L’essenza del tecno-capitalismo: la mercificazione della vita da Marx ad oggi
DA GAZZETTA FILOSOFICA (Di Marco Palladino)

Il capitalismo non si configura solo come un modo, fra gli altri, di produzione, ma come un’ideologia intrinsecamente sospinta da un principio metafisico e fondantesi su una chiara visione dell’uomo. Soltanto mostrando la farraginosità di queste due strutture teoretiche portanti è possibile, a mio avviso, aggredire la concezione secondo la quale il capitalismo è l’unico sistema economico adatto a regolare i rapporti fra gli uomini.
Nella celebre opera Miseria della filosofia Marx sostiene che verrà un tempo in cui tutto, compreso l’uomo, diverrà merce. La persona, nell’epoca del tardo-capitalismo, è diventata cosa tra le cose, oggetto fra altri oggetti. Egli, dunque, lungi dall’essere il soggetto della produzione tecno-capitalistica, è, piuttosto, il prodotto stesso di un processo dal quale è inglobato e sussunto come sua parte. Il singolo è espropriato, in questo modo, della sua essenza. Il capitalismo, seguendo questa direttiva teorica, non si configura solo come un modo, fra gli altri, di produzione, ma come un’ideologia intrinsecamente sospinta da un principio metafisico e fondantesi su una chiara visione dell’uomo. Soltanto mostrando la farraginosità di queste due strutture teoretiche portanti è possibile, a mio avviso, aggredire la concezione secondo la quale il capitalismo è l’unico sistema economico adatto a regolare i rapporti fra gli uomini.
Qual è, dunque, l’essenza metafisica che si dispiega nel capitalismo? Tale interrogativo si trova al centro della riflessione severiniana sull’evo contemporaneo e di essa ci serviamo per meglio districarci fra le maglie del problema sollevato. Anzitutto, bisogna chiedersi “cos’è l’essenza?” L’essenza, seguendo l’insegnamento di Artistotele, è ciò senza il quale la cosa non sarebbe la cosa che è. L’elemento strutturale del capitalismo attuale, tolto il quale non sarebbe quel che è, è l’incremento indefinito e illimitato della potenza e del profitto. Nel capitalismo vige la volontà di volontà, una volontà di potenza cieca e arbitraria, che impone come unico scopo dell’agire l’aumento senza limiti di potenza e profitto. Tale essenza, però, dipende in qualche misura dalla subordinazione dell’economia alle esigenze della tecno-scienza. Insomma, l’agire umano diventa orientato completamente al fine della potenza e del profitto perché l’orizzonte entro il quale si muove è totalmente dominato dall’apparato tecnologico. L’economia capitalistica, allora, non è il soggetto che guida il nostro tempo, ma, al pari dell’uomo, è asservito alle richieste della tecnica di cui, illusoriamente, crede di servirsi. Insomma, il rapporto è ribaltato. L’economia capitalistica non è fine, ma mezzo nelle mani della tecnica. In questo senso, Severino non si discosta da Heidegger, il quale in tutti i suoi scritti ha ribadito la preminenza della tecnica nei confronti di tutti quei saperi che erroneamente tendiamo a porre al di sopra di essa, arrestandoci a una considerazione antropologico-strumentale del suo dominio che non tiene conto dell’essenza precipua che in esso alberga.
«L’essenza della tecnica non è nulla di tecnico» afferma Heidegger. Anche per il filosofo tedesco non è l’uomo il soggetto capace di guidare il processo tecnico. Egli non ne è il possessore, ma, al contrario, è colui che, come strumento, viene preso in custodia dalla tecnica stessa, nella quale vige un provocare, una richiesta che trasforma l’uomo e il mondo in Bestand, fondo sempre a disposizione, da raschiare fino all’esaurimento delle sue risorse ed energie.

A tal proposito, proseguendo lungo questa direttiva ermeneutica, il filosofo Raimon Panikkar tende a distinguere la tecnologia dalla tecnica. Techné, traducibile con tecnica o arte, è certamente un patrimonio di tutte le culture. Esso, primariamente, consiste nella capacità di manipolare la materia per accrescere il benessere dell’uomo. Questa concezione generale della tecnica, intesa come produzione di utensili finalizzati alla generazione del benessere umano e che, dunque, si profilano come dotati di neutralità, in quanto possono essere utilizzati bene o male, rientra nella concezione su menzionata che vede la tecnica in chiave antropologico-strumentale. Questa concezione della tecnica costituisce quella che Panikkar chiama la macchina di primo grado. La tecnologia, invece, è la macchina di secondo grado, quella che utilizza altre macchine di primo grado per estrarre l’energia e permettere, in tal modo, l’accelerazione del processo produttivo.
La tecnologia, contrariamente dalla tecnica, non è un universale culturale, un patrimonio di tutti gli uomini, ma uno strumento di dominio che conduce alla tecnocrazia, al kratòs, al potere della macchina sull’uomo. La tecnologia non è più uno strumento che può essere utilizzato bene o male, ma ciò che rende strumento, che trasforma colui che utilizza la macchina in macchina a sua a volta. Il lavoro moderno, dominato dalla tecnologia, è schiavitù, alienazione. Per Panikkar ciò che definisce davvero il lavoro umano è il suo essere un atto attraverso il quale collaborare e cooperare al dinamismo dell’universo. Il lavoro autentico non è mera produzione di oggetti in serie, ma è creazione, in cui il soggetto partecipa attivamente e liberamente alla fioritura della cosa creata: egli non solo la produce, ma la vive.
Il lavoro autentico è, quindi, l’esatto opposto del lavoro moderno, finalizzato al solo profitto e all’incremento della produzione. Nel lavoro autentico non solo si produce la cosa, ma, al contempo, si perviene alla pienezza del proprio io autentico. Il lavoro è l’unione di contemplazione e azione: l’azione in esso esercitata non solo forgia qualcosa di esterno al soggetto, ma l’io stesso che è all’opera nell’attività del forgiare e che in essa si scopre nella sua irripetibile singolarità. Il lavoro moderno, in accordo con le tesi rivoluzionarie di Marx, è sì alienazione dalla propria essenza, ma questa essenza non si risolve interamente nell’homo faber. In questo senso sia Panikkar che Simone Weil, pur condividendo alcune tesi di Marx, oltrepassano la concezione del filosofo di Treviri perché l’essenza umana che il capitalismo alienerebbe non è la materia, e neanche solo lo spirito come vogliono gli spiritualisti, ma l’uomo nella sua integralità tripartita. Riprendendo l’antropologia classica, si può dire che l’uomo non solo è corpo, non solo è anima, ma anche spirito. Lo spirito è un’energia non-meccanica, irriducibile alle funzioni della mente, che consiste precisamente nella capacità dell’umano di auto-trascendersi, nell’atto del distacco da ogni determinazione finita del mio essere e dell’essere in sé. Lo spirito è sempre un divenire-spirito e mai una sostanza fissa, un’essenza fantasmagorica. Il tecno-capitalismo, fondandosi su un’antropologia riduzionista, per la quale l’uomo è interamente una funzione, una mera reazione neuro-chimica, si presenta come la più pericolosa delle ideologie: c’è un’ideologia più pericolosa di quella che non vede il proprio carattere ideologico? Questo sistema-mondo, ormai totalmente consegnato nelle mani faustiane del dispositivo cibernetico, è un sistema che si fonda sulla soppressione di ogni forma di trascendenza, come l’imposizione chirurgica dell’alienazione spirituale su scala planetaria. Ma questo tecno-capitalismo, come ben vide Pasolini, non si presenta più simbolicamente come l’ingiunzione del Padre, come l’estrinsecazione sul piano economico, strutturale, della legge repressiva del paterno. Questo potere accoglie e favorisce l’esigenza di fluidità, di liquefazione della soggettività, proprio della contemporaneità. Il fascismo della civiltà dei consumi non dice più “Tu devi!” ma “Vuoi, dunque devi!” Il desiderio, nella molteplicità dei suoi oggetti, viene utilizzato dal tecno-capitalismo come strumento surrettizio di coercizione. Esso non si configura più atto di trascendimento, di apertura all’altro, ma come atto di auto-fagocitazione, in cui tutto è divorato famelicamente. In questo orizzonte di reificazione dell’umano, di totale cristallizzazione del desiderio in un eterno presente astorico, l’alienazione si presenta come la fondamentale spinta dell’uomo al significato, a ciò che sfugge al processo di integrale oggettivazione dell’essere. Marx ci ha insegnato a vedere la quadruplice configurazione dell’alienazione: la scissione patologica dell’io dall’oggetto del suo lavoro; dall’attività stessa del lavorare, la quale si presenta come attività puramente meccanica, priva di slancio creativo; dall’altro, il quale, nelle figure del capitalista e dei competitors, rappresenta la precipua incarnazione del dominio della forza e dell’egoismo; dalla propria essenza, cioè dalla libertà, dalla capacità di esercitare il proprio conataus senza costrizione.

Il tecno-capitalismo, oggi, non solo ha privatizzato i rapporti di produzione, facendo del lavoro il luogo della meccanizzazione e dell’allevamento dell’umano, ma ha metafisicamente legittimato il regime della proprietà privata attraverso un’antropologia fisicalista che sopprime l’irriducibilità della vita interiore. Se l’essere umano è soltanto una sofisticata macchina biologica che genera l’illusione della coscienza e della libertà, è possibile affrancarsi dal dominio della necessità che si estrinseca nel dominio tecno-capitalistico?
La sapienza spirituale di ogni tempo, da quella cristiana a quella buddhista, si fonda sull’opposizione fra l’io empirico e lo spirito, fra l’ego come sovrastruttura fittizia (cos’è il nostro ego se non una sovrastruttura della mega-macchina tecno-capitalistica? Un’escrescenza di questo grande cervello che ci dice cosa desiderare e cosa essere?) e lo spirito come vita liberata, distaccata, che non agisce più assecondando il principio dell’utile. Il desiderio dell’assoluto, l’amor fati, l’azione non-agente taoista, l’esperienza della vacuità buddhista designano, nella loro specifica singolarità, l’affrancamento dell’umano dalla pura istintualità. In ogni caso si tratta di trascendere la propria identità appropriativa, quell’identità che si fonda sull’egoismo, la competitività selvaggia, il sentimento di sopraffazione, l’assimilazione dell’alterità. La rivoluzione preconizzata da Marx, l’abbattimento del regime della proprietà privata, deve, necessariamente, accompagnarsi alla riscoperta della nostra natura spirituale, della nostra capacità di distacco dalla distruttività mortifera dell’ego. È forse il tempo di una rivoluzione che, pur accogliendo la critica marxiana, e ancor prima feuerbachiana, della religione, si fondi sull’antropologia della sapienza di Occidente e Oriente.
FONTE: https://www.gazzettafilosofica.net/2025-1/dicembre/l-essenza-del-tecnocapitalismo/





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