Questioni teoriche II: stato, nazione, sovranità (2a parte)
di MIMMO PORCARO
(1a parte: https://appelloalpopolo.it/?p=35759)
3. 1
Egualmente determinato deve essere il processo della rottura geopolitica, e l’analisi concreta deve dirci, per ogni fase dell’evoluzione del mercato mondiale, quale sia l’unità territoriale “minima” dell’azione, ossia quella nella quale sia possibile quanto meno iniziare un’attività politica sufficientemente autonoma da parte delle classi popolari. Tale unità minima deve essereoggi identificata con lo stato nazionale e ciò sia per i motivi detti poco sopra, sia perché mentre le organizzazioni sovranazionali più influenti sono esclusivamente strumento della lotta di classe dall’alto, gli stati nazionali conservano invece tracce della lotta di classe dal basso e in ogni caso possono costituire, soprattutto se uniti da un patto di cooperazione, quell’argine alla libera circolazione dei capitali che è condizione essenziale per una politica popolare. E’ certo peraltro che lo stato nazionale potrà svolgere questa funzione progressiva soltanto a due condizioni. Prima di tutto esso dovrà essere trasformato smantellando lo stato neoliberista, aumentando il peso delle classi popolari e riducendo gli eventuali conflitti regionali (operazioni che, detto per inciso, richiedono l’esistenza di una autonoma organizzazione dei lavoratori che non si identifichi con l’apparato di stato e quindi non si adagi su nessuna soluzione insufficiente). In secondo luogo lo stato nazionale, ed in particolare il singolo stato nazionale europeo, deve certamente rivendicare la propria autonomia, ma come mezzo per dar vita ad un nuovo spazio internazionale cooperativo capace di fronteggiare efficacemente il capitale. E’ quindi giusto difendere lo spazio nazionale perché oggi il dominio del capitalismo occidentale, e la redistribuzione del potere al suo interno, passano proprio dalla distruzione o dalla sottomissione di quello spazio. Ma la nazione stessa non riuscirà a riconquistare le proprie prerogative se non all’interno di una più ampia dimensione. Se è vero che oggi in Europa il nazionalismo democratico è, e differenza di ieri, una forma della lotta delle classi popolari, è altrettanto vero che l’internazionalismo è condizione d’efficacia (e di esistenza) dello stesso nazionalismo democratico.
3.2
Essendo una risposta all’esigenza di trovare lo spazio più adeguato alla lotta di classe, la riscoperta dello stato nazionale non ha nulla a che fare col richiamo del sangue e del suolo, con l’appartenenza ad una storia e ad una lingua, e meno che mai ad un’etnia: ha a che fare con la necessità di trovare il migliore veicolo per l’azione popolare, e rimanda quindi ad una collettività politica orientata a governare i flussi economici e non a subirli passivamente. Certo: ad intervenire efficacemente sulla globalizzazione, come abbiamo visto, non possono più essere gli stati singolarmente presi, date le innegabili mutazioni verificatesi nell’ultimo trentennio. Ma meno che mai possono essere entità territoriali minori: l’eventuale formazione di entità substatuali, regionalistiche o comunitarie, deve essere vista in linea di massima come unsintomo e non come una cura della malattia. Essa è spesso una reazione alla fine delle politiche redistributive degli stati, ma rischia di peggiorare la situazione perché mette capo ad un indebolimento delle possibili difese contro il liberismo e ad un’integrazione ancor più subalterna dei piccoli territori negli spazi dominati dalle potenze egemoni (l’“Europa dei popoli” contro gli stati è una perfetta simbiosi trai piccoli nazionalismi e il liberismo). Ciò non ci esime, comunque, dalla necessità di una attenta analisi concreta che valuti volta per volta il significato di eventuali secessioni. Il fatto che lo stato nazionale sia al momento la forma iniziale ottimale del conflitto non significa che quest’ultimo debba sempre presentarsi come scontro tra stato-nazione ed enti sovranazionali. In genere le rivoluzioni non attendono la propria forma ottimale per iniziare, e tale forma può apparire in un momento successivo, e non necessariamente all’inizio del processo. Le tensioni generate dalla globalizzazione e dall’Unione europea sono talmente potenti che anche quando assumono una forma sub-ottimale possono produrre effetti rilevanti: oltre alla valutazione di tipo dimensionale (che deve essere preoccupazione costante) è necessaria la valutazione della natura di classe, degli impatti geopolitici, delle crepe che le stesse mobilitazioni regionaliste possono aprire nella credibilità dell’establishment.
4.1
La sovranità di cui si può ragionevolmente parlare oggi non è quel potere assoluto e illimitato di cui si favoleggia per poter poi dire che per fortuna non esiste più. Qui ci riferiamo, al contrario, ad un significato apparentemente minimale ma oggi potenzialmente dirompente di sovranità, considerando quest’ultima come attributo di un ordinamento giuridico: quell’attributo che fa sì che le decisioni di un soggetto pubblico siano formalmente libere e tendenzialmente efficaci. Questa sovranità non è nemica dei diritti individuali e della democrazia, ma ne è una condizione di possibilità. Questa sovranità, che intanto si deve rivendicare in quanto è limitata da una costituzione, rende a sua volta possibile l’esistenza effettiva della costituzione stessa. Quando la dissoluzione della sovranità nazionale non mette capo ad una democrazia sovranazionale ma al dominio delle nazioni più forti, la rivendicazione della sovranità non è un regresso agli albori dell’assolutismo, ma un progresso verso la riconquista della democrazia: è per questo che essa diviene dirompente anche se è formulata in modi pacati e sobri che ne limitino le latenti potenzialità di dominio interno e di aggressione esterna. Se le potenzialità di dominio interno sono ben tenute a bada dal riconoscimento dell’attuale inscindibile nesso tra sovranità e costituzione, quelle di aggressione esterna sono limitate dal riconoscimento del ruolo positivo che ogni sovranità può svolgere nei confronti dell’altra. Infatti, col dire che quello di sovranità è un concetto che contiene in sé stesso il proprio limite perché è posto in relazione con altre sovranità e può anzi esercitarsi solo in rapporto con esse, non si riconosce solo la funzione negativa e rivale delle altre sovranità, ma anche la possibilità che, in un mondo sempre più turbolento e di fronte ad un capitalismo sempre più mobile, la stessa efficacia di ogni singola sovranità dipenda dalla sua connessione con le altre. Dunque la condizione d’esistenza della sovranità è la compresenza di altre sovranità che ne codeterminano l’efficacia, a volte limitandola a volte, in quanto alleate, potenziandola. Da questo punto di vista appare del tutto improduttivo oscillare tra la nostalgica (e infondata) illusione di una sovranità assoluta e una soddisfatta o preoccupata constatazione di morte della sovranità stessa: si tratta piuttosto di misurare, dopo aver rivendicato la sovranità formale come condicio sine qua non, i diversi gradi possibili di sovranità reale, che corrispondono ai gradi di autonomia relativa di uno stato o di un insieme di stati.
4.2
Così definita la sovranità si presenta come condizione elementare dell’efficacia della politica in generale e di una politica popolare in particolare. Ma anche come condizione elementare della possibilità di contrastare l’inevitabile degenerazione di ogni potere. L’individuazione precisa di un sovrano comporta infatti sia la possibilità di contestare chi usurpi la sovranità stessa (le oligarchie a danno del popolo), sia la possibilità di limitare costituzionalmente e contestare politicamente qualunque sovrano quando commetta errori o perda la propria legittimazione: cosa che può accadere anche al popolo sovrano quando le decisioni dei suoi pur legittimi rappresentanti o le sue stesse decisioni “dirette” siano errate o ingiuste. Tutte le alternative che la sinistra radicale ha proposto contro la sovranità in quanto tale non hanno la stessa efficacia politica della sovranità né offrono le stesse garanzie di fronte alla degenerazione del potere di stato. La moltitudine (ma ciò vale in fondo per tutte le svariate idee di comunità territoriale, di zona liberata, ecc.) si presenta come comunità di cooperazione fraterna, giacché si suppone che l’organizzazione complessiva del lavoro sia ormai confusa con la vita e (con un’implicita adesione ad ideologie di derivazione cattolica) che la vita sia semplicemente espressione di una sostanza umana comune, e quindi non attraversata da antagonismi. Ma questa visione irenica della cooperazione sociale (che rammenta alcune delle ideologie che hanno accompagnato la pianificazione sovietica impedendole di veder chiaro nei propri interni conflitti) nasconde sia le pesanti contraddizioni che ineriscono alla stessa vita elementare, sia le durissime asimmetrie presenti nel processo lavorativo capitalistico sia, in ogni caso, le diseguaglianze che scaturiscono dalle esigenze tecniche di ogni processo di lavoro e che tendono inevitabilmente a fissarsi e riprodursi. Nasconde quindi l’esigenza di una istanza terza necessaria a riequilibrare i rapporti sociali, il carattere inevitabilmente istituzionale di tale istanza, la necessità che essa possa emettere provvedimenti coercitivi, e la necessità che essa sia facilmente individuabile per imputarle decisioni sbagliate. Facendo mostra di credere all’immagine che la communication technology vuol dare di sé, e quindi al mondo orizzontalmente connesso che delizia l’ebetudine del consumatore compulsivo di smartphone, la moltitudine si presenta (in maniera ironicamente simile al socialismo reale, ma in realtà addirittura più nociva) come comunità organica che assorbe in sé tutte le funzioni una volta esercitate dallo stato, e che è ontologicamente immune dalla degenerazione ed incapace di commettere errori sostanziali che inficino i suoi stessi principi . Non è del tutto esatto definire anarchica o neo-anarchica una tale posizione, nonostante i suoi evidenti debiti nei confronti dell’anarco-capitalismo statunitense. Essa in realtà sembra situarsi a metà strada tra il pensiero anarchico e l’altra profonda critica al concetto di sovranità che, in nome della comunità e contro lo stato, è stata formulata dalladestra radicale. Del resto, la dialettica tragica del potere investe tutti e nessuno è esente dal ripetere la parabola sovietica. La fondazione dello stato sui soviet (o l’assorbimento del primo nei secondi) implica l’illusione che potere e società siano divenuti identici e l’impossibilita di comprendere e di dare svolgimento all’inevitabile dialettica fra i due termini. La “semplice amministrazione delle cose”, che dovrebbe sostituire lo stato, si rivela nei fatti estremamente complessa, richiede specialismi e burocrazie che diventano veramente pericolosi soprattutto quando non si abbia una teoria che comprenda la necessità del loro sorgere, e quindi i modi per tenerli a bada. E per saltare subito all’oggi, la tanto decantata comunicazione reticolare orizzontale, anche a prescindere dal suo attuale carattere capitalistico e dalle imprese oligopolistiche che in essa prosperano, si rivela nei fatti come un luogo che produce spontaneamente hub che agiscono come veri e propri oligopoli informativi di enormi dimensioni, contornati da un pulviscolo di concorrenti del tutto ininfluenti; hub il cui potere asimmetrico è assai più intenso di quello di una qualunque agenzia statuale. Infine, e ragionando all’estremo, colui che odia lo stato spesso lo fa perché concepisce ogni stato soltanto come dominio assoluto e non sa immaginarne una variante temperata: quando le inevitabili difficoltà e la durezza dell’organizzazione sociale, ed ancor più dei processi di trasformazione, gli si parano dinnanzi, egli è disarmato di fronte alle inattese e complesse necessità di direzione e rischia di esercitarle nell’unico modo che ritiene possibile, ossia quello più autoritario.
5.1
La più importante ragione dell’attaccamento opportunistico (e suicida) di gran parte della sinistra all’Unione europea sta nel carattere apparentemente indeterminato del potere che in essa si esercita, un carattere che ben si sposa con la già notata indeterminatezza del processo rivoluzionario (o, meglio, genericamente trasformativo) che tale sinistra propone. L’Unione europea piace perché sembra essere un luogo privo di sovranità, un luogo in cui quindi non ci si deve prendere il fastidio di conquistare e trasformare il potere di stato, e che rappresenta il terreno migliore, e perciò irrinunciabile, per una (pretesa) organizzazione a-statuale della società. Ma l’Unione europea non è nulla di tutto questo, ed è piuttosto il risultato del momentaneo compromesso tra diverse e divergenti sovranità. Essa è infatti lo spazio in cui si incontrano tre progetti nazionali. Il progetto Usa, interessato ad una vasta area di mercato libero che possa contrastare la Russia ma al contempo non sia base di una nuova e più potente sovranità statale, e quindi funzioni soprattutto come spazio economico. Poi il progetto delle nazioni europee aderenti, attratte dai (passati) benefici economici dell’unità, ma incapaci di darsi uno scopo politico comune su cui costruire un nuovo stato. Infine il progetto della nazione europea egemone, ossia la Germania, che preferisce per il momento mantenere la propria egemonia attraverso strumenti economico-procedurali e non direttamente politico-militari. Il risultato di questo incontro non è la scomparsa della sovranità ma il suo occultamento esdoppiamento. Occultamento perché con una libera scelta politica le diverse sovranità europee hanno deciso di regolare i propri reciproci rapporti e quelli con le proprie classi subalterne attraverso una delega della politica stessa all’economia (ed alle norme giuridico-amministrative attorno ad essa costruite), una delega tale da poter nascondere le responsabilità di ciascuna di esse sia nell’accresciuto sfruttamento dei propri lavoratori sia nella svendita del lavoro, dei risparmi e dei diritti dei propri o altrui cittadini. L’euro (il Reagan d’Europa), che è il perno di questa soluzione, sembra essere l’unico sovrano, ed il modo automatico con cui esso impone la centralizzazione del capitale e la deflazione salariale è una delle più plastiche illustrazioni della teoria marxiana del feticismo e dell’occultamento, appunto, dei rapporti di potere tra classi.Sdoppiamento perché la sovranità non si esercita soltanto in forme occulte, ma torna alla bisogna sul davanti della scena. L’economia, come abbiamo già più volte notato, non può affrontare da sola i compiti che le sono stati delegati, e quindi nei momenti di crisi, in mancanza di una vera politica cooperativa europea, non può che riemergere la mai scomparsa politica degli stati nazionali. Nello stato d’eccezione (che è il momento in cui si manifesta il vero sovrano), ossia nell’acutezza della crisi economica, i rapporti sociali e geopolitici sottostanti ai meccanismi puramente funzionali si mostrano con brutalità: gli organismi comunitari tacciono, le burocrazie attendono ordini e ricompaiono i governi che, fuori da sedi formali, riaffermano il dominio di una coppia di stati (e infine di uno tra essi) come forma del domino dell’intero capitalismo europeo. L’ Europa non è la tomba del sovrano hobbesiano, che in qualche modo ai suoi sudditi doveva comunque rispondere, ma la culla di una sovranità fatta solo per schiacciare le classi e le nazioni subalterne.
5.2
Tutto ciò mostra come sia fuorviante l’idea secondo la quale all’accresciuta integrazione delle economie nazionali europee deve necessariamente corrispondere, come più coerente espressione istituzionale, un vero stato sovranazionale. Non c’è nessun presupposto storiografico, economico, filosofico che ci consenta di argomentare che ad una determinata configurazione produttiva debba per forza corrispondere, come soluzione ottimale, uno ed un solo modello di stato: le diverse forme statuali (città stato, stati nazionali, imperi…) non disegnano un’evoluzione lineare che va dalla dimensione più piccola alla più grande, ma si succedono in maniera imprevedibile in forza di un insieme eterogeneo di fattori. Pur ammettendo che l’integrazione delle economie europee sia cresciuta (ma dovremmo interrogarci almeno sul quanto e sul come) non sta scritto da nessuna parte che la forma migliore per gestirla sia un semi-stato apparentemente sovranazionale e non piuttosto unaconfederazione di stati sovrani. Quest’ultima può infatti sia favorire un’integrazione economica più equilibrata (consentendo maggiori possibilità di voice ed exit alle nazioni più deboli), sia comportarsi di fatto come vera entità statuale continentale, vera perché fondata prima di tuttosu un patto politico. La rottura dell’Unione europea deve quindi essere immediatamente affiancata dalla proposta di costruire una confederazione basata sulla scelta dell’equidistanza trai blocchi, della cooperazione con le economie emergenti, col Medio Oriente e col Nordafrica, dell’invenzione di un nuovo modello sociale europeo che inverta la tendenza all’impoverimento ed alla divaricazione tra le classi.
6.
Concludiamo con un’osservazione di diverso tenore. Quanto detto in queste pagine, e nella prima parte di questo scritto, vale anche a ribadire il carattere non predeterminato, originale e spesso imprevedibile delle forme concretamente assunte dalle contraddizioni del capitalismo. Per questo motivo, quando qui abbiamo parlato di riproduzione dei rapporti sociali capitalistici, lo abbiamo sempre fatto separando decisamente la nozione di riproduzione da quella diidentità. La riproduzione dei rapporti sociali capitalistici non si realizza come ripetizione dell’identico, e non solo perché avviene all’interno di situazioni storiche determinate, ma anche perché è essa stessa a generare eterogeneità e variazione: la riproduzione è una matrice di storicità, e lo è per il concorso di tre fattori. Prima di tutto, la realtà concreta del capitalismo è data dall’intreccio di almeno due sfere (l’economia e la politica) complementari ma distinte, aventi leggi differenti e differenti scansioni temporali: due sfere eterogenee la cui concreta combinazione non può che essere ogni volta originale. In secondo luogo, la riproduzione è un processo di lotta di classe ed è quindi esposta alle variazioni dei rapporti di forza ed ai mutevoli compromessi di volta in volta raggiunti. Infine, ed anche per i motivi appena esposti, la riproduzione non è un fato ineluttabile che si impone impersonalmente agli attori sociali, ma è piuttosto una dinamica certamente inevitabile che però può realizzarsi solo attraverso le libere ed in parte imprevedibili scelte dei diversi attori. E’ come se il capitalismo ponesse ad ogni società il problema di come riprodurre nella migliore maniera possibile i propri rapporti fondamentali. Nessuna società – se non decide di modificare il modo di produzione su cui si basa – può eludere questo problema, ma ogni società lo può risolvere in maniera diversa, a seconda della diversa articolazione tra economia e politica, del diverso sviluppo della lotta di classe e della maggiore o minore capacità degli attori di interpretare la realtà e di fornire risposte adeguate. E nelle risposte può celarsi l’errore di replicazione che conduce a soluzioni insufficienti e foriere di crisi, oppure a soluzioni inedite, capaci di inaugurare una nuova fase del capitalismo. Si può quindi dire che oltre alle differenze ereditate dalla storia e dalla geografia, ciò che da luogo alla distinzione tra le diverse formazioni sociali in cui si articola il capitalismo è proprio la riproduzione stessa, che è un processo necessariamente aleatorio edaperto, che può ripetere le invarianti fondamentali del capitalismo solo in maniera ogni volta diversa e solo come combinazione singolare di elementi convergenti ma eterogenei ossia, appunto, come specifica formazione sociale. E’ proprio la formazione sociale, e non semplicemente il “modo di produzione capitalistico”, ad essere la sede della storia e della politica. E sono proprio la capacità di trovare il nesso tra le forme concrete del capitalismo e le sue leggi generali, l’attitudine a mostrare legami che altrimenti sarebbero celati e a proporre obiettivi politici che su questi legami sappiano intervenire, sono proprio queste cose a costituire l’essenza di una politica comunista e, più in generale, di ogni politica che non sia banale adattamento alla realtà attuale e voglia piuttosto intervenire su di essa secondo un progetto guidato da un’idea.
Fonte: http://www.socialismo2017.it/2017/10/27/questioni-teoriche-ii-nazione-sovranita/#more-579
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