Questioni teoriche II: stato, nazione, sovranità (1a parte)
di MIMMO PORCARO
1.
Abbiamo finora visto che lo stato, non solo nei momenti di crisi ma anche in quelli di relativa quiete, è essenziale all’esistenza del capitalismo e che quindi il concetto di stato fa parte del concetto stesso di capitale. Abbiamo inoltre visto che la guerra non è per nulla l’effetto della sovrapposizione della logica bellicista degli stati a quella “pacifica” del commercio, ma è la prosecuzione con mezzi statuali di una logica feroce di dominio che nasce dall’economia capitalista. Dobbiamo ora chiederci quale sia l’interno funzionamento dello stato capitalistico: che cosa è, insomma, lo stato? Se si pensa lo stato come un insieme di istituzioni pubbliche che, governato da uno o più enti formalmente preposti al compito di direzione, ha piena sovranità su un territorio e su tutte le classi che lo abitano ed esercita tale sovranità attraverso leggi rese efficaci, in ultima istanza, dalla forza militare, se lo si pensa cioè come una realizzazione della modellistica politologica, hanno buon gioco coloro che dichiarano morto o inefficace lo stato perché la globalizzazione ha dissolto la sovranità, il caos ha moltiplicato i centri di potere invisibili o informali, i capitali sfuggono ad ogni controllo e la complessità ha reso inefficace la legge universalistica rispetto ai patti della governance e alla microfisica del potere. Le cose però cambiano non appena si adotti un concetto più articolato e flessibile di stato, più coerente con la migliore ricerca marxista e soprattutto più adeguato a cogliere sia le trasformazioni che la persistenza delle funzioni statuali. Secondo un tale concetto lo stato è quell’insieme di istituzioni pubbliche e private, nazionali ed extranazionali che, agendo secondo prassi formalmente codificate, o comunque secondo un piano, ed utilizzando in ultima istanza norme coercitive, ma anche patti privati aventi effetto di norma pubblica o processi sociali ed economici aventi effetto di coercizione politica, consente una ordinata e continua riproduzione dei rapporti sociali all’interno di un territorio dai confini definiti ma permeabili. Tale riproduzione si realizza garantendo l’unità delle diverse frazioni delle classi dominanti, la loro connessione con le potenze internazionali egemoni, la repressione e neutralizzazione delle classi subalterne e/o la gestione di un compromesso con esse. Al fine di assicurare una relativa coerenza interna ed una effettiva continuità della riproduzione dei rapporti sociali, l’insieme delle istituzioni lato sensu statuali deve darsi un centro dirigente ed unificante, ma questo centro è mutevole, può identificarsi di volta in volta con questa o con quella istituzione, può a volte sdoppiarsi o moltiplicarsi, e non sempre coincide coi centri formali e visibili del potere politico. Generalmente esso è lo snodo in cui si incrociano gli apparati di stato maggiormente capaci di decisione politico-militare, i gruppi privati più influenti e i rappresentanti diretti o indiretti delle potenze mondiali egemoni. Come si vede, si può rinunciare ad una rigida e semplicistica concezione dello stato (fondata sul nesso stabile fra un territorio determinato, una salda sovranità e la piena vigenza di leggi universali tutelate da una forza militare propria) senza per questo dissolvere lo stato stesso nelle interrelazioni dell’economia e della società, e senza rinunciare quindi ad individuare le logiche specifiche dei diversi stati e ad indicare i nodi dove si addensano le scelte e le responsabilità, i luoghi che devono essere occupati, distrutti o piegati ad una logica alternativa.
2.1
Analizziamo meglio, adesso, alcuni degli aspetti della nostra definizione di stato, iniziando dal rapporto tra istituzioni pubbliche e private. La compresenza di tali istituzioni all’interno dello stato non è affatto una caratteristica dell’epoca della governance, ma ha piuttosto a che fare con la natura dello stato stesso. Prima di tutto, dato che lo stato ha il compito di gestire in maniera ordinata e continua i rapporti tra le classi, va osservato che il coinvolgimento delle istituzioni di quelle stesse classi nello svolgimento delle funzioni pubbliche può rendere ancor più ordinate e continue le relazioni fra gli attori interessati. Ma una tale caratteristica, che può essere colta anche da uno sguardo meramente funzionalista, non è forse la più rilevante. Più importante è il fatto che lo stato capitalistico risulta da un compromesso, sempre rinegoziato, tra la necessità dell’esistenza di una istituzione “terza” capace di compensare i conflitti tra capitalisti, e la tendenza di questi ultimi, per ragioni di profitto e di potere, ad esercitare in proprio il maggior numero possibile di funzioni pubbliche e ad utilizzare lo stato solo per socializzare le eventuali perdite e per i lavori più ingrati. La privatizzazione dei servizi pubblici e della stessa funzione di rappresentanza politica non sono che alcuni aspetti di un fenomeno che è ben evidenziato anche dalla moltiplicazione delle associazioni che svolgono, quasi sempre come imprese private, funzioni di mediazione sociale generalmente attribuibili allo stato. L’aspetto più importante in questo campo (particolarmente evidente oggi, ma presente fin dalle origini) è però quello del rapporto fra le banche centrali ed il resto del sistema bancario-finanziario. L’effettivo carattere della banca centrale (che può essere pubblica, semipubblica ma anche privata) e le mutevoli relazioni di dominio, partnership, subordinazione che essa instaura con le altre banche segnano spesso la differenza essenziale tra una forma di stato e l’altra. La stessa ultima grande crisi e la sua momentanea soluzione possono essere lette anche, se non soprattutto, come un effetto del contrasto tra le banche pubbliche e quelle private attorno alla titolarità della funzione di emissione (o meglio di validazione) del denaro. L’ipertrofia del credito privato (cresciuto peraltro sotto l’occhio benevolo della Fed) altro non è stata che l’effetto della sostituzione, nella funzione di perno del sistema, del denaro pubblico con quello privato (il che ha prodotto una massa immane di denaro “fasullo”, assai più ingente e assai meno gestibile di qualunque debito pubblico). Il ritorno alla garanzia delle banche centrali ha segnato una significativa inversione del pendolo verso la centralità del denaro pubblico e della guida politica. Ma d’altro canto l’ideologia, il personale dirigente, la natura giuridica e la struttura proprietaria delle banche centrali ne fanno al momento più una camera di compensazione delle contraddizioni tra singoli capitali che il soggetto di una possibile politica economica popolare.
2.2
Il grado di autonomia relativa delle diverse istituzioni private, la forma del loro compromesso con lo stato ed il tipo delle funzioni statuali da esse svolte contribuiscono, insomma, a definire i caratteri della forma di stato che di volta in volta si realizza. Così, ad esempio, il fascismo si caratterizza anche per la distruzione dell’associazione autonoma dei lavoratori e l’assunzione dell’associazione padronale (che invece rimane, questa sì, autonoma e efficace) come centro di elaborazione della politica economica. Lo stato keynesiano si caratterizza invece per le triangolazioni neocorporatiste in cui il governo costruisce la politica economica ricorrendo stabilmente al confronto con le associazioni sindacali e datoriali, le quali hanno anche la funzione di attuare direttamente alcune delle direttive pubbliche. Lo stato neoliberale è caratterizzato da una forte presenza diretta dei fiduciari delle grandi imprese nel governo e nello stato, dalla riduzione dei sindacati ad interlocutori secondari e dalla devoluzione continua di servizi e funzioni pubbliche alle imprese e ai sindacati stessi nonché alla pletora del “no-profit”. Un tale proliferare di soggetti privati può dare a prima vista l’idea di una dispersionedel potere, ed in effetti una sorta di feudalizzazione della statualità e/o di autonomizzazione di poteri privati è – come abbiamo visto – certamente in corso. Ma da un lato la gestione privata del potere pubblico non è una novità, e l’attuale accentuata privatizzazione non rappresenta quindi di per sé un mutamento qualitativo della funzione dello stato né decreta la sua scomparsa di fronte allo strapotere delle grandi imprese ed all’invadenza del “privato sociale”. Dall’altro va considerato che la privatizzazione di molte funzioni pubbliche può rafforzare lo stato nei confronti delle classi popolari, perché aumenta le risorse disponibili per la difesa/repressione e per le politiche pro business, e perché segna il passaggio da un modello di politiche sociali fondato sul diritto ad uno fondato sull’incertezza ed il clientelismo. Inoltre, la stessa dispersione del potere pubblico si accompagna spesso, dialetticamente, alla concentrazione verticistica dei principali snodi decisionali, necessaria ad evitare o a compensare le tendenze all’anarchia. E, cosa decisiva, una tale concentrazione trova spaziosoprattutto oggi: la crisi economica e le tensioni geopolitiche hanno indotto ed indurranno sempre di più un accentramento del potere di stato e ciò, pur tenendo fermo lo scopo della massima privatizzazione possibile, comporterà una accresciuta dipendenza de facto delle grandi imprese dalle decisioni statuali, data l’accentuazione del rischio insito in autonome strategie politiche delle singole imprese, troppo condizionate dall’orizzonte short term. Vi sarà dunque una tensione crescente tra lo stato neoliberista e i soggetti privati che lo hanno permeato o al quale esso ha delegato funzioni, una tensione che creerà un coacervo di relazioni contraddittorie in cui non sarà facile distinguere azione pubblica e azione privata. Per orientarsi in questo apparente caos si può precisare che le istituzioni private possono essere considerate come parte dell’azione statuale ogni volta che agiscono in maniera più o meno verticalmente coordinata dalla (o alla) autorità pubblica e ogni volta che perseguono fini ulteriori rispetto a quelli propri dell’interesse privato rappresentato. E si può aggiungere che ogni processo economico avente rilevanti effetti di classe, il quale può risultare ovviamente anche da un’autonoma strategia dei capitalisti, diviene momento dell’azione statuale quando risulta da scelte del banchiere centrale o del ministro dell’economia o quando, pur generato dall’esterno, viene amplificato in maniera prociclica come intervento negli equilibri di classe dati. Montidocet.
2.3
Insomma: anche se indebolito, lo stato torna ad essere il centro strategico principale, e il conflitto tra gli stati, proprio in quanto stati nazionali, torna a scandire i tempi della storia e in buona misura della stessa lotta di classe. La rinazionalizzazione della politica è fenomeno che data almeno dalla fine del bipolarismo mondiale. Questa realtà è stata occultata dalle pratiche (ed ancor più dalla retorica) di una globalizzazione che di fatto sanciva il dominio delle nazioni più forti inscrivendolo nelle regole delle organizzazioni sedicenti sovranazionali (Ue inclusa ): la crisi ha svelato i rapporti reali fra gli stati e la dura distinzione fra debitori e creditori, concausa scatenante dei peggiori conflitti. Certo, gli stati nazionali che emergono dalla crisi della globalizzazione non sono identici a quelli che alla globalizzazione hanno dato il via. Alcuni sono molto più forti, altri molto più deboli; l’accresciuta interdipendenza ha reso meno liberi i movimenti di ciascuno di essi; le “ineludibili” leggi del neoliberismo hanno fortemente limitato le funzioni di mediazione statuale fra le diverse classi e fra le diverse regioni di ciascun paese. Ma tutto ciò non riesce a scalfire la centralità attuale degli stati per il semplice fatto chele forme di regolazione alternative a quella interstatuale, ed in particolare le forme del mercato mondiale, mostrano di avere una capacità regolatoria ancor minore e di essere fonte di disordine più che di ordine. E’ chiaro che gli stati capitalisti tenderanno a imporre il proprio ordine attraverso la guerra, qualunque forma essa assuma. Del resto l’interdipendenza a cui si è fatto cenno non favorisce affatto la pace – come vogliono le illusioni mondialiste – bensì proprio la guerra, vista come modo per ridurre, appunto, la dipendenza da altri. E le crisi di consenso derivanti dall’acuirsi dei conflitti di classe e regionali inducono facilmente le élite a cercare compensazioni nel nazionalismo aggressivo. Ma se negli stati vi sono tutte le risorse finanziarie e normative necessarie ad approntare la guerra, vi sono anche quelle necessarie ad imporre la pace, e gli stati stessi (e con loro la stessa idea di nazione) divengono un campo di battaglia nel quale si decide l’uso privatistico e bellicista, oppure sociale e pacifico di quelle risorse. E’ anche per questo che (come potrà essere meglio argomentato in una specifica riflessione sul socialismo) nessuna strategia favorevole alle classi subalterne potrà essere efficace, oggi come ieri, se non mira alla conquista e trasformazione dello stato comecondizione necessaria pur se insufficiente della costruzione di un nuovo potere popolare. Altrimenti non potrà essere eretto nessun argine capace di resistere al capitale finanziario ed alle strategie imperialiste. Affidarsi ai (presunti) “liberi flussi” della globalizzazione, sperando magari di “surfare” su di essi con le città ribelli, le regioni liberate e i piccoli territori autogestiti significa solo affidarsi sorridenti al boia.
2.4
Passando a considerare la nozione di “centro”, o centri, del potere di stato (e ricordando che lo stato tende inevitabilmente a darsi un centro che garantisca la coerenza della sua azione, che questo centro può variare a seconda delle diverse congiunture e che di esso fanno parte quasi sempre organi palesi e occulti dell’apparato pubblico) si deve anche aggiungere che l’esistenza di questo centro (e la sua natura) non deve essere data per presupposta e deve essere individuata ogni volta attraverso specifiche analisi concrete che possono anche giungere a concludere che, nel caso in esame, un centro non esiste e che anzi quello che ci appare come uno stato, uno stato non è, essendo completamente succube di forze sovra o infrastatuali. Più in generale, il ruolo dell’analisi concreta – oggi più importante che mai nell’indirizzare e dosare le iniziative delle classi subalterne – sarà proprio quello di indicarci quale sia la forza relativa del centro e quali siano le istanze esterne alle quali esso deve in qualche modo obbedienza. E qui entra in gioco un ulteriore fattore della nostra definizione, generalmente tralasciato da chi si cimenta con la questione dello stato, o considerato come elemento non inerente al concetto: la presenza organica, tra gli apparati di stato, di istituzioni extranazionali, visibili o no, formali o informali che, quando rispondono alle potenze imperialiste egemoni, sono quasi sempredirettamente connesse al variabile centro dirigente del complesso sistema statale. Dire che tale presenza è organica allo stato serve, oltre che a spiegare buona parte dei comportamenti dei diversi apparati pubblici o pubblico-privati, anche a capire fino a che punto sia vero che, in un ottica di conquista del potere da parte delle classi popolari, la rottura dei precedenti equilibri geopolitici e la costruzione di nuove relazioni internazionali divengono non soltanto precondizioni esterne di tale conquista, ma condizioni interne della sua effettualità. Tale conquista può dirsi effettivamente compiuta, anche nella sua fase iniziale, soltanto quando il potere politico è effettivo, ossia quando è situato in un contesto internazionale che lo rende efficace e quando le istituzioni extranazionali interne allo stato sono quanto meno neutralizzate. Insomma: alla teoria della dispersione del potere opponiamo che in ogni stato esiste un centro dirigente senza il controllo del quale ogni politica è scarsamente efficace. Alla teoria dellacentralità assoluta del governo opponiamo che il centro deve essere ogni volta individuato ex novo, che esso si sposta da una istituzione all’altra a seconda della bisogna. E opponiamo che in ogni caso la piena padronanza delle “stanze del comando” non consiste nella mera azione governativa ma anche nella costruzione di una nuova costellazione di attori sociali ed istituzionali e di un insieme inedito di relazioni geopolitiche. Ne discende certamente che la conquista (ed ancor più la trasformazione) del potere va intesa come un processo, ma ne discende anche che oltre che di conquista si deve parlare di costruzione e ricostruzione del potere politico stesso.
2.5
Dire, come sopra, processo non significa ripetere che “il fine è nulla e il movimento è tutto”. Così come indicare la complessità delle dimensioni sociali ed istituzionali del potere non significa vagare indifferentemente tra l’una e l’altra di queste dimensioni. Complessità non è (come troppo spesso si vuol credere) sinonimo di indeterminatezza, ma di ricchezza delle determinazioni e di relativa imprevedibilità delle loro interazioni. Nella nostra definizione di stato rientrano, come abbiamo visto, anche tutti quei processi sociali ed economici che, pur non agendo con le forme classiche della politica, riescono a determinare effetti di disciplinamento. Gestione dell’assistenza e della sanità, modelli di consumo e di produzione, oscillazioni di ciclo economico, disoccupazione ecc., quando siano in un modo o nell’altro gestiti o mediati da apparati anche pubblici, rientrano a buon diritto nella sfera dello stato, cosicché la trasformazione dello stato ha a che fare anche con questi aspetti “impolitici” della politica e con diverse istituzioni non-statuali dello stato (Terzo settore, ecc.). Ciò non autorizza però a dire, ripetiamolo, che l’essenza del potere si trova diffusa e dispersa nella società e che il processo della sua conquista/trasformazione consiste in uno scontro generico tra i movimenti e il potere stesso, scontro in cui ogni conflitto vale l’altro, in un’ottica di crescita cumulativa dell’antagonismo sociale. Il processo implica invece rotture determinate nei luoghi ben precisiche di volta in volta costituiscono il centro di quella mistura di “sociale” e “istituzionale” che è lo stato: luoghi non definibili in astratto, mai identici, che devono essere individuati, come detto prima, da una precisa analisi congiunturale. Il processo si presenta come una serie di rotture che produce effetti spesso inattesi (come il già ricordato spostamento del centro decisionale da un luogo all’altro), e che non si svolge solo al livello delle istituzioni pubbliche ma nemmeno può essere pensata come lotta del “buon” sociale contro il “cattivo” politico. Una volta riconosciuto il rapporto organico tra aspetti pubblici ed aspetti privati dello stato, la tanto esaltata autonomia del sociale non può più essere data come un presupposto, ma come il risultato di un intervento politico che operi una selezione tra le diverse esperienze ed alla fine metta capo alla costruzione di istituzioni popolari autonome sia dal presente stato capitalista sia dal futuro stato socialista, capaci di contribuire alla distruzione del primo e di entrare in positiva dialettica col secondo. Ma anche tale ultimo tema può essere approfondito solo nel contesto di una riflessione sul socialismo.
(Fine 1a parte)
Fonte: http://www.socialismo2017.it/2017/10/27/questioni-teoriche-ii-nazione-sovranita/#more-579
Una risposta
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