Le società del malessere: gli Stati Uniti
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Emanuel Pietrobon)
La strage di Sutherland Springs è solo l’ultimo di numerosi massacri che da decenni affliggono gli Stati Uniti: società del malessere che sta attraversando un tramonto di sangue.
324 milioni di abitanti, 33.636 morti e 73.505 feriti causati da armi da fuoco nel 2013, 372 sparatorie di massa nel 2015 e 307 nell’anno in corso, 716 detenuti ogni 100mila abitanti, il secondo tasso d’incarcerazione più alto del mondo dopo le Seychelles, 2.298.300 persone dietro le sbarre. Gli Stati Uniti d’America rappresentano il 4,4% della popolazione mondiale, ma ospitano il 22% dei detenuti del pianeta, dati alla mano del Prison Policy Initiative, e il 31% delle sparatorie di massa mondiali. Tra il 1968 e il 2011, Politifact ha calcolato che i morti causati dalle armi da fuoco siano stati quasi un milione e mezzo, una cifra ancora più esorbitante se comparata al milione e 200mila di statunitensi caduti in campi di battaglia, dalla rivoluzione americana alla guerra d’Iraq. Con l’inizio del nuovo secolo la violenza è andata aumentando, raggiungendo la media di quasi una sparatoria di massa al giorno, secondo quanto riportato da Gun Violence Archive. L’anno scorso, la celebre rivista Forbes denunciava in Stopping Gun Violence lapericolosa deriva intrapresa dalla società statunitense con l’adozione della cultura delle armi, i cui risultati erano sotto gli occhi di tutto il mondo: un adolescente maschio statunitense fra i 15 e 24 anni ha una probabilità di 70 volte maggiore di essere ucciso con una pistola rispetto ad un coetaneo residente in uno dei 7 paesi più industrializzati del mondo, come Giappone, Canada, Italia o Germania.
La domanda che un consumatore di informazioni dovrebbe porsi è la seguente: è davvero la quasi libera circolazione di armi nel paese, resa possibile dalla morbidissima legislazione, ad originare questi livelli di violenza endemica? Senza dubbio, il contributo è stato significativo, ma le cause che spingono dei normali cittadini a trasformarsi in degli stragisti andrebbero cercate altrove e basta osservare la situazione della Svizzera, in cui vige una legislazione, per certi versi, simile a quella statunitense a comprendere il perché. Su una popolazione di circa 8 milioni e 300mila abitanti, in Svizzera circolano 2 milioni di armi da fuoco, ossia è armato un cittadino su quattro, ma l’Ufficio di Statistica Federale nel periodo 2009/15 ha registrato una media annuale di 41 morti per armi da fuoco. Nello stesso periodo, posizionandosi come il primo Stato al mondo per armi pro capite, 113 per abitante, 357 milioni di armi per 317 milioni di abitanti, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti registrava una media annuale di 11.385 morti per armi da fuoco.
Cosa distingue i due paesi? In apparenza niente, ma le cifre parlano chiaro: negli Stati Uniti esiste un serio problema legato alla violenza da armi da fuoco e nessuna autorità pubblica di rilievo sembra volerlo (o poterlo, leggi pistola, vedi NRA) affrontare e fino a quando mancherà la volontà di trovare una soluzione, magari ponendo delle limitazioni all’acquisto per delle categorie a rischio, le stragi continueranno in gran numero.
Tra il 2005 e il 2012, secondo lo United Nations Office on Drugs and Crime, il paese ha registrato un tasso medio di omicidi di 4.9 ogni 100mila abitanti, al di sotto della media globale (6.2) ma di gran lungasuperiore a quella dei paesi sviluppati, di 0.8. Prima di analizzare la natura multidimensionale della violenza che avvolge il paese, è bene ripetere che le armi sono parte del problema, non il problema, essendo palese che l’origine di questo male è il radicamento di una perversa cultura della violenza in ogni livello della società e che coinvolge ogni etnia. Il Violence Policy Center ha stimato che ogni giorno vengano uccise quasi tre donne negli Stati Uniti per motivi passionali e il problema dei “femminicidi” riguarda soprattutto la comunità afroamericana, nella quale avvengono oltre un terzo di questi delitti.
Numerosi sono anche i minori vittime di violenze: nel 2010, il 91% dei minori uccisi da armi da fuoco nei paesi sviluppati proveniva dagli Stati Uniti e, ancora, due anni dopo, il paese registrava il più alto tasso di adolescenti uccisi del mondo sviluppato, 4 ogni 100mila abitanti. Secondo la rivista Pediatrics, nel biennio 2012/14, sono morti in media 1297 bambini per via di incidenti con armi da fuoco, e mediamente vengono ricoverati 16 minori al giorno per lo stesso motivo, come emerso dal Pediatric Academic Societies Meeting dell’anno scorso. Un capitolo a parte meriterebbe il banditismo di strada. Nel 2011, la Fbi mappava la presenza di oltre 33mila bande nel paese a cui erano affiliate circa 1 milione e 400mila persone, di cui 273mila minorenni, responsabili dell’80% delle morti per armi da fuoco. La domanda sorge spontanea: c’è un problema con la legge sulle armi o con le bande di strada?
La letteratura ed il cinema hanno abituato il consumatore a vedere la violenza di strada come qualcosa di esotico, appartenente a subculture criminali dell’America Latina, dell’Africa nera o dell’Asia orientale, ma non è così. Negli Stati Uniti il banditismo è tanto diffuso quanto il capitalismo e provoca più morti delle sparatorie di massa che riempiono i titoli dei giornali. Il perché un giovane scelga di abbandonare gli studi per dedicarsi alla vita di strada, occupando gli spazi vuoti lasciati negli strati bassi della società dal capitalismo selvaggio, o perché decida di sfruttare una legge fatta per garantire ai cittadini il diritto all’autodifesa e alla sicurezza per commettere una strage di innocenti in una scuola, in un supermercato o in una chiesa, meriterebbero degli studi psicologici e sociologici che tardano a essere fatti e che probabilmente spiegherebbero quale malessere affligge gli abitanti della terra delle opportunità, sempre più lontana dall’idea radicatasi nell’immaginario collettivo di un paradiso terrestre in cui ogni sogno può divenire realtà con la giusta dose di talento, impegno e fortuna e ormai assomigliante ad uno scenario post-apocalittico pervaso da caos sociale, regresso comportamentale e violenza.
La violenza rappresenta un grave problema per la tenuta della società statunitense, già di per sè frammentata per via di questioni etnorazziali che portano periodicamente allo scoppio di tumulti urbani di carattere razziale e per via di divisioni politiche tra opposti estremismi che si affrontano durante grandi manifestazioni o applicano violenza arbitraria per imporre il proprio pensiero, soprattutto nei college e nelle università. Il presidente Donald Trump, commentando la recentissima strage di Sutherland Springs(Texas), nella quale Devin Patrick Delley, un ex militare, ha ucciso 26 persone in una chiesa battista, ha dichiarato che non è la legge sulle armi la causa dell’eccidio e ha ragione. La quasi-libera circolazione delle armi accentua un problema esistente, ma sulle cui origini nessuno si interroga e che pertanto non può eliminato pensando di imporre soltanto delle restrizioni alla compravendita di armi.
Forse, per comprendere che cosa stanno attraversando gli Stati Uniti, e in misura minore e diversa le altre società del malessere, è necessario rileggere il profetico libro Prospettive sulla guerra civile dello scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger, incentrato sul probabile futuro che i paesi del mondo sviluppato avrebbero affrontato qualora non avessero ripreso il controllo sulle loro società, sempre più instabili e violente. Introducendo il concetto di guerra civile molecolare, l’autore si posizionò tra i cosiddetti neomedievalisti delle relazioni internazionali, ritenendo tutt’altro che prospero l’orizzonte occidentale e avvertendo della possibilità di una pericolosa regressione sociale:
Osserviamo il mappamondo. Localizziamo le guerre in corso in territori a noi lontani, preferibilmente nel Terzo mondo. Parliamo di sottosviluppo, non-contemporaneità, fondamentalismo. Questa lotta incomprensibile sembra svolgersi a grande distanza. Ma si tratta di un’illusione. In realtà la guerra civile ha già fatto da tempo il suo ingresso nelle metropoli. Le sue metastasi sono parte integrante della vita quotidiana delle grandi città […] I suoi protagonisti non sono soltanto terroristi e agenti segreti, mafiosi e skinhead, trafficanti di droga e squadroni della morte, neonazisti e vigilantes, ma anche cittadini insospettabili che all’improvviso si trasformano in hooligan, incendiari, pazzi omicidi, serial killer. E questi mutanti, come nelle guerre africane, sono sempre più giovani. La nostra è una pura illusione se crediamo davvero che regni la pace soltanto perché possiamo ancora scendere a comprarci il pane senza cadere sotto il fuoco dei cecchini.
Nell’attesa che un’altra strage cancelli dalla debole memoria dell’opinione pubblica quanto accaduto a Sutherland Springs, è doveroso ricordare che le vittime della guerra civile molecolare che sta prendendo piede nelle società del malessere, non solo negli Stati Uniti, avevano dei sogni e delle speranze, ma sono rimaste vittime della decadenza dell’uomo post-tutto, post-eroico, post-moderno, post-cristiano, post-umano, moralmente vuoto, votato solo alla gratificazione personale, violentemente narcisista e irrimediabilmente perduto.
Quando un uomo decide di entrare in una chiesa, in una moschea o in una sinagoga, per uccidere delle persone colpevoli di credere in una realtà ultraterrena dominata da giustizia e perfezione, lì, quel momento, è segno che l’uomo non è più così umano. Haley Krueger, 16 anni, voleva diventare un’infermiera. Annabelle Pomeroy, 14 anni, figlia del pastore di Sutherland Springs. Famiglia Holcombe, insieme per assistere alla messa. I morti gridano, i vivi piangono, la società del malessere ringrazia.
Intro del documentario Bowling a Columbine (2002) di Michael Moore, incentrato sul tema della violenza da armi da fuoco negli Stati Uniti. Vinse un premio Oscar al miglior documentario
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/societa/stati-uniti-societa-del-malessere/
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