Cara Yellen, ma dove è il “mistero” dell’inflazione?
di VITO LOPS
Potrebbe diventare celebre, al pari dei discorsi sull’apartheid di Nelson Mandela o di Robert Kennedy sul Pil che non misura la felicità. Quando un mese fa Janet Yellen, governatore in scadenza di mandato della Federal Reserve, ha detto, rivolgendosi all’associazione degli economisti di business Nabe: “La debolezza dell’inflazione è un mistero”. Completando il tutto con: ““Io e i miei colleghi potremmo aver mal giudicato la forza del mercato del lavoro, il grado di conformità delle aspettative inflazionistiche di lungo periodo con il nostro obiettivo d’inflazione e persino le fondamentali forze che guidano l’inflazione”. Ancora: “Pressioni al ribasso sull’inflazione potrebbe rivelarsi persistenti al di là di ogni previsione”.
Forse la Yellen non ci ha pensato. Ma con queste affermazioni potrebbe entrare nella storia, molto più che per i tre rialzi dei tassi attuati sinora da quando è in cattedra. Perché se l’obiettivo di una banca centrale è controllare il livello dei prezzi (affinché non superino nel medio periodo stabilmente la soglia del 2%) e se il governatore della prima banca centrale al mondo ammette che le attuali dinamiche che muovono i prezzi “sono un mistero” è un po’ come se il capitano di una nave ammetta di aver perso la rotta e che non abbia idea di dove stia portando i passeggeri.
Ma il motivo per cui le recenti politiche espansive delle banche centrali (dal 2009 Fed e Bank of England, dal 2012 Bank of Japan e dal 2015 anche la Bce) non siano finora riuscite a riportare stabilmente l’inflazione core (quella depurata per i prezzi dei prodotti energetici e degli agricoli non lavorati) stabilmente nell’orbita dell’obiettivo “inferiore ma vicino al 2%” è davvero un mistero come sostiene la Yellen? Oppure è il risultato, per certi versi prevedibile, delle stesse politiche monetarie abbinate alla teoria economica dominante?
Gli anni ’80 sono lontani, ma non poi così tanto per ricordarci che allora l’inflazione viaggiava a doppia cifra tanto negli Stati Uniti, quanto in Europa (e non solo in Italia come alcuni superficialmente amano ricordare). In quel momento storico la teoria economica dominante vedeva, seppur agli sgoccioli, i governi ereditare anni di politiche keynesiane, volte al potenziamento della spesa pubblica. Politiche naturalmente inflative, perché distribuivano la ricchezza al ceto medio-basso della popolazione, l’unico quantitativamente in grado di smuovere il tasso di inflazione.
Da allora l’inflazione si è ridimensionata nei Paesi sviluppati. Gli Stati hanno abbandonato il “codice Keynes” rimpiazzandolo con un modello economico neo-liberista. Un modello dove la spesa pubblica è considerata l’inferno e le privatizzazioni il paradiso. Questo modello ha avuto indubbiamente il merito di riportare la tassa occulta dell’inflazione su un sentiero più razionale. Ma il lato oscuro del modello – che oggi sta presentando evidenti limiti così come gli eccessi di spesa pubblica avevano dimostrato negli anni ’80 – è che ci si è intestarditi sin troppo nel voler combattere l’inflazione dimenticandosi, o paradossalmente sostenendoli, degli effetti collaterali. Quel ceto che da basso è diventato medio tra gli anni ’60 e ’80 (e la riprova è data proprio dall’impennata in quella fase del tasso di inflazione) oggi sta percorrendo il percorso inverso: da medio sta tornando basso. Ed è questo il vero motivo per cui i Paesi sviluppati sfoggiano tassi di inflazione risibili (intorno all’1%). La bassa inflazione è la riprova dell’impoverimento graduale dell’unica fascia della popolazione in grado di smuoverla, ovvero il ceto medio-basso.
Il nuovo mondo ha spostato l’inflazione dall’economia reale verso gli asset finanziari. Questi sì che sono di gran lunga inflazionati. E le politiche delle banche centrali – orientate a voler combattere lo spettro della deflazione nell’economia reale – sono magari riuscite nel loro intento (dalla deflazione si è passati verso uno leggero stato di inflazione intorno all’1%) ma al costo (socialmente elevato in termini di inasprimento delle disuguaglianze) di creare inflazione su Borse e bond. Basti pensare che nel 2009 il valore delle Borse globali era di 27mila miliardi. Mentre oggi siamo a 87mila miliardi, 60mila miliardi in più. Stessa solfa per i bond, che sono passati da quando le banche centrali hanno iniziato a comprarli nell’ambito dei cosiddetti quantitative easing da 28mila a 49mila miliardi. Nel complesso, le azioni e le obbligazioni in otto anni si sono ingrassate di 81mila miliardi, più del Prodotto interno lordo del pianeta. Dov’è quindi il mistero dell’inflazione?
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