley 1999. Cfr. anche Bellofiore 2000a. I successivi rapporti di Godley per il Levy Institute hanno proseguito l’analisi sino alla crisi dei subprime e oltre.
20 Cfr. Bernanke 2005.
21 Robert Brenner è un altro autore che parla di uno stock market keynesianism. Vedi Brenner 2009.
22 Si tratta di un punto che può essere ricondotto ad una ricostruzione analiticamente aggiornata della originaria posizione di Hyman Minsky: cfr. Passarella 2010.
23 Che l’epoca del neoliberismo sia stata per molti versi una fase di riregolazione della finanza, e non di pura e semplice deregolamentazione, è affermato con forza, e del tutto a ragione, da Leo Panitch e dai ricercatori a lui associati. Vedi da ultimo Panitch-Konings 2009. La stessa lezione si ricava dalle analisi di Marcello De Cecco.
24 Cfr. Robinson 1975 (comparso in originale nel 1972).
25 Si tratta di una crisi che, tra le sue molte ragioni, vede in posizione preminente il conflitto sull’estrazione di lavoro vivo (cfr. Bellofiore 2001). Abbiamo qui un richiamo forte al nucleo della teoria marxiana del valore, in quanto inseparabile da una visione pienamente sociale e non meccanicistica della crisi economica. Non possiamo dilungarci in questa sede sulla questione, e ci limitiamo alle poche considerazioni che seguono. La differenza specifica della merce forza-lavoro è di essere ‘appiccicata’ al corpo del lavoratore (e della lavoratrice). Mentre gli altri venditori di merci possono disinteressarsi del destino del valore d’uso che hanno venduto, così non è evidentemente per i lavoratori. I capitalisti hanno la necessità di garantirsi la quantità e qualità di lavoro in un momento successivo alla compravendita sul mercato del lavoro: un conflitto (e talora un antagonismo) che può potenzialmente sempre rinnovarsi. Abbiamo qui a che fare con una ‘contraddizione’ dovuta alla circostanza particolare per cui la prestazione di lavoro – anche dopo che la capacità di lavoro è stata alienata al capitale, che ha di conseguenza pieno diritto di usarla – rimane pur sempre una attività del lavoratore, che può cooperare o resistere. Il lettore dovrebbe intuire come questa riconduzione della crisi capitalistica alla ‘lotta di classe nella produzione’ (una riconduzione che nelle diverse circostanze storiche va sempre svolta tenendo conto delle molte mediazioni) si combina strettamente alle ragioni della ‘crisi’ di cui parla la Robinson nel 1972. In entrambi i casi si tratta in effetti di articolare un primato del valore d’uso versus il primato del valore di scambio: le questioni sollevate dall’economista inglese non sono affatto separate dal conflitto sociale che iniziò ad imporle. Come si cerca di mostrare nel testo, la risposta di parte capitalistica alla crisi sistemica degli anni Settanta incise su entrambi i fronti. La ‘centralizzazione senza concentrazione’ e la ‘sussunzione reale del lavoro alla finanza’ tipiche del money manager capitalism hanno eroso le posizioni di forza del ‘lavoro’ sul terreno della produzione immediata, e quindi anche della distribuzione del neovalore. Esse hanno però anche contribuito, per il tramite della nuova politica monetaria, a stabilire un governo del livello e della composizione della produzione quale discendeva coerentemente dalla forma nuova della integrazione tra finanza e produzione. Un mondo che ha potuto apparire come consensuale (tutti proprietari, tutti percettori di rendita finanziaria) e, rispetto a cui si proclamava baldanzosamente l’insensatezza di proporsi una alternativa (la famigerata TINA della Signora Thatcher). Tra le distrazioni di Keynes, ma più ancora dei keynesiani, bisognerebbe probabilmente includere la loro cecità rispetto a quei processi che invece di portare alla ‘eutanasia del rentier’ avrebbero spinto all’ ‘entusiasmo del rentier’. Nel ‘nuovo’ capitalismo, peraltro, distinguere profitto da rendita è esercizio eroico, e noi non ci arrischieremo a farlo in queste pagine.
26 Una rassegna del pensiero economico dopo gli anni Sessanta la si trova in Bellofiore 2005, mentre un bilancio personale del pensiero eterodosso può essere letto in Bellofiore 2004b, 2004c e Di Ruzza-Halevi 2004. Per una valutazione dello stato del dibattito marxista, cfr. i saggi raccolti in Bellofiore 2007.
27 Cfr. i suoi editoriali sul New York Times sulla congiuntura, e il deludente Krugman 2009 sullo stato della teoria macroeconomica.
28 L’assoluta dominanza di questa lettura impedisce di selezionare una citazione rappresentativa del filone, per l’imbarazzo della scelta. Una buona versione della lettura della crisi in termini di caduta del saggio del profitto la si può trovare nella introduzione di Vladimiro Giacché a Marx 2009. Per una lettura diacronica e unitaria della teoria marxiana della crisi -che cerca di sfuggire alla Scilla della caduta tendenziale del saggio di profitto nella sua versione tradizionale e alla Cariddi del sottoconsumismo, e che si prolunga in una teoria sociale della crisi in grado di dare conto anche della crisi sistemica degli anni Settanta e della ascesa e del declino del neoliberismo reale in tutte le sue fasi – cfr. Bellofiore 2010d. Un precedente importante di questa lettura sono le lezioni di Politica economica e finanziaria tenute da Claudio Napoleoni nel 1972-73 e nel 1973-74, su cui vedi Bellofiore 2009d.
29 Per quel che segue si vedano in particolare Magdoff-Sweezy 1977, 1981, 1987.
30 Si vedano almeno i suoi tre libri: Minsky 1982, 1989, 2009.
31 Per approfondimenti, vedi i nostri altri scritti sul Minsky moment e il Minsky meltdown, già citati, ma anche Bellofiore-Halevi-Passarella 2010: lavori a cui si rimanda anche per la letteratura secondaria.
32 Si vedano, p. es., Minsky 1993, 2008.
33 Ci pare si muova in una prospettiva metodologica non troppo lontana dal nostro approccio Vercelli 2009.
34 Si tratta di un punto già presente nella riflessione del Minsky degli anni Sessanta, che verrà poi ripreso negli scritti successivi. Centrale è la critica al ‘keynesismo’ della War on Poverty di cui danno conto Bell-Wray 2004. E’ una critica radicale, per molti versi convergente e anticipatrice di aspetti delle osservazioni della Robinson sulla seconda crisi della teoria economica. Minsky non si accontenterebbe certo di vedere nella crisi attuale l’occasione di un ritorno al ‘keynesismo’. Sulla questione sollevata in questo paragrafo considerazioni più dettagliate in Bellofiore 2008c.
35 Sottolineano a ragione la necessità di una socializzazione della finanza Panitch (2009) e Parguez (2009). Quest’ultimo autore, al di là forse delle sue intenzioni, non è sempre immune dalla deriva tecnocratica della ‘sinistra keynesiana’ e dal sogno di definire un programma dall’alto che possa rimuovere una volta per sempre le contraddizioni del capitalismo dei rentier e della finanza. Una deriva contro cui già ammoniva Lebowitz (1973-74) al tempo della seconda crisi della teoria economica, che però vedeva come una crisi che non avrebbe toccato il marxismo.
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