Le mani sulla scuola (1a parte)
di ROBERTO RENZETTI
“Le scuole saranno più efficienti se saranno sottoposte alle leggi del mercato capitalistico e, come tutte le aziende, entreranno in concorrenza le une con le altre per attirare i loro clienti: gli studenti. A questo scopo serve un sistema statale di buoni scuola emessi all’ordine dei genitori di un figlio in età scolare, buoni che potranno essere spesi in una scuola a scelta delle famiglie degli studenti, anche private e/o confessionali” (1955)
Milton Friedman (nobel per l’Economia 1976)
L’efficienza di cui parla Friedman è evidentemente legata allo sfruttamento della scuola a fini di mercato. E’ proprio così? E’ possibile pensare una cosa del genere? Se sì, dove possiamo rintracciarne i sintomi? Per capire di cosa si tratta occorre risalire a conferenze internazionali, ad accordi presi in passato, a tutta una serie di documenti in gran parte sconosciuti ai non addetti ai lavori o che non era utile diffondere…
E’ utile ricordare che dai primi anni ’90 l’economia e la finanza hanno aumentato considerevolmente il loro peso nella direzione politica del mondo occidentale. La politica in senso stretto ha sempre meno margini di mediazione. E’ quindi dalle scelte di economisti, imprenditori, finanzieri e manager che occorre partire per capire cosa si progetta per questo secolo. Intanto una indagine OCSE (1998) stima in 2000 miliardi di dollari l’investimento per la scuola nel mondo (per la sanità, 3500) ed in 1000 miliardi negli Stati membri (circa: 4 milioni di insegnanti, 80 milioni di studenti, 315 mila istituti e 5 mila università). Un vero gigantesco affare.
La società 20:80
Al Fairmont Hotel di San Francisco, nel settembre 1995, si riunirono 500 persone, l’élite del mondo, il braintrust globale (Bush senior, M. Thatcher, G. Schultz, T. Turner, G. Rifkin, D. Packard, J. Gage, Z. Brzezinski, …), sotto l’egida della Fondazione Gorbaciov, per “decidere delle prospettive del mondo nel nuovo millennio che porta ad una nuova civiltà”. Tutti furono d’accordo nel prefigurare un modello di società in cui solo il 20% dei cittadini del mondo sarebbero stati necessari per mandarlo avanti. Il rimanente 80% sarebbe stata da considerarsi massa eccedente (sic!).
Si passava quindi dalle pur nere prospettive degli anni Ottanta, la società in cui 1/3 dei cittadini del mondo avrebbe avuto accesso al benessere, ad una società 1/5 con molta massa eccedente. Si prospettavano riforme selvagge ben anticipate da John Gage, dirigente di Sun Microsystem, “assumiamo i nostri operai con il computer, lavorano con il computer e li cacciamo con il computer!” e, naturalmente, progettando una società senza classe media, ci si poneva il problema di come farla accettare alla massa eccedente.
Fu Zbigniew Brzezinski che fornì una prima soluzione: tittytainment, una parola coniata a proposito che sta per tits = tetta (nel senso di dispensatrice di latte) e entertainment = gioco, il panem et circenses della Roma imperiale. Ed a quelli che obiettavano che il circo sarebbe stato insufficiente per chi chiedeva autostima, il moderatore, R. Roy, rispondeva che volontariato, associazioni sportive, … “potrebbero essere valorizzate con una modesta retribuzione per promuovere l’autostima di milioni di cittadini“.
I numeri della massa eccedente, continuava Roy, non dovrebbero preoccupare perché, a breve, vi sarà nei Paesi Occidentali, una nuova richiesta di lavori precedentemente rifiutati: pulizia strade, collaborazioni domestiche… Intanto occorre iniziare a colpevolizzare questa massa: non si lavora abbastanza, si guadagna troppo, la produttività è bassa, le pensioni vengono erogate troppo presto, sono troppo elevate, si è malati per troppo tempo, troppo assenteismo, la maternità, viviamo al di sopra delle nostre possibilità, servono sacrifici, troppe vacanze, le società asiatiche della rinuncia devono essere prese ad esempio…
Naturalmente in questo scenario la scuola diventa funzionale a quanto si va delineando. La scuola così come è, tutti concordano, costa troppo ed è una spesa superflua per i fini che si vogliono conseguire. Occorre pensare una scuola che costi molto meno e che prepari dei cittadini a livello di buoni consumatori in questa società tecnologica. Occorre che i cittadini conoscano, ad esempio: digitale, DVD, Laser, Hi Tech, PC, Internet, Provider, CD, masterizzatore… non è invece in alcun modo necessario che conoscano i meccanismi scientifico tecnologici che sono dietro questi nomi.
Per intenderci: occorre che i cittadini abbiano la preparazione tecnologica sufficiente per essere consumatori ma non tale da essere creatori di scienza e tecnologia. Questo almeno a livello di impegno di scuola pubblica, di quella che è pagata dalla fiscalità generale. Vi è naturalmente necessità di cittadini preparati a livelli superiori, ma è del tutto inutile e soprattutto è un vero spreco di risorse pensare di formare tutti in modo che possano pensare all’accesso a queste superiori specializzazioni.
Chi serve per tali fini verrà preparato in scuole speciali. La selezione per accedere a queste scuole la faranno le stesse scuole private e le imprese. Non ha senso continuare a dissipare denaro nell’istruzione pubblica. Il mercato è buono e gli interventi dello Stato sono cattivi: derergulation anziché controllo statale, liberalizzazione di commercio e capitali, privatizzazione di ogni cosa abbia il sapore del pubblico (Friedman). Questo è il sunto della parte che adombra la scuola nella tre giorni di stringenti dibattiti della Fondazione Gorbaciov. Si invoca in ogni settore, ed anche per la scuola, il modello americano.
ERT: Tavola Rotonda Europea degli industriali
L’Europa delle imprese, dovendo recuperare molto rispetto agli USA, era da tempo in fibrillazione. Già nel 1989 l’European Round Table of Industrialist, l’ERT, potente lobby di industriali europei, che ha grande influenza ed entratura presso la UE, aveva pubblicato un rapporto dal titolo Istruzione e competenza in Europa in cui si sosteneva che “l’istruzione e la formazione (…) sono (…) investimenti strategici vitali per la competitività europea e per il futuro successo dell’impresa” e che “l’insegnamento e la formazione [sono purtroppo] sempre considerati dai governi e dagli organi decisionali come un affare interno (…). L’industria ha soltanto una modestissima influenza sui programmi didattici che devono essere rinnovati insieme ai sistemi d’insegnamento“. Si aggiungeva poi che gli insegnanti “hanno una comprensione insufficiente dell’ambiente economico, degli affari, della nozione di profitto… e non capiscono i bisogni dell’industria“.
E nel 1992 la UE, con il trattato di Maastricht, inizia ad avere competenze in materia d’Istruzione. Nel 1993 il Libro Bianco della UE apre all’industria (“apertura dell’educazione al mondo del lavoro“) proponendo incentivi fiscali e legali al fine di far investire la stessa nell’Istruzione. La supposta sfida viene raccolta, in un gioco delle parti, dall’ERT che nel 1995 spinge gli industriali a “moltiplicare i partenariati tra scuole ed imprese” e sollecita il mondo politico in tal senso.
L’ERT insiste nel denunciare che “nella gran parte d’Europa le scuole [sono] integrate in sistemi pubblici centralizzati, gestiti da una burocrazia che rallenta la loro evoluzione o le rende impermeabili alle domande di cambiamento provenienti dall’esterno“. E passa ad avanzare i suoi intendimenti: “la responsabilità della formazione deve, in definitiva, essere assunta dall’industria. Sembra che nel mondo della scuola non si percepisca chiaramente quale sia il profilo dei collaboratori di cui l’industria ha bisogno. L’istruzione deve essere considerata come un servizio reso al mondo economico. I governi nazionali dovrebbero vedere l’istruzione come un processo esteso dalla culla fino alla tomba. Istruzione significa apprendere, non ricevere un insegnamento [ERT, 1995]“. “Non abbiamo tempo da perdere. (…) Ci appelliamo ai governi perché diano all’educazione un’alta priorità, perché invitino l’industria al tavolo di discussione sulle materie educative, e perché rivoluzionino i metodi d’insegnamento con la tecnologia [ERT, 1997]”.
La cosa viene immediatamente ripresa, dal Libro Bianco della UE 1995 in cui si fa esplicito riferimento all’ERT: “Il rapporto della Tavola Rotonda Europea degli industriali ha insistito sulla necessità di una formazione continua polivalente (…) incitando ad imparare ad imparare nel corso di tutta la vita [long life learning] …[e quindi] una iniziazione generalizzata alle tecnologie dell’informazione è diventata una necessità“.
Ad evitare facili illusioni era l’OCSE che, nel 1996, facendo riferimento ad una tavola rotonda svoltasi negli USA (Filadelfia) nel febbraio dello stesso anno, spiegava che “l’apprendimento a vita non può fondarsi sulla presenza permanente di insegnanti ma deve essere assicurato da ‘prestatori di servizi educativi’ (…). La tecnologia crea un mercato mondiale nel settore della formazione” e, mediante TV ed Internet, si possono produrre programmi da una parte e proporli in tutto il mondo (educazione a distanza o e-learning: si sente qui la presenza nell’ERT di vari colossi informatici europei, Philips, Siemens, Ericsson, Bertelsmann…).
Ad evitare possibili obiezioni su programmi didattici che travalichino le frontiere interferendo sui sistemi scolastici nazionali , la Commissione UE si preoccupa di affermare che l’insegnamento privato a distanza costituisce un servizio e come tale rientra nell’articolo 59 del Trattato CEE; sarà la UE a rilasciare una Tessera personale delle competenze [il portfolio, ndr] per scavalcare i titoli di studio dei singoli Paesi. In ogni caso la stessa OCSE avvertiva che era necessario “un maggiore impegno da parte degli studenti nel finanziamento di gran parte dei costi della propria istruzione“.
Gli insegnanti residuali (sic!), che occorrerà portarsi dietro fino alla loro estinzione, si occuperanno della popolazione non redditizia. Ed ecco che si può intravedere la stessa conclusione alla quale erano arrivati a San Francisco: anche qui si scoprono masse eccedenti. Ed un plauso a questo Libro Bianco viene dagli USA. M. Murphy, della Northern Illinois University, osserva che “la decisione politica di incoraggiare l’apprendistato a vita è destinata a fornire alle grandi imprese europee l’infrastruttura educativa essenziale al mantenimento dei loro tassi di profitto“.
Viene infatti a realizzarsi uno degli scenari che la stessa Commissione Europea aveva delineato tra il 1990 ed il 1991: un grande mercato degli strumenti didattici offerti sul mercato dell’insegnamento permanente secondo le ordinarie leggi della domanda e dell’offerta. In tale mercato i corsi sono i prodotti e gli studenti sono i clienti. “Un’università aperta, si dice, è un’impresa industriale e l’insegnamento superiore a distanza è una nuova industria. Quest’impresa deve vendere i suoi prodotti sul mercato dell’insegnamento permanente“.
Rapporto UNESCO 1996 (Commissione J. Delors) e Libro Bianco UE 1996 (E. Cresson)
In tempi rapidissimi i desiderata del mondo dell’impresa e della finanza trovano accoglienza in un lavoro dell’UNESCO del 1996. Una Commissione presieduta da Jacques Delors, che ha appena lasciato la Presidenza della UE, stila un rapporto che getta le basi per la scuola europea del futuro immediato (ricordo che le prime intenzioni puntavano ad una scuola nuova per il nuovo millennio). Anche la UE, crea una Commissione, presieduta da Edith Cresson, nientemeno che un ex Primo Ministro francese, che lavora nel senso delle richieste avanzate dall’ERT.
Le analisi di Delors partivano dal cambiamento di un mondo, di un modo di essere, dal passaggio dall’ingombrante cartaceo ai computer, con le illusioni tipiche create nei neofiti e le certezze di chi fa affari. Si ripeteva quanto accaduto all’inizio del Novecento, il passaggio dall’operaio con mestiere complessivo allo specializzato ad una dimensione del fordismo. Ora la catena di montaggio, le grandi concentrazioni operaie, il modo di produzione che abbiamo conosciuto cede il passo ad altro che non conosciamo. Delors prende atto di un mondo non più descrivibile in termini di sviluppo lineare e di continua accumulazione; in cui la rottura dei rapporti tra mondo produttivo ed ambiente e l’enorme conflittualità tra mercati, che si è creata con l’esclusione di gran parte dell’umanità, ha visto un continuo crescere di tensioni e di guerre.
Le risposte a queste problematiche sono molto articolate ma si possono riassumere in quattro grandi finalità per la scuola: imparare a conoscere, imparare a vivere insieme, imparare ad essere, imparare a fare. Sulle prime due c’è poco da dire, ma sulle altre è necessaria una qualche specificazione. L’imparare ad essere punta verso il riconoscere che l’essere umano è fatto oltre che di corpo, anche di spirito.
Scrive Delors: “Il mondo, spesso senza accorgersene, ha un desiderio ardente, spesso inespresso, di un ideale e di valori che noi chiameremo ‘morali’. E’ quindi nobile compito dell’educazione incoraggiare tutti e ciascuno, agendo in armonia con le loro tradizioni e convinzioni e mostrando pieno rispetto per il pluralismo, innalzare le menti e gli spiriti fino al piano dell’universale e, in certa misura, al superamento di se stessi. Non è esagerato, da parte della Commissione, affermare che da questo dipende la sopravvivenza dell’umanità“.
Per quel che riguarda invece l’imparare a fare si ritorna con i piedi sulla Terra e si dice: “nell’industria, specialmente per gli operatori di macchine e per tecnici, la supremazia dell’elemento cognitivo e di quello informativo, come fattori nei sistemi di produzione, sta rendendo superata l’idea di abilità professionale e mettendo in primo piano quella di competenza personale [qui si adombrano i ‘percorsi individuali’ e le abilità del telelavoro, ndr]… Tale competenza “è un misto, specifico per ciascun individuo, di abilità nel senso stretto del termine, acquisita attraverso la formazione tecnica e professionale, di comportamento sociale, di un’attitudine al lavoro di gruppo e d’iniziativa e disponibilità ad affrontare rischi [la ‘mobilità’, della quale Delors si era occupato in un Libro Bianco della UE del 1993, ndr]”.
E, nonostante tante buone intenzioni, la parte essenziale è quella che conclude il Rapporto medesimo: Il sistema scolastico deve possedere “maggiore diversità curricolare e costruire passaggi tra i vari sistemi di istruzione, o tra la vita lavorativa ed ulteriori corsi di formazione. Una tale flessibilità contribuirebbe anche a ridurre il fenomeno della mortalità scolastica ed il terribile spreco di potenziale umano che ne risulta“.
Su linee più decisamente imprenditoriali si muove il Libro Bianco della UE (Cresson) del 1996. Partendo dal riconoscimento di una società in rapido cambiamento (mondializzazione, informazione, scienza e tecnica, impresa…) si afferma che la scuola si deve adeguare. In particolare la crescita dell’informazione a livello mondiale potrebbe essere di aiuto al sistema formativo. Ma per far questo l’Europa deve avere come priorità l’investire in software multimediale, data la frammentazione del mercato multimediale europeo, al fine di sfruttare tutte le potenzialità dell’educazione permanente attraverso la TV e, quando si saranno diffusi i computer, attraverso internet.
Ma una ‘scuola’ di questo tipo non può più certificare le conoscenze attraverso un diploma che è sempre più obsoleto. E’ quindi auspicabile quella “Tessera personale delle competenze” di cui prima, da spendere nella UE. Gli obiettivi principali che il sistema educativo deve conseguire sono: 1) l’avvicinamento della scuola all’impresa con l’educazione alla flessibilità ed alla mobilità; 2) il trattare allo stesso modo gli investimenti in affari e quelli in formazione; 3) la lotta all’emarginazione ed all’abbandono scolastico, che possono avere successo con l’introduzione di ogni tecnica multimediale e con i suggerimenti della Commissione: “sviluppare la concertazione ed il partenariato con il settore economico; si può ad esempio immaginare che ogni impresa sponsorizzi una scuola … Le famiglie sarebbero anch’esse coinvolte direttamente …“; 4) la conoscenza di tre lingue comunitarie; 5) l’auspicio che i Paesi della UE adottino “disposizioni a favore delle imprese che attribuiscono particolare attenzione alla formazione“.
A questo occorre aggiungere quanto sostenuto dal Memorandum della UE del maggio 2002. Esistono tre tipi di educazione: “quella formale che fornisce diplomi alla fine di un ciclo di studi; quella non formale fuori dagli istituti d’istruzione che non porta a diplomi; quella informale che è un corollario della vita quotidiana”. Questa disquisizione è fatta per sostenere che occorre puntare sull’educazione informale, riserva considerevole di sapere e possibile sorgente d’innovazione per metodi e contenuti. Ma dove si può educare informalmente? Lo dice la stessa UE: “Per avvicinare l’offerta di formazione al livello locale bisognerà anche riorganizzare e ridistribuire le risorse esistenti al fine di creare dei centri appropriati di acquisizione delle conoscenze nei luoghi della vita quotidiana in cui si riuniscono i cittadini, non solo gli istituti scolastici, ma anche i centri municipali, i centri commerciali, le biblioteche i musei, i luoghi di culto, i parchi e le piazze pubbliche, le stazioni ferroviarie e autostradali, i centri medici e i luoghi di svago, le mense dei luoghi di lavoro“. Chissà cosa avranno in mente !
Sembrerebbero cose stravaganti. Evidentemente non lo sono se nel documento Bertagna, che è la premessa alla Riforma Moratti, si legge: “In genere, si distingue tra sistema educativo informale, non formale e formale. Il primo è rappresentato dalla vita sociale ordinaria che non esprime programmatiche potenzialità formative, pur determinandole di fatto, funzionalmente, in maniera anche irreversibile. Il secondo riguarda quell’insieme di istituzioni che, pur non essendo strutturate in maniera esplicita per promuovere, con gradualità e sistematicità, processi educativi di istruzione e formazione, tuttavia esprime intenzionalità in questa direzione in un territorio e lungo l’intero arco della vita dei soggetti. L’ultimo si riferisce specificatamente al sistema educativo di istruzione e di formazione istituito e strutturato dalla Repubblica (Stato, regioni, Enti Locali) per i minori e per le giovani generazioni. L’ipotesi di riforma che si presenta vuole essere attenta all’integrazione tra questi diversi sistemi (…). L’attenzione si sposta, dunque, dai luoghi di istruzione (scuola) e della formazione (centri, agenzie, servizi, imprese) alla certificazione delle competenze finali che si possono e si debbono maturare in un ambiente piuttosto che in un altro (…) certificazione delle competenze che proprio per la sua natura rifugge da ogni esclusività di percorso e, più che consentire, favorisce i passaggi tra un indirizzo e l’altro del sistema educativo di istruzione e formazione (…) Le tradizionali alternative tra scuola (statale) e centri della formazione professionale (regionali o non statali), tra scuola e impresa, tra scuola ed extra scuola perdono, perciò, la loro drammaticità (…) Si aprono, al contrario, le prospettive di una solidarietà cooperativa tra tutte le esperienze e i luoghi formativi nei quali si possono raggiungere livelli di maturazione educativa, culturale e professionale, (…) indipendentemente dal fatto che siano statali, regionali o di enti e privati (accreditati)“.
E cose analoghe erano anche nella Riforma Berlinguer, non a caso i due pedagoghi di punta lavorano oggi insieme nel progetto “Buonsenso per la scuola” in cui si riaffermano tutti i desiderata dell’impresa: “Di fronte all’irrompere del computer e di internet sulla scena dei processi di apprendimento qualcuno prevede un futuro in cui la scuola sarà interamente soppiantata dalle nuove modalità di auto-apprendimento in rete, un apprendimento non più insegnato ma semmai tutorato e prevalentemente on line (…). In una logica di «integrazione» l’intreccio e l’alternanza di esperienze di aula, di laboratorio e di vera e propria attività lavorativa condotta in situazione di apprendistato o di tirocinio diventano requisiti fondamentali del curricolo scolastico, come lo diventa lo sforzo di non fermarsi alle conoscenze (…) Le scuole non statali devono essere considerate come una risorsa per la riqualificazione e il rilancio dell’intero sistema formativo pubblico (…) L’abolizione del valore legale del titolo di studio (…) un sistema di valutazione reale dei processi e dei prodotti”.
[continua]
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