Amazon e il suo monopolio
di ALESSANDRO VISALLI
Nel Trono di Spade un uomo che non è più tale conduce in modo irresistibile uno strano esercito: ogni nemico sconfitto ne diventa automaticamente parte, e tra i membri ed il nemico c’è una barriera insuperabile, … sono morti.
Gli ‘estranei’ della fortunata serie televisiva aspirano ogni energia che si trova nel più ampio, complesso e vario mondo dei vivi. In modo in qualche modo simile i nuovi modelli di distribuzione, dalla potenza irresistibile, fanno il vuoto del settore intermedio più rilevante per l’assetto ordinario delle nostre città e della stessa stratificazione sociale: il commercio.
Prima venne la grande distribuzione, e il modello più puro ed aggressivo di questa, Walmart, ma ora sulla sua strada si fa avanti un campione di purezza dall’abbacinante nitore: Amazon. Quando Walmart apre un nuovo punto di vendita nel territorio le reti di commercio di prossimità, anche le più forti ed organizzate, cedono, non riuscendo a stabilire con i fornitori la stessa relazione di potere schiacciante.
La grande catena nata pochi anni fa da un solo punto vendita nello stato di Bill Clinton e divenuta una delle multinazionali più grandi al mondo, di cui abbiamo molte volte parlato (ad esempio qui), basa il suo potere nell’unione perfetta di un monopsonio (di fatto diventa, per la sua grandezza l’unico possibile acquirente per i suoi fornitori) e di un monopolio (con i suoi prezzi diventa l’unico a vendere su un territorio), che si fondano letteralmente l’uno sull’altro, e nel farlo devasta insieme la rete del piccolo commercio, desertificando le città, e il mercato del lavoro, verso il quale il monopsonio si estende. Se si ha la sfortuna di essere un lavoratore debole in un territorio nel quale c’è uno dei giganti di WalMart, si può scegliere tra essere senza lavoro ed esserne schiavo.
Qualcuno potrebbe dire, a questo punto, che è il capitalismo. In effetti lo è; il capitalismo è una forma di organizzazione sociale per sua natura predatoria. La famiglia Walton, che lo ha fondato nel 1962, ed ora è più ricca di 100 milioni di americani con i suoi oltre 80 miliardi di dollari di patrimonio, ha solo applicato il modello. Man mano che il lavoro si è indebolito, a partire dalla rivoluzione reaganiana, un modello che mobilita capacità rese sottoutilizzate dal crollo delle agenzie che proteggevano il lavoro dallo strapotere del capitale ed al contempo offre alle stesse popolazioni marginali riduzioni di costo (ottenute dallo sfruttamento selvaggio della debolezza di lavoratori e fornitori), si è fatto progressivo ed irresistibile.
Più si allarga lo strato di lavoratori impoveriti, più una catena che offre salari di stretta sussistenza per vendere prodotti a basso prezzo (e qualità), strangolando i fornitori e costringendoli a loro volta ad abbassare i salari, è in vantaggio. La competizione come unico criterio legittimo, essenza dello spirito del capitalismo, alla fine porta alla concentrazione nelle stesse mani delle due forme interrelate di monopolio.
Ma i Walton, in fondo, hanno una catena di supermercati, sono ancora “old economy” (anche se catturano lo spirito della “new economy” e del “modello piattaforma”). Bezos, invece, non si vede. La grande idea è di costringere progressivamente tutti ad unirsi ai suoi ranghi. L’ex libreria on line ora vende quasi tutto, oltre cinquecento milioni di prodotti, dai generi alimentari (per ora non freschi) alle scarpe da ginnastica, l’elettronica da consumo, ovviamente i libri. Nel settore che ha occupato per prima la sua potenza è tale da costringere tutte le residue catene (come La Feltrinelli in Italia) a praticare gli identici sconti, ma con il sovrappeso di avere i negozi. Anzi da fare da espositori gratuiti alla catena on line. |
La stessa cosa avviene per le firme di abbigliamento, il rapporto tra clienti che provano gli abiti e impegnano negozi e commesse e quelli che comprano non è probabilmente molto variato nel tempo, ma come per i libri quasi sempre gli acquisti sono però comodamente fatti da casa sulla piattaforma di Amazon e recapitati il giorno dopo. Lo scambio, per chi ancora ha la sua catena proprietaria di vendita (un modo “old style” per estendere i profitti, ora diventato per estendere le perdite), comporta l’obbligo di mettersi d’accordo con Bezos per vendere i propri prodotti. È, infatti, Amazon ad avere il cliente, dunque è lei a fare il prezzo.
Mentre le grandi catene di libri sono per lo più scomparse (ad esempio Borders ha chiuso nel 2011), e le grandi catene generaliste soffrono (Circuit City ha chiuso molti punti ed è stata costretta a venire a patti e la stessa Walmart ha chiuso 270 punti vendita) moltissimi altri settori, come negozi di dischi, elettronica, abbigliamento (pure di grandi marchi come Nike), stanno subendo l’impatto di un modello di vendita più economico, più comodo, più moderno.
Sembra che l’obiettivo sia diventato di “cercare di controllare le infrastrutture sottostanti della nostra economia”, come scrive Stacy Mitchell. L’anno scorso Amazon ha catturato la metà dei dollari spesi on line negli USA, e la maggioranza degli utenti ormai non passa neppure da Google, va direttamente alla pagina di Amazon.
Questa piattaforma dominante si sta estendendo direttamente in tutte le direzioni, produce da sé parte dei prodotti che vende, offre credito ai fornitori per renderli più legati e dipendenti, controlla il 44% della capacità di cloud computing mondiale (ovvero dai suoi server passano le nostre informazioni), sta estendendo sempre più la sua rete di magazzini automatizzati (con pochissimi dipendenti) per accorciare il tempo di consegna e guadagnare forza negoziale, tra poco consegnerà senza uomini (che, del resto, sono ora ipersfruttati da una rete di subfornitori a sua volta catturata dal monopsonio). Ormai dalle auto della Ford (tra breve anche in Italia), agli elettrodomestici della GE, quasi tutti devono vendere così.
Ma c’è qualcosa di peggio, Amazon sta usando il suo strabordante potere per clonare ogni prodotto di successo che passa sulla sua piattaforma. Non è solo scomparso il sogno di raggiungere direttamente i propri clienti sulla grande rete, che aveva spinto l’espansione del Web nei primi anni duemila, sta anche scomparendo per molti il vantaggio dell’innovazione. Chi ha un prodotto nuovo (o una nuova strategia di marketing prodotto) e la colloca, forzosamente, sulla piattaforma può essere certo di essere attentamente monitorato ed osservato. Dopo un poco, se funziona, scoprirà che come per magia uscirà un clone marchiato “Amazon Basic”, che si colloca sistematicamente meglio nei risultati di ricerca, che costa un poco meno. In genere accade dopo poche settimane.
Non c’è niente di illegale, ma semplicemente chi resiste può scoprire che di fatto non esiste più, i suoi prodotti sono scomparsi.
Come scrive Mitchell “il commercio on line non è più un mercato nel senso significativo della parola. Ora è un’arena controllata privativamente, dove una sola azienda definisce i termini per scambiare le merci con gli altri e decidere quali prodotti, quali nuovi autori, quali innovazioni, possono arrivare a trovare un pubblico”.
Gli investitori lo sanno, e stanno coprendo di denaro l’estraneo i cui eserciti irresistibili si estendono sul mondo. Quando Amazon ha dichiarato di voler comprare Whole Foods per 13 miliardi di dollari le azioni della multinazionale sono immediatamente lievitate in pratica della stessa cifra, gli investitori hanno coperto l’acquisto.
Le autorità di regolazione, invece, sembrano non accorgersi dell’esercito che avanza: per loro sono tutti mercati separati, e Amazon è in ognuno, ma sempre con una quota inferiore al 50%. Dunque, secondo le concezioni evirate dell’antitrust contemporanea (dopo decenni di predicazione della Scuola di Chicago, favorevole ai monopoli, purché ce ne sia più di uno), non c’è ancora alcun problema.
Ma il problema esiste, la piattaforma on line in effetti finisce per guidare e controllare, in parte perché dispone delle informazioni, tutti gli altri mercati e settori. Inoltre, man mano che estende la sua logistica (sulla quale gli unici concorrenti globali sono UPS e FedEx) finisce per essere l’unico modo per raggiungere tutti.
Non è solo Amazon, l’economia delle piattaforme sta eliminando sistematicamente tutte le strutture intermedie anche in quei settori dei servizi che, differenziandosi, hanno costituito la modernità assorbendo le risorse rese libere dalle economie di sussistenza “tributarie” precedenti. Come avevamo scritto parlando di Uber, l’idea è piuttosto semplice: attraverso la messa in contatto e la generalizzazione del modello dell’asta viene estratto tutto il valore che era prima in qualche modo catturato ed impiegato da quell’ampio strato intermedio di saperi esperti e dalle pratiche organizzate che hanno guidato la differenziazione progressiva della modernità a partire dal milleseicento ad oggi (in particolare accelerando nel XIX secolo).
Questo strato intermedio, formato da quelle che chiamiamo “professioni”, svolgeva la funzione, in presenza di sistemi sempre più complessi da gestire di ridurre l’incertezza attraverso la specializzazione e creava quindi un diffuso dispositivo sociale di natura disciplinare. In effetti, guardandolo con il senno di poi, questo fenomeno è stato il principale fattore di stabilizzazione della società durante il lungo turbamento indotto dall’industrializzazione e dalla penetrazione dello “spirito del capitalismo”.
Si tratta, come sempre, di fenomeni ambigui ed ambivalenti, ma determinavano un importante sottoprodotto: la classe media.
Questo segmento “centrale” (in senso topologico, e a lungo anche in senso politico e culturale) era formato infatti dallo strato direttivo del mondo produttivo, da quello del mondo della distribuzione e dai professional, oltre che da parte del pubblico impiego e del mondo del lavoro dipendente in generale. E garantiva una certa stabilità e mobilità sociale, ancorando in sé la base stessa della democrazia per come nel novecento l’abbiamo conosciuta.
Senza una salda classe media la democrazia non è pensabile. Al massimo si può verificare una qualche forma di elitismo populista (che, infatti, è il modello in corso di affermazione ovunque).
Ma questa “rivoluzione” ha il potere immenso di destrutturare e sfilacciare l’intera nostra società, di desertificare le nostre città e strade, e di costringere alla dipendenza sempre più disperata dallo strapotere del capitale (ovvero dei pochissimi che lo possiedono, dagli “estranei”) tutto il mondo del lavoro. Riguarda letteralmente tutti.
E, tornando alla crescita di Amazon nel settore della distribuzione (e della produzione), rischia di provocare una spirale autorafforzante tra ulteriore crescita della disoccupazione (man mano che le catene logistiche, e persino i normali negozi di prossimità, cedono alla concorrenza), perdita del reddito disponibile (con potenziamento delle dinamiche deflattive), danno fiscale (in parte causato dall’elusione della piattaforma, in parte dalla perdita di lavoro), e incontrollabili effetti urbani.
Infatti una città nella quale i negozi scompaiono, nei quali i grandi magazzini emersi negli anni novanta e duemila restano abbandonati come vecchie cattedrali, in cui torreggiano solo megadepositi automatizzati e sfrecciano droidi (o furgoni automatizzati), e nella quale tutto diventa periferia, può ben essere il sogno di uno.
Ma non il nostro.
Fonte:http://tempofertile.blogspot.it/2017/10/amazon-e-il-suo-monopolio.html
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