L’Ungheria in ottobre ha comprato 28,4 tonnellate d’oro. Qualcuno sta preparando una ‘Ungherexit’?
di BUSINESS INSIDER ITALIA (Mauro Bottarelli)
La notizia è pubblica, quindi nessun complotto o trama segreta all’orizzonte: nelle prime due settimane del mese di ottobre, la Banca centrale ungherese (Magyar Nemzeti Bank, MNB) ha decuplicato le sue riserve auree.
- Il logo della Banca Centrale Ungherese
Il motivo? Apparentemente, almeno stando alla versione ufficiale fornita da Budapest, il solito: diversificare gli investimenti in un momento di crescente instabilità globale. D’altronde, la stessa Bundesbank ha anticipato addirittura di due anni il rimpatrio del suo oro detenuto presso la Fed di New York, la Bank of England e la Banque de France, adducendo di fatto la stessa motivazione.
Certo, qualcuno ha parlato di timori per la tenuta stessa dell’eurozona, qualcun’altro di una sorta di moral suasion monetaria riguardo la solvibilità del Paese in vista di eventuali guai per Deutsche Bank ma, alla fine, i lingotti sono tornati nei caveau tedeschi e nulla sembra far propendere verso “piani B” nell’immediato.
A far sensazione, però, è la repentinità della decisione ungherese, come mostra il grafico.
- Zerohedge
Fino a settembre, le detenzioni auree della Banca centrali erano infatti pari a 3,10 tonnellate. Ed erano a quel livello non da mesi ma esattamente dal 1986. Trentadue anni. Poi, di colpo, a inizio ottobre ecco che partono ordinativi di acquisto per 28,4 tonnellate di oro, tutto fisico e tutto già consegnato a Budapest.
Insomma, ora le detenzioni sono pari a 31,5 tonnellate. Un’inezia rispetto alle 3.376,3 tonnellate della Bundesbank ma, ovviamente, occorre mettere a paragone le due cifre con le debite proporzioni fra economie. E, soprattutto, con la possibilità che Budapest con quella mossa abbia voluto mandare un segnale, più che investire potenzialmente il fiorino di uno status gold-backed in vista di instabilità ulteriore.
Proprio martedì 16, infatti, il governo di Viktor Orban ha risposto ufficialmente e con durezza all’accusa ufficiale mossagli dall’UE per violazione dei principi fondamenti dell’Unione, in relazione soprattutto alle politiche migratorie e alla querelle con l’università facente capo alla Fondazione di George Soros, di fatto messa “in quarantena”.
In concreto, l’Ungheria non rischia pressoché nulla, perché per trasformare il voto di qualche settimane fa dell’Europarlamento in fatti concreti, vedi sanzioni dirette fino al mancato accesso ai fondi strutturali (extrema ratio), occorrono i voti favorevoli di tutti i Parlamenti dei Paesi membri: la Polonia, a sua volta nel mirino di Bruxelles per la riforma della magistratura, ha già fatto sapere che non ratificherà, di fatto immunizzando Budapest. E forse proprio perché forte di questo scudo, il governo Orban sta alzando il tiro verso l’Unione, di cui fa parte senza essere membro dell’eurozona.
L’ombra dell’Ungherexit è alle porte, ovvero un possibile effetto domino su tutto l’Est attraverso il “Gruppo di Visegrad”? O, quantomeno, si vuole farla stagliare all’orizzonte di un’Europa sempre più debole e destabilizzata dallo scontro con il governo italiano, a pochi mesi dalle europee e dal conseguente rinnovo di tutte le cariche e gli organismi? Non stupirebbe.
Non a caso, proprio da Roma sono arrivati segnale chiari in tal senso, viste le risposte quasi irridenti riservate alle critiche di Jean-Claude Juncker al DEF appena licenziato: come dire, parli pure, tanto potrà farlo ancora per poche settimane. Poi, game over. Insomma, potrebbe esserci una strategia fortemente correlata al progetto di soggetto sovranista chiamato a terremotare l’Ue dalle fondamenta il prossimo maggio, dietro la mossa della Banca centrale ungherese.
La quale, acquistando oro fisico, ha indirettamente inviato un segnale chiaro ai mercati, ancorché tutto da valutare nell’impatto reale: questo grafico ci mostra infatti il livello di esposizione a debito estero in valute straniere (euro e dollaro) di Budapest, un qualcosa di poco tranquillizzante in periodi di instabilità valutaria legata alla politica della Fed.
- Societe Generale
E ancor meno da sogni tranquilli se l’intenzione politica che sottende la mossa è quella di fungere da cavallo di Troia del sogno sovranista di terremotare le istituzioni europee, pur godendo dell’effetto indirettamente immunizzante da attacchi speculativi contro il fiorino garantito proprio dall’appartenenza all’Unione Europea rispetto, ad esempio, alla lira turca.
Ma c’è dell’altro, un qualcosa che amplia il quadro e staglia all’orizzonte l’ipotetico “mandante”, più o meno occulto, delle manovre ungheresi – e sovraniste in generale – in seno al’Ue.
Questi grafici fanno parte dell‘ultimo sondaggio di Bank of America-Merrill Lynch fra gestori di fondi d’investimento:
- Bank of America-Merrill Lynch
non solo i due epicentri di tensione in Europa, la Gran Bretagna del Brexit e l’Italia penta-leghista sono divenuti mercati da cui tenersi sempre più alla larga ma, soprattutto, il populismo in salsa europea che vede in quei Paesi le sue roccheforti è divenuto di colpo il quarto tail risk più temuto, dopo la trade war, la contrazione monetaria (leggi, timori sulla liquidità globale), il rallentamento cinese.
- Bank of America-Merrill Lynch
Segnali, forse unicamente simbolici. Ma che sarebbe irresponsabile ignorare.
Soprattutto, alla luce di questi altri due grafici , i quali ci mostrano una dinamica valutaria globale che pesa ancor più delle mosse eclatanti sul mercato aureo.
Le politiche sanzionatorie degli Usa verso sempre più Paesi nel mondo (il Venezuela ha annunciato che d’ora in poi utilizzerà euro e non più dollari per i contratti commerciali) hanno infatti visto calare la percentuale in dollari delle riserve valutarie mondiali delle Banche centrali al minimo dal 2013.
E, soprattutto, il secondo grafico mette in prospettiva quanto confermato dal Fondo monetario internazionale nel suo ultimo report: oggi la quota in dollari delle riserve globali è al 62,3% e il secondo trimestre di quest’anno ha visto aumentare quelle in yen e yuan. Ma, soprattutto e come appare graficamente evidente, quelle in euro.
- Goldman Sachs
E, vista l’implementazione delle sanzioni contro l’Iran a partire da novembre, quel dato appare destinato ad aumentare in favore della valuta europea e del suo peso a livello di benchmark commerciale mondiale: qualcuno, forse, non gradisce.
E proprio quel malcontento potrebbe fargli unire le forze, come impone la “legge del beduino”, con chi dall’euro è già fuori ma vuole combattere le istituzioni politiche che lo sovraintendono. O chi, senza poterlo dire chiaramente, dall’euro magari sarebbe tentato di uscire, tanto da aver pronto il “piano B”. E da vedere il “padre nobile” dello stesso aver di fatto scalzato il ministro dell’Economia, silenziosamente, nei fatti e in barba all’altolà del Viminale dello scorso maggio.
E se la Cina, poi, decidesse che è ora di far capire a Washington che deve essere la Fed a fermarsi e riattivare un po’ di liquidità nel sistema, scaricando un po’ di debito Usa? E, magari, variando la composizione valutaria delle riserve della Pboc, aumentando la quota in euro? E se lo facesse anche la Russia?
Un quadro che sembra un enorme Risiko globale di politiche parallele e guerre asimmetriche ma che, in realtà, altro non è che una normale politica di influenza da parte delle principali potenze globali, Usa in testa.
Chiedere a Henry Kissinger per referenze, in caso si pensasse che fosse Donald Trump l’antesignano di questa moral suasion diplomatica a tinte forti. E in tal senso, il ruolo di Ungheria e Italia pare strategico.
La prima è appunto la leader del cosiddetto “Gruppo di Visegrad”, spina nel fianco delle auorità europee, soprattutto in tema di migranti (meno quando si tratta di fondi strutturali da incassare), mentre la seconda è semplicemente Paese fondatore e, di fatto, too big to fail.
Non a caso, nel giorno in cui Pierre Moscovici definì “razzista e xenofobo” il governo italiano, aprendo lo scontro frontale, l’ambasciatore Usa a Roma, Lewis Eisenberg, lo benedì come “la quintessenza della democrazia” nel corso di un forum organizzato dall’Ansa.
E, altrettanto palesemente, a difendere i BTP e la loro appetibilità come investimento, mentre lo spread saliva oltre 300, sono state due istituzioni che operano in aree extra-euro, la svizzera UBS e lo statunitense BlackRock.
Segnali, certo. Ma sempre più chiari e ricorrenti, tanto che a smentire eventuali risvolti meramente dietrologici ci ha pensato in più di un’occasione il senatore Mario Monti, certamente non portatore di un physique du role da complottista, il quale ha chiaramente detto che i sovranismi/populismi rischiano di regalare l’Europa a Stati Uniti e Cina. La riprova? Sufficientemente vicina, in prima istanza.
Per l’esattezza, il 26 e 31 ottobre prossimi, quando Standard&Poor’s e Moody’s si pronunceranno sul rating italiano, di fatto decidendone lo status sui mercati e la sua accessibilità e possibilità di detenzione per soggetti istituzionali (Bce compresa, anche se solo formalmente, come ha insegnato il caso del Portogallo, mantenuto investment grade per mesi dalla sola valutazione dell’agenzia canadese DBRS). E quando si vive in Paese dove, in caso di referendum sulla falsariga di quello del Brexit, solo il 44% dei cittadini voterebbe per restare nell’Ue contro il 66% a livello europeo, certe dinamiche non vanno sottovalutate. Certo, c’è il dato confortante in base al quale i nostri stessi connazionali restano per il 65% comunque favorevoli all’euro ma uno status simile (valuta comune ma non appartenza all’Ue), ad oggi, è presente solo in Kosovo. Con tutto il rispetto, forse non il miglior esempio a cui ispirarsi.
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