Le mani sulla scuola (2a parte)
di ROBERTO RENZETTI
La situazione scolastica americana resta sempre il riferimento della nostra impresa. È lì che sono già avanti nella destrutturazione della scuola pubblica. È lì dove le eccellenze provengono da scuole private che costano anche 40 mila dollari l’anno, a fronte di una scuola pubblica (che serve 50 milioni di alunni) assolutamente dequalificata (insegnanti privi di titoli specifici, mancanza di essi, classi superaffollate, mancanza di fondi, diversità di curricoli da Stato a Stato, da scuola a scuola, discipline assenti dai curricoli, disomogeneità nel richiedere un esame finale, meno del 3% degli alunni con una preparazione che permetta di accedere all’Università, assenteismo, abbandoni…) ed individuata, senza soluzioni però, come emergenza nazionale già da Clinton.
Ma gli imprenditori americani vogliono di più. Non contenti degli “cheques education” che proprio da quell’anno avevano iniziato a togliere fondi alla scuola pubblica per indirizzarli alla privata, sulla spinta suggerita da Lehman Brothers (1996) di iniziare ad investire nel settore molto promettente della scuola (oltre che nella sanità), si riuniscono a Nashville (1997) per delineare una strategia di intervento che prevede intanto un “accordo sulle misure suscettibili di rendere l’industria [sic] scolastica redditizia: ridurre il numero degli insegnanti aumentando il numero degli alunni per classe; ridurre la massa salariale degli insegnanti arruolando un maggior numero di giovani e di non abilitati; ridurre o sopprimere gli organismi che rilasciano diplomi di insegnamento ed affidare la valutazione delle competenze degli insegnanti ai manager delle scuole”.
Tutto questo viene giustificato con la necessità di ridurre i costi della globalizzazione che imporrebbero risparmi anche legati alla riduzione delle tasse [sic!]. Anche negli USA si punta all’educazione mediante TV ed Internet ed in tal senso hanno esempi di ottima resa economica. Emblematico è il caso della rete TV Channel One. I fondi che lo Stato fornisce alle scuole USA sono del tutto insufficienti. Occorre arrangiarsi, soprattutto se si vuole restare al passo in infotecnologie.
Circa dodicimila scuole per oltre 8 milioni di studenti tra USA e Canada hanno stretto un accordo con Channel One secondo il quale la rete Tv fornisce alla scuola materiale audiovisivo, televisori e video (solo per opportune dimensioni, si ottiene anche il computer): in cambio la scuola si impegna a far vedere agli studenti la programmazione quotidiana di 20 minuti, dedicata alle scuole, di Channel One (reportage, sport, meteo e due minuti di pubblicità). Questi 2 minuti sono ambitissimi dalle aziende che pagano 200 mila dollari ogni spot di 30 secondi (il doppio della media del costo di uno spot).
I danni di tutto questo non nascono certo da questa pubblicità che fa vendere scarpe, hamburger e caramelle ma dal fatto che quella programmazione ha assunto lo status di programma educativo moderno e disinvolto, da contrapporre agli obsoleti libri degli insegnanti. Si immagini ora quali paradisi si aprirebbero dalle parti nostre…
Sull’onda di esperienze come queste, che si vanno diffondendo soprattutto in USA ed Australia, proprio questi due Paesi spingono da anni affinché la scuola (oltre che la sanità e l’ambiente) entri tra le merci previste per il libero scambio dal World Trade Organisation (WTO) e dal General Agreement of Trade in Service (GATS). Ed anche la Banca Mondiale chiedeva di sbrigarsi nell’integrare la scuola alle strategie globali dei Paesi. In tal senso è attivissimo Robert Zoellick, rappresentante dell’U.S. Trade, l’Agenzia USA per il Commercio Estero, che è in sintonia con il Responsabile europeo per il commercio, Pascal Lamy.
Questi tenne un discorso all’International Council for International Business di New York nel quale sostenne: “Se vogliamo migliorare il nostro accesso ai mercati esteri (…) bisognerà acconsentire a dei sacrifici” e cioè cedere sui pubblici servizi (tra cui la scuola). Recentemente però, a precise richieste, Lamy ha sempre fornito risposte che negavano l’inserimento della scuola nell’elenco delle merci, anche se l’argomento è già arrivato alla discussione (31 marzo 2003) in seno alla Commissione UE (era segretamente all’ordine del giorno) ed è recentissimo l’argomento capzioso che porterebbe al colpo definitivo sulla scuola pubblica: poiché essa è un servizio per il quale i cittadini pagano, allora, secondo le ferree regole del WTO, non può ricevere aiuti dallo Stato. È elementare comprendere che ciò significherebbe la fine della scuola pubblica. E, sgomberato il campo da questo ultimo orpello (l’aggettivo pubblico), si potrebbe dispiegare in ogni sua forma l’ingresso dei privati in una entità ormai solo privata.
Sta di fatto che la UE, nel vertice di Lisbona del 2000, ha deciso di occuparsi in prima persona delle scuole nazionali, con il solito slogan di scuola per tutta la vita, affermando “La sorte dell’insegnamento non è oggetto di un intendimento unanime. Deve anch’esso essere oggetto di una privatizzazione? In quale misura? Secondo quali modalità? Non si tratta pertanto di stabilire se la concorrenza tra gli stabilimenti scolari sia auspicabile o pericolosa, ma di analizzare se essa è concretamente realizzabile, sapendo che in certi paesi essa è stata chiaramente inscritta nelle politiche educative. (…) I sistemi di insegnamento primario e secondario inferiore sono organizzati secondo la logica dell’economia di mercato? Concretamente, si tratta di esaminare se le condizioni di messa in opera di una concorrenza perfetta tra stabilimenti scolari sono presenti nei paesi toccati dallo studio“.
E in Italia ?
Non entrerò nei dettagli delle riforme che, a partire dal 1997, si sono susseguite il ambito scolastico. Il mio scopo è solo quello di far conoscere alcune importanti affermazioni che compaiono in alcune leggi, affermazioni che, nella pratica, hanno cambiato alla radice la scuola italiana. La prima legge che interviene sulla scuola è quella che introduce l’Autonomia scolastica (Legge Bassanini). La parola autonomia è apparentemente affascinante ma, nel contesto scuola, è ambigua ed assume significati preoccupanti in quanto propedeutici alla paventata privatizzazione.
Nella suddetta Legge è scritto che si deve estendere il regime di diritto privato del rapporto di lavoro anche ai dirigenti generali ed equiparati delle amministrazioni pubbliche. Nella scuola i salari diventano variabili, si introducono criteri di flessibilità, sistemi di valutazione legati all’elaborazione di specifici indicatori di efficacia, efficienza ed economicità ed alla valutazione comparativa dei costi, rendimenti e risultati. Solo se la valutazione della produttività scolastica di cui sopra darà esito positivo le scuole avranno dei soldi, non essendo mai ben chiarito cosa questi concetti provenienti dal mondo dell’impresa c’entrino con il mondo della scuola. In modo più completo si definisce anche l’autonomia organizzativa: essa è finalizzata alla realizzazione della flessibilità, della diversificazione, dell’efficienza e dell’efficacia del servizio scolastico, alla integrazione ed al miglior utilizzo delle risorse e delle strutture, all’introduzione di tecnologie innovative…
Per la sua completa realizzazione sarà possibile superare i vincoli di unità oraria della lezione, dell’unitarietà della classe e delle modalità di impiego e di organizzazione dei docenti, secondo finalità di ottimizzazione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche, materiali e temporali. Per buon peso si iniziano a stabilire riduzioni consistenti di docenti (circa 21mila nel 1998: si può intuire che, quando si vuole privatizzare, occorre che l’impresa sia economicamente sana perché sia appetibile) e, addirittura, si cambia il nome del Ministero della Pubblica Istruzione (MPI) in Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR).
La sparizione di pubblico (Legge 300/99) come aggettivo qualificante l’istruzione fa il paio con altri provvedimenti che vengono presi in quegli anni: la parità scolastica tra scuola pubblica e privata (Legge 62/00), il comitato per valutare il prodotto educativo (Direttiva 307/97), l’introduzione di crediti e debiti (DM. 24/00)… Anche qui, come a San Francisco, occorre inventare qualcosa che faccia digerire il tutto. Il miracolo viene fatto dai pedagoghi (con psicologi e docimologi) che iniziano con la loro opera di spostamento dell’asse della scuola dai contenuti ai metodi che si avvitano su se stessi (una vera e propria deriva).
La Sintesi Maragliano (maggio 1997) che spinge sulle nuove tecnologie è emblematica del clima: “Le nuove tecnologie dell’informazione hanno in questo senso un valore paradigmatico, dal momento che coniugano in modo visibile la componente materiale costituita dall’hardware, fondamentale per svolgere le funzioni che loro competono, con la componente simbolica del software, che determina le operazioni che vengono effettuate e dà loro senso”: e nessuno spiega che non si studierà quell’hardware né tanto meno quel software.
Per la Sintesi occorre togliere alla scuola tutto quello che sa di scuola e sostituirlo con giochi, con l’alleggerimento del carico culturale, con strumenti multimediali, con divulgazioni, con testi essenziali, con il sostituire la storia con la cronaca, andando sulla strada del saper fare e con il coinvolgimento delle famiglie nel processo educativo. La Sintesi è ancora più esplicita e dice con chiarezza ciò che si vuole: “far sì che la scuola metabolizzi progressivamente una nuova cultura del lavoro significa investire su due fronti: l’orientamento e la proposta formativa. Per il primo fronte, si tratta di introdurre nella didattica alcuni contenuti innovativi propri di questo nuovo approccio: il superamento della ‘cultura del posto’ a vantaggio di una nuova visione delle opportunità e delle professioni; la cultura della flessibilità attraverso la conoscenza delle nuove forme di organizzazione dei processi lavorativi; le nuove forme del lavoro, da quello autonomo a quello artigianale, a quello atipico; la preparazione all’autoimprenditorialità. Per il secondo, considerata la maggiore velocità di trasformazione dei processi strutturali rispetto a quelli culturali, il problema più urgente è di por mano all’impianto metodologico della scuola: è in gioco non solo una questione di contenuti, ma anche e soprattutto una questione di metodo di studio e di impegno umano. Si tratta allora di utilizzare e valorizzare le forme dell’apprendere proprie del mondo esterno alla scuola, sviluppando il senso di responsabilità e di autonomia che richiede il lavoro, le capacità etiche ed intellettuali di collaborazione con gli altri, la pianificazione per la soluzione di problemi concreti e la realizzazione di progetti significativi (competenze di tipo trasversale da promuovere nella scuola e nell’educazione permanente). In questo quadro andrà particolarmente valorizzato il rapporto costruttivo fra scuola, comunità locali, mondo produttivo.”
Il mondo dell’impresa e la Confindustria
Anche in Italia l’impresa vuole di più e lo chiede con un documento del 1999 dal titolo accattivante, Scuola libera! Appunti per la nascita di un movimento, che ha come firmatari Ferdinando Adornato, Dario Antiseri, Antonio Augenti, Paolo Blasi, Carlo Bo, Dino Boffo, Pellegrino Capaldo, Innocenzo Cipolletta, Emma Marcegaglia, Antonio Martino, Letizia Moratti, Angelo Panebianco, Sergio Romano, Cesare Romiti, Giorgio Rumi, Paolo Savona, Lorenzo Strik Lievers, Marco Tronchetti Provera, Stefano Versari, Giorgio Vittadini, Sergio Zaninelli.
In tale documento si sostiene che la scuola non deve più essere un monopolio dello Stato ma una entità in cui gli istituti siano indotti a una emulazione per proporre la migliore offerta formativa possibile. Una nuova scuola italiana, libera, potrà affermarsi e realizzarsi solo grazie al concorso di passioni, intelligenze e culture laiche e cattoliche. Il documento immagina “una nuova scuola nella quale:
1) lo Stato finanzi ma non gestisca l’istruzione di tutti i cittadini;
2) si affermi una pluralità di offerte e istituti formativi, statali e non, e una pluralità di opzioni possibili per il cittadino;
3) viga la pari dignità tra le diverse scuole e quindi l’assoluta irrilevanza del fattore economico nella scelta da parte dei cittadini ;
4) si giunga all’abolizione del valore legale del titolo di studio, necessaria conseguenza di tale nuovo assetto;
5) a tal fine lo Stato deve fissare quanto intende spendere annualmente per la formazione di ciascun cittadino;
6) deve disporsi poi a riconoscere quella somma, diversificata a seconda del grado di istruzione, alla famiglia di ciascun alunno, utilizzando appositi bonus o altri analoghi strumenti;
7) si può infine prevedere che gli alunni iscritti a scuole non statali gravino sulle casse dello Stato per un 10% in meno di quelli che scelgono la scuola statale. C’è infatti da calcolare una serie di spese fisse che lo Stato è comunque chiamato a sostenere, ad esempio nei piccoli centri a scarsa popolazione scolastica e dove però l’istruzione va comunque garantita. C’è per converso da pensare che altri sussidi, familiari, di enti privati e imprese possano giungere alla scuola non statale.”
Si devono prevedere dei percorsi formativi individuali ed un rafforzamento della formazione professionale per legare il mondo della scuola a quello dell’impresa. Saranno i genitori a garantire le libertà di scelte educative. Dove trovare le risorse? “L’impresa deve trovare proficuo e vantaggioso investire nella scuola. Da questo punto di vista gli Stati Uniti possono insegnarci qualcosa. Particolarmente per le scuole professionali”.
Ed anche qui si arriva ad una medesima conclusione con una possibile aggravante: che si richiami il Paese in cui ogni tecnica privatistica è stata utilizzata può essere naturale, ma far finta di non sapere che proprio negli Usa si sta ripensando tutto, compresi i buoni scuola. Ed anche Confindustria si mostra particolarmente attiva. Inizia con un documento del 1998 (mentre si sta varando la Riforma Berlinguer), Verso la scuola del 2000, nel quale si denuncia e reclama tutto ciò che abbiamo già incontrato: troppe nozioni, troppi insegnanti, troppe scuole, costo esagerato, comprese le conclusioni dei rapporti Delors e Cresson. Nessuna novità rispetto a quanto rivendicato dall’ERT e da altri gruppi imprenditoriali di pressione. Al momento del varo della Riforma Berlinguer la stessa Confindustria darà il suo parere molto favorevole. Certo si poteva fare di più…
L’organizzazione degli imprenditori italiani si coordina anche con altre sei organizzazioni europee simili per varare un documento, Per una scuola di qualità (Londra 2000). che compendia tutto ciò che l’impresa vuole dalla scuola: autonomia organizzativa, didattica e gestionale; standard nazionali di conoscenze e competenze; un ente indipendente per la valutazione di ogni singola scuola e del complesso; finanziamento pubblico guidato dalla domanda; competizione; tecnologie informatiche e multimediali; saper fare; flessibilità del lavoro docente; docenti estremamente preparati ed in continua formazione; maggior ruolo per il dirigente; integrazione scuola impresa con l’impresa che indirizza gli studenti, con stage aziendali e per studenti e per insegnanti.
Concludendo …
Credo che siamo oggi ad un punto di possibile non ritorno. La scuola pubblica, sommo bene da molte generazioni, quella che ha permesso l’emancipazione di tutti e ciascuno di noi è oggi a rischio. Si sta smontando, destrutturando, regionalizzando per far scendere i prezzi ed immetterla sul mercato. Occorre molta maggiore attenzione a questa vicenda da parte dei cittadini. Quando si avanzasse ancora su questa strada sarà impossibile tornare indietro. E, in quel momento, ogni recriminazione sarà vana. Non ci si accorge di come si sta bene fino a che non si perde quel bene.
[“Insegnare”, 6, 2004]
Qui la prima parte dell’articolo
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