di LUCIANO BARRA CARACCIOLO
Se l’obiettivo finale, o meglio lo step prossimo venturo, sarebbe quello di diffondere e rendere operativo
il paradigma della self-sovereign identity, rendendo progressivamente e irreversibilmente “inutili” gli Stati, occorre comprendere, tuttavia, che,
per poter avviare questa mega start-up politico-tecnologica hanno bisogno dell’attuale cooperazione degli stessi Stati, affinchè, mediante la forza normativa formale, ed ancora decisiva, di cui dispongono, apprestino il quadro regolatorio fondamentale in cui il paradigma sia
inizialmentevalidato e reso cogente.
2. Di questo fenomeno, di
cooperazione attiva degli Stati nella loro stessa de-sovranizzazione, ne abbiamo vasti esempi già operativi: il primo, il più eclatante, è la stessa
moneta unica, con il processo a cascata della
soft law realizzativa dell’Unione bancaria; ma certamente non è da meno il sistema dell’
accoglienza no-limits, fondato sul
recepimento statale di fonti €uropee forzate fino all’alterazione sistematica delle stesse previsioni dei trattati, che pure, già di per sè, assolvono allo scopo di prefigurare il
mercato del lavoro deflazionista-salariale globale (in particolare, e correlato allo “ius soli”, p.12), condito di africanizzazione e islamizzazione per consolidare meglio l’accettazione della destrutturazione istituzionale, sociale e identitaria che il sistema comporta.
2.1. E al riguardo, rinviando ai post già linkati (e ai links in essi segnalati), ci pare eloquente richiamare questo sunto del pensiero di Kalergy (
qui, p.3): “
Kalergi proclama l’abolizione del diritto di autodeterminazione dei popoli e, successivamente, l’eliminazione delle nazioni per mezzo dei movimenti etnici separatisti o l’immigrazione allogena di massa… …Eliminando per prima la democrazia, ossia il governo del popolo, e poi il popolo medesimo attraverso la mescolanza razziale, la razza bianca deve essere sostituita da una razza meticcia facilmente dominabile. Abolendo il principio dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge e evitando qualunque critica alle minoranze con leggi straordinarie che le proteggano, si riuscirà a reprimere la massa.”
2.2. Anche se poi questo passo può essere inteso, senza equivoci e vistose defaillances giuridiche e culturali, soltanto richiamando il
vero contenuto del principio di autodeterminazione:
“
… Il principio di autodeterminazione NON IMPLICA IL DIRITTO DI SECESSIONE DA PARTE DI MINORANZE DESIDEROSE… di ergesi a STATO INDIPENDENTE [in nota: Anzi, il diritto di secessione delle minoranze fu espressamente escluso, secondo quanto risulta dai lavori preparatori della Carta delle Nazioni Unite, dalla nozione di autodeterminazione: United Nations Conference (on International Organization, Documents, VI), cit., 298. E la prassi internazionale in alcuni casi di tentata secessione (per es. Katanga, Biafra) è stata del tutto conforme a tale scelta].
I diritti delle minoranze possono essere garantiti in uno Stato retto da un regime democratico rispettoso dei diritti dell’uomo in generale e dei diritti specifici delle minoranze in particolare e disposto, a tal fine, a concedere ampie autonomie di governo a determinati gruppi etnici stanziati su una parte del territorio nazionale [in nota: il rispetto dell’autodeterminazione può essere garantito anche con la concessione di ampie autonomie: (per questa soluzione si veda Tran van Minh, op. cit., 107 a proposito della questione kurda e di quella del Sud Sudan) o semplicemente attraverso il rispetto dei diritti delle minoranze così come specificati in numerosi accordi internazionali (si veda in proposito Capotorti, Etude des droits des personnes appartenant aux minorités ethniques, religieuses et linguistiques, Nations Unies, New York, 1979). Le minoranze, infatti, nella misura in cui sia loro garantita un’identità storico-culturale, non sono altro che articolazioni del popolo complessivamente considerato al quale, nella sua totalità, spetta il diritto all’autodeterminazione.[F. LATTANZI, Digesto, IV edizione,Torino, 1987, Autodeterminazione dei popoli, 4 ss]. Si potrebbe continuare con analoga dottrina…
“Lato economico:
europeismo “antirestrizionista”= neoliberismo (
Caffè, 1945).
Lato politico:
scaricare la colpa del conflitto sulla comunità sotto attacco, perché resiste o potrebbe resistere, è un espediente vecchio quanto l’imperialismo: diciamo dal dialogo dei Meli e degli Ateniesi in poi.
In ogni caso, commentando lo scritto di Keynes riportato nel post, Skidelsky osserva (Keynes. The Return of the Master, Penguin, Londra, 2010, s.p.) che “
the idea that ‘globalization’ can lead to war, national self-sufficiency to peace, was of course a complete reversal of the traditional teaching.”; tuttavia, aggiungendo la citazione di
questo passo, conclude che “
Keynes endorsed a qualified internationalism”. Dico, qualcuno avesse avuto il sospetto che si debba “scegliere” fra artt. 4 e 11…”
3. Svolte queste premesse chiarificatrici, che ci sono parse importanti per interpretare correttamente il linguaggio giuridico e la sostanza economica dei fenomeni che analizziamo, mi soffermerei su un articolo in cui mi sono imbattuto leggendo la prima pagina de “Il Messaggero” odierno e che conferma come l’innesco della desovranizzazione statale necessiti di un’attiva cooperazione preparatoria degli Stati stessi.
“A Roma il meglio c’è, lo Stato torni forte“.
4. Si potrebbe sobbalzare, quindi, nel sentire un membro dello
steering committee del Gruppo Bilderberg, formatosi come
ricercatore di
economia presso la
Fondazione Einaudi, membro dell’
European Roundtable of Industrialists e dell’
International Council di JP Morgan, già transitato per l’OCSE, che invoca il ritorno di uno Stato “forte”.
E che comunque fa una ricostruzione storico-istituzionale ed economica quasi-interventista e condivisibile:
“C’è anzitutto una questione di fondo. Quella del grande mutamento di ruolo che Roma ha avuto negli ultimi venti anni.
La riforma del titolo V della Costituzione ha ridotto le funzioni dello Stato centrale. E ha sacrificato una burocrazia ministeriale che, pur con molti difetti, aveva notevoli competenze e professionalità. L’apparato dello Stato si è impoverito drammaticamente.
Sono venti anni che nella pubblica amministrazione non si assume.
Per una città in cui l’apparato statale ha avuto una funzione cruciale, questo ha rappresentato una forte regressione. Con un impoverimento anche economico del ceto impiegatizio che costituisce l’ossatura sociale di Roma. E questo impoverimento sta producendo una sfiducia profonda nella politica tradizionale”.
4.1. Alla successiva domanda, frutto del consueto automatismo categorial-concettuale incorporato nell’approccio giornalistico (“la sburocratizzazione non può essere un fatto positivo?”), risponde in modo “spiazzante”:
“Il fatto, molto negativo, è che abbiamo assistito allo smantellamento delle partecipazioni statali. Avevano dei difetti. Ma forse non tanti di più rispetto alle imprese private. Le partecipazioni statali potevano contare su personale tecnico di altissimo livello.”
5. Sul fatto che l’impresa pubblica contenesse competenze e livelli di efficienza industriale e, in realtà
difetti non maggiori bensì minori delle imprese private, – se non altro per la ricaduta dei settori di ricerca e innovazione sull’intera economia italiana- in realtà basterebbe rammentare quanto
ci ha detto il prof. De Cecco (p.5) (scomparso nel 2016, dopo aver
insegnato a lungo alla Normale di Pisa e alla Luiss), che risulta frutto di
studi scientifici meno dubitativi delle parole di Bernabé (studi che coinvolgono proprio gli aspetti monetari e la connessa eliminazione del ruolo economico-sociale dello Stato):
“Perché le privatizzazioni degli anni Novanta sono state un fallimento?
Sono state le più grandi dopo quelle inglesi e hanno cambiato la faccia dell’industria italiana senza fare un graffio al deficit pubblico.
Se si voleva distruggere l’industria italiana ci sono riusciti.
Ma non credo che Prodi volesse distruggere quello che aveva contribuito a creare. Questo risultato non è stato voluto, ma è sicuro che sia stato assolutamente deleterio.
Gli studi della Banca d’Italia dimostrano che al tempo l’industria di Stato faceva ricerca per tutto il sistema economico italiano. Dopo le privatizzazioni, chi ha preso il posto dell’Iri, ad esempio, non l’ha voluta fare.
Siamo rimasti senza un altro pilastro importante della politica industriale, mentre si continuano a fare solenni discorsi sull’istruzione, sulla ricerca o la cultura. In questi anni è stato distrutto tutto. Su questo non ci piove.
Le prime privatizzazioni sono state fatte per imposizione della City di Londra. Siamo stati ricattati. Credo che era molto difficile per le autorità politiche riuscire a sottrarsi, dati i precari assetti politici che anche allora ci affligevano“.
6. Ma il (parziale) revirement di Bernabè è occasionato da un’analisi portata proprio sulla realtà economica di Roma.
Non “città aperta” ma “città globale”, o meglio obbligata ad essere tale nella realtà delle economie aperte.
E dunque, rammentando come e perché, all’interno del paradigma finale di cui abbiamo parlato all’inizio, si possa collocare l’idea di un rafforzamento dello Stato, che possa servire da innesco di un mondo (senza frontiere politiche) dominato appunto dalle città globali,
ci sovviene il pensiero della Sassen che recentemente abbiamo contestualizzato, che paiono perfettamente coerenti a spiegare il ritorno allo Stato forte, rispetto a cui infatti Bernabé precisa, di fronte alla domanda: “Ma allora bisognerebbe tornare indietro?” “Non dico questo. Perché nel frattempo le cose si sono evolute e Roma ha cambiato pelle”. Già, chissà perché.
7. Ecco dunque la parte interessante del pensiero della Sassen (ulteriormente condensato) che probabilmente può spiegarci l’apparente (semi)contraddizione
(qui, p.1.d):
“La Sassen, famosa teorizzatrice della “città globale”, in un’illuminante intervista, ci dice alcune cose interessanti sui punti a) e b) sopra riassunti, che ci consentono di capire meglio quello c). Proviamo a esaminarle e a commentarle:1) “…non esiste nessuna persona giuridica che rappresenti le marche globali; quello che esiste invece è uno spazio istituzionale, legale, formalizzato, che è stato prodotto passo dopo passo affinché le aziende globali potessero operarvi.
E questi nuovi regimi giuridici, indispensabili alla geografia globale dei processi economici, sono stati creati e legittimati dallo Stato, attra verso processi di denazionalizzazione. Gli spazi globalizzati non nascono dal nulla, ma sono stati creati attraverso un importantissimo lavoro altamente specializzato compiuto dallo stato. Questo significa che all’interno dello stato nazionale ci sono alcuni settori che risultano essenziali per edificare uno spazio internazionalizzato. In questo senso sostengo che il globale si afferma anche all’interno e per mezzo del nazionale, attraverso un processo di denazionalizzazione portato avanti da alcune componenti dello stato nazionale…
…
“Perché se riconosciamo i processi di denazionalizzazione, se in altri termini comprendiamo che la globalizzazione è un processo parzialmente endogeno al nazionale piuttosto che a esso esterno, possiamo capire che è proprio all’interno del nazionale che si stanno aprendo nuovi spazi politici potenzialmente globali per tutta una serie di attori confinati nel nazionale. Attori che possono prendere parte alla politica globale non solo attraverso strumenti globali, di cui possono anche non disporre, ma attraverso gli strumenti formali dello stato nazionale…”.
Questo passaggio può apparire un po’ criptico e, addirittura, (nella tentazione di andare oltre), può indurre a soprassedere. Mal ve ne incoglierebbe! Quello che la Sassen ci sta dicendo nel suo metalinguaggio (che l’ha ormai resa celebre) è, tradotto in corretti e concreti termini giuridico-economici:
“I politici che assumono il ruolo di promuovere, concludere e, successivamente, attuare i trattati internazionali che tutelano gli interessi delle “marche globali”(=”multinazionali”) acquistano un maggiore e crescente spazio istituzionale, funzionalmente giustificato dallo sviluppo dell’azione agevolatrice già svolta”.
8. Poi sono certamente possibili diverse e concorrenti spiegazioni perché, oggi, si faccia un richiamo ad uno “Stato forte”, ben al di là della questione di Roma e del suo declino negli ultimi venti anni. Magari più strettamente politiche e legate all’attualità, per così dire, “elettorale”.
Ma anche ad un elemento fiscale (chiamiamolo così…) che, in realtà, ha sostanzialmentetravolto tutto il territorio italiano: chiamiamolo €uropa, così ci capiamo meglio, anche se non viene mai menzionato.
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