Il diritto di guerra
di PAOLO DI REMIGIO (FSI Teramo)
Poiché lo Stato è una realtà umana, gli si nega il diritto di chiedere agli uomini di esporsi al pericolo estremo e gli si imputa la guerra come colpa. Se la colpa è la sovranità dell’arbitrio come tale, l’unione degli individui nello Stato secondo leggi limitative del loro arbitrio costituisce però una condizione necessaria per sottrarsi ad essa; e la guerra, nella quale l’individualità dello Stato si afferma attraverso la rinuncia dell’individuo alla sua particolarità, è così un momento dell’universalità dell’individuo. La guerra resta nondimeno il contrasto più esasperato a cui l’individuo sia sottoposto. Hegel lo esprime in questi termini:
§ 328 Il vero scopo assoluto, la sovranità dello Stato dà contenuto al coraggio come atteggiamento soggettivo; – la realtà di questo scopo finale come opera del coraggio è mediata dall’abbandono della realtà personale. Questa figura contiene dunque la durezza dei contrasti estremi: l’estraniazione stessa, ma come esistenza della libertà, – l’estrema indipendenza dell’essere-per-sé, la cui esistenza consiste, tuttavia, nella meccanicità di un ordine esterno e del servizio, – totale obbedienza e rinuncia alla propria opinione e ragionamento, quindi assenza di spirito proprio, e presenza di spirito e risolutezza istantanee, comprensive e di estrema intensività, – l’azione più ostile e quindi più personale contro individui, insieme a un atteggiamento di perfetta indifferenza, anzi benevolo verso di loro come individui1.
La tensione a cui la libertà è sottoposta nella guerra spaventa e spinge nell’illusione di un mondo pacifico dell’arbitrio, nel quale il contrasto tra particolarità e universalità sarebbe non nella natura delle cose, ma una fase superata dell’umanità. Così i positivisti liberali dell’Ottocento concepivano la società primitiva come società militare, la società moderna come società industriale: quella come società che si costituisce sulla base della negazione dell’individuo, questa la società che nasce dalla sua assolutezza. Lo schema è così tenace e pervasivo da costituire tuttora il paradigma della pedagogia accademica. Mentre la richiesta di sottomettere la particolarità all’universale, che nel coraggio militare raggiunge la sua forma estrema, è contenuta in ogni educazione – educare significa far uscire dall’egocentrismo dell’arbitrio naturale -, l’educazione liberale che si afferma negli Stati Uniti dagli anni ‘60 e poi, attraverso l’apparato propagandistico anglosassone (si pensi all’efficacia della vecchia serie ‘Happy Days’ nel diffondere un’immagine non repressiva della famiglia e una versione rassicurante della particolarità, per esempio nel teppista Fonzie), si diffonde nelle province dell’impero, ha come termine di paragone negativo l’addestramento militare: tutto ciò che ricordi la disciplina, la limitazione dell’arbitrio particolare, è trattato come pedagogicamente rovinoso; ci si illude o che l’individuo abbia già nel suo corredo genetico il piacere del lavoro intellettuale o che il lavoro intellettuale sia paralizzante, che impedisca lo spirito anziché formarlo; si considera cioè lo studio un talento naturale, quindi già acquisito prima di iniziarlo, oppure un obbligo innaturale, dunque illegittimo, e ci si riduce così alla prassi di uno studio a dosi minime affogate in un fiume di eccipienti, come lo sciroppo per la tosse.
Lo schema del positivismo liberale non ha consistenza logica: la particolarità non è già direttamente universale come esso crede, è tale la negazione della particolarità. All’inconsistenza logica corrisponde l’inesistenza storica: la società industriale, abbandonata cioè agli interessi privati degli industriali e dei finanzieri, per quanto più produttiva, non è affatto più pacifica della società militare, anzi è contrassegnata da una esasperazione della violenza bellica conseguente alla sua moralizzazione. I liberali che riconoscono l’assolutezza degli individui particolari e disconoscono la consistenza del loro legame organizzato, cioè della sovranità dello Stato, una volta in guerra ricorrono a valori assoluti non meno delle confessioni religiose che insanguinarono l’Europa nel secolo di ferro, dunque mirano non alla semplice sconfitta dello Stato nemico, ma alla distruzione degli individui, allo sterminio.
L’empirismo inglese crede che l’immaginazione sia arbitraria, ma l’impressione sia oggettiva; invece, finché si dispone del libero arbitrio, si può benissimo scegliere le sensazioni, attenersi a quelle che rassicurano ed eludere quelle spiacevoli; così si ama distogliere lo sguardo dalla storia e pensare che la modernità sia contrassegnata dagli stermini comunisti e da quello nazista nei confronti degli ebrei, e si ama pensare il nazismo come un’ideologia estranea alla moderna società capitalistica – sorvolando sui finanziamenti del mondo industriale che assicurano a Hitler l’ascesa al potere e sulle cordialità intercorse tra le SS e la IG Farben. Così non è: l’inizio della modernità capitalistica coincide non soltanto con le violenze indiscriminate legate alle medievali guerre di religione, ma anche con il colonialismo e con i suoi stermini delle popolazioni americane. Affermatasi tuttavia la nozione di laicità dello Stato, le guerre interne all’Europa si umanizzano fino all’Ottocento, fino cioè al secolo in cui la classe dirigente è il ceto militare feudale. Così, mentre a fine Settecento una sinfonia di Haydn si guadagnava il titolo di militare per il suo fasto timbrico, Hegel poteva scrivere qualche anno dopo le guerre napoleoniche:
Le guerre moderne sono quindi condotte in modo umano e la persona non nutre odio contro la persona. Le avversioni si insinuano al massimo negli avamposti, ma nell’esercito come esercito l’ostilità è qualcosa di indeterminato, che retrocede davanti al dovere che ciascuno rispetta nell’altro2.
Con l’imporsi della borghesia capitalistica come classe dirigente la guerra diventa disumana. Il passaggio storico è costituito dalla prima guerra mondiale, che inizia come guerra del ceto militare e finisce come sterminio: nel 1914 le strategie mirano a una vittoria in sei settimane di rapide manovre degli eserciti, dopo il 1918 si crede di poter vincere la guerra bombardando i civili con gli aerei; e in effetti dalla seconda guerra mondiale in poi, in un crescendo satanico che ha per suo culmine ancora raggiungibile lo sterminio nucleare, le vittime civili sono sempre più numerose delle vittime militari.
Secondo i Lineamenti di filosofia del diritto:
§ 330 Il diritto statale esterno poggia sul rapporto tra Stati indipendenti; ciò che vi è in sé e per sé acquisisce dunque la forma del dover-essere, perché la sua effettività poggia su volontà sovrane differenti.
Il principio del diritto statale esterno è la sua natura intrinsecamente contrattuale, di semplice accordo temporaneo tra individui sovrani e può essere stabilito solo sulla base del riconoscimento tra gli Stati. Essendo il rispetto dell’indipendenza dell’altro in quanto l’altro rispetta l’indipendenza dell’uno, il riconoscimento contiene la contraddizione che l’indipendenza di ciascuno dipende dall’altro – un’indipendenza che dipende; di qui la sua fragilità, il fatto che i trattati internazionali sono rispettati solo temporaneamente e sono annullati nello stato di guerra. Voler superare questa fragilità rinunciando alla sovranità degli Stati obbliga a concepire l’umanità intera come un’unica società civile regolata da un diritto e da una polizia; in questa società civile universalizzata non ci sarebbe più spazio per il riconoscimento tra sovranità, dunque il nemico sarebbe un criminale e costituirebbe una minaccia eterna come la criminalità all’interno dello Stato: stante la cattiveria dell’uomo, l’abbattimento delle frontiere, anziché alla fine della guerra, porta alla fine della pace. Il cosmopolitismo liberale considera lo Stato un fossile; proprio perciò nell’uso della violenza è però costretto ad estendere il diritto della società civile ai rapporti interstatali, così da rievocare la guerra di religione e da vanificare le basi del diritto di guerra.
Hegel ha determinato con estrema accuratezza le conseguenze dei rapporti tra Stati sovrani. Rapportandosi nella loro indipendenza, gli Stati sono particolari l’uno rispetto all’altro, perseguono cioè ciascuno il proprio bene particolare, non il diritto universale:
§ 337 La salute sostanziale dello Stato è la sua salute come di uno Stato particolare nella sua situazione e nel suo interesse particolare e in circostanze esterne altrettanto peculiari accanto ai particolari rapporti stabiliti dai trattati; il governo è quindi una saggezza particolare, non la provvidenza universale – come pure il fine in rapporto ad altri Stati e il principio per la giustizia delle guerre e dei trattati non sono un pensiero universale (filantropico), ma sono la salute effettivamente manomessa o minacciata nella sua particolarità determinata.
Si possono interpretare queste proposizioni come cinismo filosofico; in realtà, in quanto rintracciano una speranza nella durezza delle cose, sono tra le espressioni più alte della civiltà occidentale. Solo se gli Stati riconoscono la particolarità del loro bene, in guerra possono concepire il nemico come nemico determinato, non come criminale. A questa determinatezza si attenne il Congresso di Vienna nel suo rispetto della sovranità della Francia sconfitta. Quando lo Stato si attribuisce invece l’ispirazione della provvidenza universale, allora il nemico è il male stesso, con la cui estirpazione è realizzato il regno di Dio. Ecco perché la determinazione della particolarità del fine dello Stato esposta nel § 337 è seguita nel § 338 dall’esposizione del diritto di guerra, quindi dalla possibilità della distinzione tra giustizia e ingiustizia nella guerra:
Se gli Stati si riconoscono come tali, anche nella guerra, nello stato senza diritto, nella violenza e nella casualità, resta un legame in cui essi valgono l’uno per l’altro come essenti in sé e per sé, così che nella guerra stessa la guerra è determinata come qualcosa che deve finire. Così essa contiene la determinazione del diritto internazionale che vi si conservi la possibilità della pace, che quindi, per esempio, gli ambasciatori siano rispettati, e in generale che non sia condotta contro le istituzioni interne e la vita pacifica privata e familiare, contro le persone private.
Lo Stato laico moderno, riconoscendo la particolarità del vantaggio che persegue con la guerra, può astenersi dalla colpa dell’annientamento del nemico. Le guerre coloniali sono colpevoli proprio in quanto, dichiarando di voler portare la civiltà superiore, non riconoscono la civiltà, cioè l’umanità, del colonizzato; esse in realtà trasfigurano le rapine e gli omicidi perpetrati dai coloni privati in un episodio della teologia liberale del progresso. Ancora più colpevoli sono le guerre in cui gli Stati, anziché riconoscersi come saggezza parziale, anziché realizzare apertamente il proprio utile, lo concepiscono come bene universale moralmente vincolante: la coscienza di agire secondo la Provvidenza o secondo il destino implica la criminalità dell’avversario, lo consegna all’odio e al genocidio.
Mentre gli inglesi amavano definirsi ‘the imperial race’, gli Stati Uniti hanno sempre respinto il titolo di impero; così la loro egemonia non appare fondata su un interesse particolare, ma strumento di diffusione di ideali universali: democrazia e impresa, libertà e prosperità. Ne segue che chi resiste loro non può avere ideali, neanche interessi legittimi, è di sicuro un dittatore criminale che opprime il popolo e lo affama. Congegnate contro il male, le guerre degli Stati Uniti non finiscono mai: la guerra fredda contro l’impero del male si è trascinata quasi mezzo secolo per poi ricominciare, la guerra contro l’asse del male dell’islam è durevole già nel suo nome. Il patriottismo statunitense scorge il carattere essenziale della nazione nel mito della frontiera; merita riflessione che questo mito sia in fondo un mero eufemismo del genocidio dei popoli indiani. L’altezza dell’ideale vuole giustificare ogni misura.
1 Nei Lineamenti di filosofia del diritto. Qui come altrove la traduzione è nostra.
2 Traggo la citazione dall’Aggiunta al § 338 in Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, Frankfurt am Main 1970, p. 502.
Commenti recenti