Non così in fretta, Matteo
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Gianmaria Vianova)
Dietro alla crisi del settore bancario italiano non c’è solo la negligenza di Banca d’Italia: meccanismi europei, scelte politiche e responsabilità si intrecciano puntando il dito (anche) verso il Partito Democratico.
guerra aperta tra Matteo Renzi e Bankitalia. Il segretario del PD ha di fatto forzato la mano per far votare al suo partito la mozione di sfiducia nei confronti di Ignazio Visco, governatore uscente della autorità bancaria nazionale. La mozione recita:
Si tratta di una scelta particolarmente delicata considerando che l’efficacia dell’azione di vigilanza della Banca d’Italia è stata, in questi ultimi anni, messa in dubbio dall’emergere di ripetute e rilevanti situazioni di crisi o di dissesto di banche […] avrebbero potuto essere mitigate nei loro effetti da una più incisiva e tempestiva attività di prevenzione e gestione.
Su questo non vi è dubbio. Dov’era la vigilanza quando venivano erogati prestiti a pioggia senza adeguati requisiti? Nonostante l’Unione Bancaria sia entrata in vigore nel 2014, il controllo sugli istituti di credito minori (vedi Banca Etruria, su tutte) rimane in capo a Bankitalia, che avrebbe perlomeno dovuto battere un colpo (o comunque muoversi per evitare la carneficina). La mossa di Renzi, aggressiva e fulminea, ha lasciato di stucco tanti. Bersani, colloquiale come sempre, ha esclamato: quando vedo il partito di maggioranza fare una mozione così, cominciamo a essere fuori come un balcone. Ma non è l’unico: anche Veltroni e Cuperlohanno accusato la sorpresa e diversi deputati PD non hanno votato la mozione, perché non ne erano al corrente. Persino Gentiloni, soprannominato “Belfagor” da Di Battista, si vocifera non ne sapesse nulla (eppure sarebbe il Premier, per dire).
Si sa, gli equilibri intra-partito sono precari e le dichiarazioni vanno fatte col bilancino. Visco fu nominato nel 2011, quando ancora Berlusconi doveva essere investito dal golpe elegante dello spread. Allora le banche italiane, piccole e grandi, non versavano in condizioni di sistemica difficoltà. La crisi economica non si era ancora scaricata sui debiti pubblici, quindi il PIL aveva rimbalzato, seguendo il trend del resto dell’Eurozona. I crediti deteriorati, come vedremo, cominciavano a diventare una preoccupazione ma la vigilanza bancaria non era prerogativa della politica in senso stretto, perché?
Semplice: non erano in vigore i meccanismi europei di risoluzione delle crisi bancarie. All’atto dell’introduzione di questi ultimi, ne fu bellamente ignorato l’impatto politico-sociale. Il loro obiettivo, in pieno spirito di libera” concorrenza adottato formalmente dal Trattato di Maastricht, è quello di evitare che sia lo Stato ad intervenire nei salvataggi di eventuali istituti di credito in crisi: lo devono fare nell’ordine azionisti, obbligazionisti e correntisti. Quest’ultimo meccanismo è ormai noto e prende il nome di bail-in.
Ebbene, il bail-in, che Monti tradusse con un grezzo scopare dentro da Floris, scarica l’onere del salvataggio sui soci/clienti della banca in crisi. Prima con il tradizionale bail-out era il bilancio dello Stato (o nuovo debito tout-court) ad intervenire per evitare che una crisi micro si tramutasse a livello macro. Fino al 2015 era procedura piuttosto consueta, specialmente fuori dai nostri confini, e non necessariamente in una fase di risoluzione. La Germania, virtuosa nella narrazione ma alquanto ipocrita nei fatti, dal 2008 al 2014 ha speso circa 238 miliardi di soldi pubblici per rafforzare il proprio settore bancario. L’Italia solo e incredibilmente 4. Pazzesco a pensarci. Nel 2015, una volta stabilizzate le banche del nord-Eurozona, venne introdotto il bail-in. In altre parole: mediterranei, una volta che ci siamo messi a posto noi possiamo anche cambiare le regole. Dopo aver ingurgitato un cesto di ciliegie hanno abolito le ciliegie. E le banche italianenon ne avevano neanche mai provato il sapore.
Sono solo regole, direte. Insomma: mica tanto. Prima di procedere con la liquidazione coatta amministrativa, adesso, vanno a bussare alla porta di soci, creditori e correntisti: in altre parole vanno a casa degli elettori. Quando il burden-sharing cade su tutti i contribuenti, il peso si fa sopportabile politicamente (mal comune mezzo gaudio). Se però gli investimenti fatti con i risparmi di una vita vengono annichiliti con un semplice decreto allora sì che il malcontento rischia di trasformarsi in una valanga. Ecco che l’approvazione in sede parlamentare delle direttive europee nel settembre 2015, sotto il Governo Renzi, rimangono agli atti come scelta politica: se la banca fallisce vieni azzerato tu, lo Stato d’ora in poi se ne lava le mani. Ancor prima il Governo Berlusconi e, soprattutto, il Governo “di unità nazionale” di Mario Monti (sostenuto anche grazie all’apporto cospicuo del Partito Democratico) non avevano fatto valere gli interessi italiani in sede europea. Il Governo Letta poi, puramente PD, ha dato il benestare a Bruxelles per la Banking Union, senza fiatare o farsi domande riguardo allo stato del proprio settore bancario.
Approvare a cuor leggero simili riforme del settore bancario ha le sue conseguenze. Il creditore e l’azionista della banca che sono consci del rischio di vedersi azzerato l’asset corrono a svendere alla prima avvisaglia. Il correntista, che teme per la propria liquidità (nonostante sia teoricamente garantita sino a 100mila euro dal fondo interbancario sui depositi), ritira il proprio denaro. Il caso quindi diventa mediatico e acquista un peso politico. La criticità dell’Unione Bancaria Europea si sta rivelando a livello ansiogeno più che a livello economico.
Prendiamo Unicredit, ad esempio. Tra dicembre 2015 e dicembre 2016 le sue azioni sono passate da 25,73 a 2,42 euro. Da lì in poi il titolo è risalito, attualmente intorno ai 17 euro, ma l’approvazione del nuovo meccanismo di risoluzione aveva fatto paura a tanti. Cosa ha ripristinato la fiducia nel settore bancario? Semplice, il fatto che il bail-in non venga preso poi molto sul serio. Con il decreto Salva risparmio varato alla fine del 2016, il Governo Gentiloni ha stanziato 20 miliardi di nuovo debito per ricapitalizzare MPS (e altre minori) dopo il fallimento dell’aumento di capitale richiesto dalla BCE. Stessa storia per le banche venete, ripulite e regalate a Intesa con 5 miliardi di denaro pubblico. Esatto: le regole non vengono prese molto sul serio perché se seguite alla lettera porterebbero all’anarchia di mercati e correntisti.
La prova la si è avuta a novembre 2015 quando Renzi, ancor prima dell’entrata in vigore del nuovo meccanismo di risoluzione, applicò le regole europee (forse come prova di forza nei confronti di Bruxelles) per Banca Etruria. Pur di evitare la mano pubblica si intervenne con una linea di credito (Unicredit, Intesa, ecc…) e il fondo interbancario di risoluzione, procedendo con l’azzeramento di azionisti e obbligazionisti subordinati.
No, non si trattava solo di investitori in giacca e cravatta ma anche di pensionati e lavoratori con decenni di contributi alle spalle che si erano fidati della banca del proprio territorio. Vi fu infatti un abuso delle obbligazioni subordinate, piazzate a pioggia anche tra risparmiatori inconsci dei risvolti del proprio investimento, alla disperata ricerca di allinearsi con i criteri di Basilea III. Come se non bastasse al momento della sottoscrizione, sul prospetto delle obbligazioni, il rischio di bail-in non era contemplato (e sarebbe comunque dovuto entrare in vigore solo nel 2016). Il nefasto impatto di quella mossa Renzi lo paga tutt’oggi, per non parlare dei risparmiatori che ancora attendono un risarcimento. Per questo il tema banche non può essere scaricato solo su Banca d’Italia: c’è una decisione politica, quindi una responsabilità, dietro l’azzeramento del risparmio privato.
Renzi paladino dei risparmiatori in uno degli ultimi collegamenti dal Treno PD, accolto con “calore” in tutte le stazioni italiane
Sono vergine! ha urlato Renzi, di ritorno da una fugace (e ammettiamolo breve) camporella nella Maremma. Ignazio Visco, l’imputato, non fa che ripetere compulsivamente la stessa frase:
Abbiamo agito in accordo con il governo.
Come a dire che se lui deve andare all’inferno Renzi farà da cicerone. Tra le parole dell’ex-premier e quelle del forse ex-governatore di Bankitalia ci passa una intera filosofia economica, dibattiti decennali relativi all’indipendenza della Banca Centrale. Nonostante l’operato della Banca d’Italia sia subordinato a quello della BCE essa rimane un importante organo di vigilanza e, soprattutto, la banca centrale del nostro Paese.
Ora, in quanto banca centrale essa dovrebbe essere indipendente dal potere politico, in linea con la visione mainstream derivante dal monetarismo: la politica, ovvero la tentazione di utilizzare ogni mezzo a propria disposizione per fini personali/elettorali, non deve avere a che fare con l’istituto di politica monetaria. È così dal 1981 (divorzio Tesoro – Banca d’Italia) ed è scolpito nella pietra dai trattati UE. La mozione spinta da Renzi va evidentemente controcorrente rispetto a questa posizione, portando a galla la necessità di controllare attivamente l’operato di una autorità così importante. Certo, senza sovranità monetaria e nell’ottica dell’Unione Bancaria, l’assoggettamento della Banca d’Italia al Governo è mera masturbazione mentale priva di applicazione pratica.
In buona sostanza Visco e le autorità di vigilanza hanno la loro buona dose di responsabilità. Sul settore bancario in senso largo, però, sono i governi post-berlusconiani ad aver impresso una accelerazione al processo di deterioramento dei crediti, agevolando la persistenza della recessione (per tredici trimestri consecutivi). Il deficit pubblico, proibitoci dall’Unione Europea con la scusa dell’eccessivo stock di debito pubblico, sarebbe stato in questi anni necessario perché anticiclico: un sostegno fiscale alla produzione economica, andando ad ammortizzare la carenza di domanda interna ed estera. Invece, mentre Francia e Spagna andavano rispettivamente oltre il 5% e a sfiorare il 10%, noi nel 2012, a furia di lacrime e sangue, rientravamo già nei parametri di Maastricht, al 2,9% di deficit. C’è insomma lo zampino della politica economica che, per scelta appunto politica, è stata ostica e nemica del settore bancario e produttivo. Bene denunciare l’operato di Visco però, caro Matteo, non puoi lavartene le mani così facilmente.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/economia/banca-ditalia-pd/
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