Ripartire dai comuni
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Gabriele Sabetta)
Per ridare centralità all’essere umano, al cittadino e alla sua naturale politicità non resta che ripartire dai comuni
In un mondo che evolve col superamento dello Stato moderno accentrato, ove la politica pare obbligata a cedere il passo a processi economici amministrati da organizzazioni sovranazionali – interessate unicamente alla tutela della libera circolazione globale delle merci e dei capitali – ci si chiede da dove sia possibile ripartire per ridare centralità all’essere umano e alla sua naturale politicità. Se il ciclo si chiude e la spersonalizzazione diventa totale, non resta altro da fare che tornare alle origini, alle radici stesse della tradizione politica occidentale, che si manifestò, nei primi tempi storici, nella grande esperienza delle pòleis elleniche. In questo senso, il Comune, inteso come ente esponenziale di una comunità cittadina, è l’elemento primitivo di ogni associazione politica: non si tratta, infatti, di una semplice circoscrizione amministrativa, opera artificiale di un legislatore – ma il prodotto stesso di quell’antropologia aristotelica che si oppone all’individualismo moderno.
È nella città che gli uomini apprendono a trattare questioni d’interesse generale; è là che imparano ad amare la patria: venute meno queste attitudini, una libera costituzione non potrà mai instaurarsi né mantenersi. Conviene, infatti, mettersi in guardia da quel falso “liberalismo” che, non vedendo nella “società civile” nemico più pericoloso dello Stato, riduce il governo ad una semplice funzione di polizia; ed ugualmente, si devono respingere quegli utopismi che distruggono l’individuo a beneficio della collettività.
La necessità di un potere centrale forte e vigoroso è indispensabile, come garanzia di libertà, ma per dare allo Stato il più alto grado di potenza bisogna incaricarlo di ciò che è necessario: altrimenti, si finisce per impiegare le forze di tutti per paralizzare l’energia di ciascuno. Ciò non significa che nell’attuale contingenza storica, a soluzione di enormi problemi di ordine economico e sociale, non si debba procedere con forza dall’alto, per ristabilire la normalità delle cose; ma al termine di questo interludio, occorre che il potere centrale retroceda progressivamente, lasciando ampi spazi di intervento alla cittadinanza. La libertà e autonomia comunale è il solo mezzo per formare uomini pratici, affinché vedano da vicino ciò che sono gli affari, conoscano le difficoltà, apprendano a diventare cittadini elevandosi all’idea di bene comune e solidarietà sociale. Negli Stati in cui viene progressivamente distrutta ogni vitalità cittadina, una combriccola si forma nel centro, là si agglomerano tutti gli interessi e vanno ad agitarsi le ambizioni. Lo Stato onnipotente, che vigila e amministra ogni cosa, crea una casta invadente verso la quale il Paese volge continuamente gli occhi: le masse per riceverne passivamente ordini e direzione, le persone ambiziose per ottenere protezione e vantaggi.
Le sorgenti storiche della costituzione comunale nella nostra penisola si riassumono in due distinte specie:
1) Il regime municipale sotto l’amministrazione romana;
2) Le carte di affrancamento nei tempi di mezzo.
Nei tempi più remoti, gli abitatori dell’Italia erano riuniti in città raggruppate nelle confederazioni ligure, etrusca, latina, sabina, sannitica…; in origine, anche Roma era una piccola città-stato, che mediante lo spirito guerriero, poco alla volta, prevalse sui propri vicini, assoggettandoli e orientandoli a seconda dei propri interessi politici. Alcune terre ebbero la cittadinanza romana e si definirono “colonie”; altre genti ebbero il permesso di conservare il proprio territorio, le proprie leggi, i propri ordinamenti sociali, le magistrature, ed acquisirono lo status di soci con diverse gradazioni con riguardo ai diritti di cittadinanza: si ebbero, così, i municipia (da munera capěre, assumere obblighi), comunità cittadine legate a Roma. Ma incorporandosi nel mondo romano, inizialmente attraverso patti di alleanza e soggezione, quei diritti sovrani, dipartendosi da ognuna di quelle città, vennero progressivamente a concentrarsi in Roma. Più non restò che una sola municipalità imperante sopra le altre. Il regime municipale mutò quindi carattere: in luogo di essere un governo politico, un regime di sovranità, divenne un modo di amministrazione delegato dal centro.
Cominciò, allora, quel congegno amministrativo che, diramandosi capillarmente, intese a trasmettere la volontà del potere centrale; si ebbero le divisioni e suddivisioni dell’impero, cominciate sotto Diocleziano e mai ultimate; il dislocamento delle provincie diventate satrapie militari; il nuovo ordinamento delle amministrazioni provinciali per sovrastare le municipali e obbligarle all’adempimento di prestazioni ingrate; la separazione dell’amministrazione civile da quella militare – contraria all’antica costituzione romana; le armi tolte ai legionari e date ai barbari. Tuttavia, l’antica civiltà italica non si estinse del tutto: essa tramandò alla nuova età il regime municipale, infiacchito quanto si vuole, ma pur sempre il solo che fosse ancora reale, il solo che sopravvivesse a tutti gli elementi del mondo romano.
Se tutto non sparì nel vortice delle invasioni, fu grazie ai municipi, che l’autocrazia bizantina aveva lasciato in piedi niente più che a strumento del fisco: si strinsero in se stessi, salvando quanto poterono delle leggi, delle consuetudini, delle arti, delle industrie; e sotto lo stimolo del pericolo, eressero le loro mura, armarono le loro milizie, si costituirono a guisa dell’antica repubblica romana.I conquistatori, dopotutto, lasciarono alle popolazioni vinte le leggi e i costumi romani, per cui il regime municipale da essi rispettato si poté perpetuare in molte località e divenne così il principio ed il tipo per le carte di affrancamento in seguito accordate, che cominciarono nel secolo XI e andarono moltiplicandosi nel XII. Queste carte, concesse ai Comuni nei tempi di mezzo, consacrarono una rinnovata conquista politica. I magistrati eletti dagli abitanti, possedevano tutti gli attributi del potere pubblico; le loro funzioni abbracciavano l’amministrazione della giustizia e in certi casi il diritto di pace e di guerra.
A quell’epoca, la maggior parte dei Comuni dell’Italia centro-settentrionale erano divenuti liberi; le istituzioni sorsero lentamente quando l’opera dei secoli dovette completare la fusione dell’elemento romano con quello germanico, mentre ebbero una precoce ripresa, già nel VII e VIII secolo, nelle città ove la dominazione longobarda non si era estesa in maniera regolare e permaneva l’autorità bizantina. Il caso più noto fra questi, degno di menzione, è quello di Venezia: sorti i primi insediamenti in laguna nel V secolo (le popolazioni venete fuggivano dagli Unni di Attila), alla fine del VII secolo la città aveva già raggiunto una discreta estensione territoriale e potenza economica e militare, tanto che venne elevata a ducato dall’imperatore bizantino a mezzo dell’esarca d’Italia con sede a Ravenna, assumendo quella particolare costituzione che la accompagnerà nella sua storia gloriosa.
L’amministrazione dei Comuni italiani, in seguito, mutò carattere: divenne venale e il loro potere venne mano a mano assorbito nell’affermazione di un nuovo potere centralizzatore. I nostri predecessori, nel secolo XV, combatterono con ardore e deplorarono quel grande rivolgimento che faceva sorgere da tutte le parti ciò a cui poterono a buon diritto dare il nome di dispotismo. Bisogna ammirarne il coraggio e compatirne il dolore, ma bisogna pure ad un tempo essere persuasi che quel rivolgimento di cose fu inevitabile: il sistema primitivo dell’Italia e dell’Europa, cioè le antiche libertà feudali e comunali, erano ormai cadute nel vuoto, non garantendo più sicurezza e progresso, che si cercarono altrove. Ma mentre le altre nazioni s’incamminavano verso l’unità e indipendenza nazionale – la Francia e la Spagna per opera del potere regale, l’Inghilterra per l’accordo dell’aristocrazia con il popolo – gli Stati nostri, deboli e divisi, dediti più alle raffinatezze dell’arte e della letteratura piuttosto che alle sottigliezze della politica e al coraggio delle armi, caddero ad uno ad uno, quasi tutti: subentrò il dominio straniero, con i pretesti delle rivendicazioni feudali ed ereditarie, come se l’Italia fosse un bottino da spartire. La monarchia patrimoniale, che non avevamo ancora conosciuta se non nel Mezzogiorno, soppiantò brutalmente i sottili artifizi del nostro diritto pubblico.
Nei cento anni successivi, nell’età del barocco e della Controriforma, l’Italia languì in nullità politiche, in corruzione di costumi, in cupa rassegnazione delle moltitudini. Vediamo, tuttavia, il genio del nostro Paese farsi strada e gettare raggi di luce e di grandezza da far invidia alle nazioni dominanti. Mentre ogni cosa è in balìa di soldatesche sfrenate, si osserva che l’ossequio verso il municipio è ancor vivo e l’universalità della nazione conserva, malgrado tutto, un senso di rispetto verso il medesimo.
Venendo ad oggi, per quanto fin qui enunciato, non vi è da dubitare che il perno di una riforma politico-spirituale che risvegli un sentimento dormiente nel cuore di ogni vero italiano dovrà assicurare lo svolgimento della libertà comunale: la più ampia partecipazione all’amministrazione municipale contribuirà in maniera prepotente allo sviluppo dello spirito cittadino, farà comprendere nuovamente il pregio dell’interesse pubblico e, si spera, sottrarrà molti di noi ad un vergognoso egoismo. Una rinnovata partecipazione politica eserciterà gli spiriti, li terrà in confidenza con la realtà, mantenendoli in guardia contro le false dottrine e le astratte ideologie. Se il Comune risorgerà, diventerà una garanzia di ordine e libertà; se avrà un’organizzazione che tenderà al bene di tutti, alcun sacrificio sarà sterile. Ma non si pensi, anche qui, ad un processo che debba cominciare dall’alto, attraverso leggi, regolamenti e riorganizzazioni di strutture: è dal profondo del nostro spirito che dovrà partire un tale rivolgimento.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/societa/ripartire-dai-comuni/
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