Educazione classica: educazione conservatrice?
di SINISTRA IN RETE (Luca Grecchi)
Immagino che la maggior parte delle persone, anche quelle qui convenute, risponderebbe in modo affermativo alla domanda che dà il titolo al mio intervento. Ebbene, se anch’io pensassi che l’educazione classica fosse un’educazione conservatrice (verso la realtà per come è oggi), probabilmente non avrei svolto questa relazione. Penso, invece, esattamente in modo contrario. Cercherò, dunque, di chiarire bene le mie tesi, che non sono molto di moda. Vi anticipo comunque innanzitutto alcune tesi che non sosterrò.
Non sosterrò, nella mia relazione, la tesi oggi dominante su questa tematica, argomentata ad esempio da Martha Nussbaum e da altri studiosi (alcuni dei quali ospitati, anche di recente, dall’inserto domenicale de Il Sole 24 Ore, che mi pare faccia ormai da tempo di questa tesi un refrain), secondo cui la cultura classica è importante in quanto abitua i nostri ragazzi ad una maggiore duttilità mentale, rendendoli più flessibili, più aperti, ecc. Di fronte ad un mondo del lavoro in continua evoluzione, la cultura umanistica, il greco, il latino, la filosofia, ma anche la scienza e la matematica, offrirebbero la possibilità di uno sguardo d’insieme più ampio, e pertanto una maggiore duttilità mentale: ecco ciò che si sente ripetere spesso. E sono convinto che queste argomentazioni siano la causa principale che spinge molti genitori ad iscrivere i figli al Liceo Classico (che ultimamente sta conoscendo una discreta risalita degli iscritti), unita al fatto che solitamente questo tipo di scuola ospita adolescenti meno problematici, ed anche per questo si preferisce mandare lì i propri figli: bisogna sempre dire la verità se si vogliono spiegare bene i fenomeni.
Chi sostiene questa tesi, ossia che la cultura classica apre la mente più della istruzione tecnico-professionale, non sostiene una tesi falsa. Quanto costoro affermano è infatti corretto, come dimostrano i risultati mediamente più brillanti, in università, degli studenti provenienti dal Liceo Classico.
Il fine della formazione classica è dare ai giovani
la “forma” della compiuta umanità
Tuttavia, come sempre, bisogna ragionare sul fine per comprendere l’essenziale. Qual è il vero fine della cultura classica? Ecco allora la tesi che sosterrò oggi: il fine della formazione classica è dare ai giovani la “forma” della compiuta umanità, ossia aiutarli a realizzare, a porre in atto, le proprie migliori potenzialità, la loro natura di uomini, di persone, che la cultura umanistica antica evidentemente favorisce molto più della cultura tecnica contemporanea.
Qual è invece il fine della formazione classica teorizzato da alcuni studiosi, e che passa, tramite il senso comune, ai politici, ai genitori ed agli stessi giovani? Il fine sembra essere quello di formare lavoratori efficienti, produttivi, più competitivi rispetto agli altri nel mercato del lavoro. Cosa dovrebbe portare ai giovani la realizzazione di questo fine? Forse, in un futuro lontano, remunerazioni un po’ più elevate, impieghi un po’ meno umili, ma al contempo anche un maggiore impegno lavorativo in una attività magari non congeniale, un maggiore coinvolgimento nel ciclo lavoro-consumo, un minor tempo per se stessi e per i propri figli, ecc.
Tutto ciò renderà i nostri giovani più felici? Questa è la sola domanda che occorre porsi, proprio perché è la felicità l’argomento principale della filosofia classica, che è “educata” a ragionare sulle cose essenziali. Ebbene: se la felicità, il bene per un uomo, è la realizzazione della sua natura, di ciò che egli è nella sua essenza, io penso che con il falso fine dell’efficienza e della produttività non si rendano i nostri giovani più felici. E penso ciò, insieme a Platone ed Aristotele – che sono una bella compagnia –, proprio in quanto la natura dell’uomo è quella di essere un ente razionale e morale, un ente cioè che sta bene, che si realizza compiutamente, quando conosce con verità (non quando resta ignorante), e quando vive in armonia con gli altri (non quando vive nel conflitto). La verità ed il bene sono i due grandi temi della filosofia classica.
È evidente, dunque, che chi propone il Liceo Classico come strumento finalizzato alla maggiore produttività sul mercato del lavoro capitalistico, non ha capito l’essenziale della cultura classica. E chi non capisce l’essenziale, scusate la durezza, non è che non capisce qualche dettaglio: non capisce proprio niente! Oggi, ad esempio, sono stato invitato qui a parlare di filosofia, ma se, vedendo un palco ed un microfono, cominciassi a eseguire – peraltro senza base – tutto il repertorio di Iva Zanicchi, è evidente che non avrei capito l’essenziale del mio invito, ossia non avrei capito niente!
La cultura classica, la filosofia classica, aiuta a comprendere l’essenziale,
ossia come vivere per essere felici
La cultura classica, la filosofia classica, aiuta a comprendere l’essenziale, ossia come vivere per essere felici. E siccome viviamo in relazione agli altri, la nostra felicità non è indipendente da come in generale si vive, da cosa si produce, da come lo si fa, ecc. Questo insegna la filosofia classica, l’educazione classica (che è cosa diversa dalla istruzione, la quale fornisce meramente strumenti: l’inglese, l’informatica, l’economia; ma gli strumenti non sono il fine, e ciò che occorre scegliere bene è innanzitutto il fine della propria vita). Quando deve analizzare i tipi di vita, i bioi, che possono o meno portare alla felicità, Aristotele afferma chiaramente che una vita destinata a massimizzare il denaro è una vita insulsa, in quanto il denaro può al più essere un mezzo per realizzare cose buone, ma non può, per sua natura, essere un fine. Ora, se vale così per la parte, ossia per le singole persone, a maggior ragione ciò deve valere per l’intero, per la totalità sociale: una totalità sociale che ha come fine quello di massimizzare il profitto, è evidentemente una totalità sociale insulsa e degradante, che condanna le persone all’infelicità.
Se non si può scegliere il fine di una vita, non c’è libertà;
e se non c’è libertà, non c’è felicità
Se non si può scegliere il fine di una vita, non c’è libertà; e se non c’è libertà, non c’è felicità. Ma, affinché ci sia libertà occorre conoscenza (perché si è liberi solo se si conosce bene cosa si sceglie), e soprattutto occorre che ci siano le condizioni generali – economiche e politiche in primis – affinché essa possa essere esercitata, ossia affinché si possa scegliere un tipo di vita desiderabile.
Il pensiero di Platone ed Aristotele, ma anche di molti poeti e filosofi precedenti, a saperlo leggere bene, in questo senso ci insegna molto. La loro critica alle strutture economiche ancora fondamentali nel nostro tempo – ossia proprietà privata, mercato, denaro –, è fortissima! Eppure, nei tanti ripropositori moderni della classicità, che sono solitamente docenti universitari, questi contenuti sono completamente trascurati. Si trascura però, così facendo, l’essenziale, e sapete oramai cosa capisce chi trascura l’essenziale… Oggi – ma ciò accade quanto meno dal Rinascimento – è proposta una classicità che esclude queste tematiche. Ma è proprio su queste tematiche, specie nel nostro tempo in cui la privatizzazione e la mercificazione invadono tutti gli spazi di vita, che si misura il carattere classico, e pertanto sempre valido, sempre attuale, del pensiero greco, che invita in primo luogo a pensare con la propria testa per realizzare una vita buona.
Nietzsche diceva, grosso modo, che se il modo di produzione ha bisogno di lavoratori e di consumatori per funzionare bene (oggi, peraltro, dei secondi più che dei primi), ossia per aumentare il profitto (perché il profitto è appunto il suo fine – ovvero, per esso, l’essenziale), l’ultima cosa che bisogna fare è educare i giovani con la filosofia, la letteratura e la storia, ossia farli pensare con la propria testa, fargli avere dei fini propri. Questi nostri studiosi che tessono le lodi della cultura classica – filosofica o scientifica che sia –, e dunque del Liceo classico competitivamente inteso, non hanno capito che lo ripropongono a vantaggio di un mondo che il classico, nella sua essenza umanistica, lo vuole abolire. Perché pensare con la propria testa, volere realizzare il bene della totalità sociale, confligge con il buon esito dei processi economici privatistici e mercificati. Consentitemi, allora, una breve sintesi di alcune tesi della filosofia classica su questi temi oggi così importanti, volte a mostrare quale critica della attuale “economia” avrebbero fatto i classici. Sarà forse un po’ straniante, e ciò in quanto siamo abituati ad ascoltare tesi diverse non solo nei salotti televisivi, ma anche in libri di pensatori considerati “di sinistra”, o “radicali”. Tuttavia, vedrete presto con quale maggiore serietà questi temi erano affrontati oltre duemila anni fa.
I classici ragionavano innanzitutto in termini di intero, di totalità sociale
In generale i classici ragionavano innanzitutto in termini di intero, di totalità sociale, perché spesso è il funzionamento dell’intero che determina il funzionamento della parte. Per questo si occuparono delle strutture fondamentali dell’economia – ossia del processo che consente agli uomini di sussistere –, ovvero delle forme della produzione e della distribuzione sociale dei beni, della proprietà privata e del mercato, che costituivano anche allora i cardini del sistema. E le criticavano. Perché le criticavano? Innanzitutto perché non sono forme naturali, e pertanto non sono immodificabili, dunque “incriticabili”. Non si deve infatti necessariamente vivere in un mondo in cui i mezzi della produzione sociale (cioè della produzione del necessario per vivere) siano privati, ed in cui tutto (anche l’uomo e la natura) sia merce. Inoltre, la proprietà privata era criticata in quanto essa, anche etimologicamente, rinvia al fatto che chi la detiene, ossia chi ha il possesso di certi mezzi della produzione sociale, può privare gli altri di quei mezzi e dei prodotti che ne derivano. Se alcune multinazionali possiedono il brevetto di alcuni farmaci, decidono loro a chi dare i farmaci (a chi paga); e questo può valere per tutto, anche per l’acqua. Questa cosa, secondo voi, favorisce la realizzazione di quella armonia sociale così necessaria alla buona vita di tutti? Se una minoranza di ricchi proprietari – ed il modo di produzione capitalistico, come mostrano le statistiche, va strutturalmente in questa direzione – può escludere una maggioranza di persone anche da beni e servizi essenziali, si viene secondo voi a creare un mondo più giusto in cui vivere?
Gli antichi criticavano anche il mercato,
che Aristotele definiva appunto «contro natura».
Gli antichi criticavano anche il mercato, che Aristotele definiva appunto «contro natura». Come ho già detto in altre occasioni, se il fine è il profitto, tutto diventa strumento (per quel fine), e quindi merce: anche l’uomo e la natura. C’è un mercato del lavoro, dell’acqua, addirittura dell’inquinamento. Peccato che il mercato, “luogo” in cui si dà solo per avere in cambio qualcosa di più, sia l’opposto della comunità (ben rappresentata dalla famiglia), luogo in cui si dà per il semplice piacere di dare. E la comunità, dove regna l’amicizia, è per la filosofia classica il solo contesto sociale in cui si vive bene, poiché vi regna l’armonia. Secondo voi, un modo di produzione incentrato sul mercato, che è l’opposto della comunità, può favorire un modo comunitario, amicale, fraterno di vita?
Ebbene, su queste ed altre “piccole” questioni riflettevano i classici. Se non ci credete, ve ne fornisco la prova. Ometto tutta una serie di citazioni che si potrebbero fare – da Omero ai Presocratici –, in cui già comunque è presente la critica alle strutture privatistiche e mercificate; mi limito solo ai “classici classici”, Platone ed Aristotele.
Per quanto concerne Platone, la inumanità di un modo di produzione sociale finalizzato all’accumulazione di denaro, si trova delineata in più dialoghi. Mi limito ad una sola citazione, tratta da uno dei suoi testi più maturi e più ampi, ma forse meno studiati, ossia le Leggi: «Lo Stato primo, la costituzione e le leggi più perfette, si trovano là dove l’antico detto I beni degli amici sono davvero comuni trova la sua più completa realizzazione» (Leggi, V, 739 B). Non è la consueta tirata contro la proprietà od il denaro, ma una tesi costruttiva, progettuale. Ebbene: cosa voleva dire Platone – ma prima di lui Pitagora, cui la massima risale – con l’affermare che i beni degli amici devono essere comuni? Voleva dire che si crea veramente amicizia in una società (e l’amicizia è ancor più importante della giustizia, in quanto la prima implica la seconda, quindi è più vasta, mentre la seconda non implica la prima) solo se le cose essenziali sono a disposizione di tutti. Questo, come Platone sapeva bene, non accade in un mondo in cui domina la privatezza della proprietà.
È il fine che determina l’essenza delle cose
Fatemi citare anche Aristotele. Fra i suoi testi principali, in merito, vi è il I libro della Politica, in cui egli distinse fra «economia» e «crematistica». La distinzione è data dal fine. La crematistica è una modalità di produrre beni o servizi finalizzata a ricavare il massimo profitto; l’economia è un modo di gestire la produzione di beni e servizi finalizzata a soddisfare equamente i bisogni di tutti. La differenza è nel fine, ed è una differenza radicale, essenziale appunto. È il fine che determina l’essenza delle cose.
Platone ed Aristotele mostravano dunque che occorre guardare non ai dettagli, ma alla struttura del modo di produzione sociale. Perché ci sono tanti bisogni sociali insoddisfatti per i poveri (cibo, medicine, assistenza, ecc.), ed al contempo tanti beni di lusso (gioielli, abiti, cellulari, ecc.) soddisfatti per i ricchi? Semplice: perché i ricchi possono pagare, ed i poveri no, per cui i primi creano una domanda (ed una conseguente offerta) di mercato, i secondi no. Perché ci sono tanti bisogni sociali insoddisfatti e tante persone disoccupate che vorrebbero lavorare? Altrettanto semplice, in quanto dipende sempre dalla struttura complessiva di funzionamento del modo di produzione sociale: perché i poveri non possono pagare, quindi non possono trasformare i loro bisogni in domanda di mercato (di lavoro in questo caso), la quale dunque non produce l’offerta, sicché restano da un lato molte persone in difficoltà, e dall’altro molte persone disoccupate (spesso le due categorie, peraltro, coincidono). Hai voglia a dare gli incentivi alle imprese per assumere, se questa è la struttura di funzionamento del sistema. È come immettere una cascata d’acqua in un acquedotto che ha le condutture bucate! Certo, qualche goccia in più alla fine può arrivare, ma il problema è appunto la struttura di funzionamento del sistema idrico. Una bella differenza – non trovate? – rispetto ai discorsi che sentite fare in TV dagli attuali politici…
La filosofia classica insegna a ragionare in termini di intero
La filosofia classica insegna dunque a ragionare in termini di intero, di totalità sociale, di strutture fondamentali, di ciò che è giusto, vero, buono, del fine da porre in essere per condurre una vita felice. Ciò si scontra con l’attuale modo di vivere capitalistico? Certo che si scontra. Possiamo sicuramente, nei confronti dell’attuale modo di produzione, essere ribelli, ossia dire che l’euro fa schifo, che l’alta finanza è fatta da sanguisughe, che i politici sono tutti dei disonesti, ecc. Ma tutto questo è “ribellismo” con scarsa base teoretica; e senza una base teoretica non si costruisce nulla, non si progetta. L’educazione classica, la filosofia classica, insegna proprio questa base, ossia insegna a comprendere e valutare la totalità sociale in cui si vive, alla luce dei veri fini che l’uomo – fondamento del senso e del valore – si deve porre per essere felice.
Tutto il discorso fatto finora tende a mostrare che si è realmente critici solo se si è anche progettuali: e questa dimensione progettuale è il fulcro, sul piano politico, della educazione classica. La critica fine a se stessa, anche se urlata, non conduce da nessuna parte; mentre una progettualità fondata ed argomentata, forse, sì. In ogni caso, essa è per i giovani l’unica guida educativa possibile.
Tre luoghi comuni
Utilizzerò ora gli ultimi minuti del mio intervento, per applicare questo discorso generale a tre luoghi comuni del nostro tempo, che corrispondono a tre famose dichiarazioni di ministri sui nostri giovani. Non mi interessano i nomi, né le aree politiche di appartenenza di questi ministri, perché, in quanto luoghi comuni, questi temi sono condivisi anche, appunto, dalla gente comune.
Il primo luogo comune
Il primo luogo comune consiste in tutte quelle dichiarazioni, svolte anche da docenti universitari, in cui sostanzialmente si plaude alla mobilità dei giovani, e li si invita a non fare i bamboccioni a casa propria, ma a girare il mondo alla ricerca della occupazione migliore, con cui evidentemente si identifica la realizzazione nella vita. Ora: su questo punto è necessario intendersi. Se la scelta di vivere all’estero fosse realmente libera, ossia rispondesse davvero ad un desiderio autonomo consapevole di lasciare la famiglia e gli amici, potrei chiedermene il perché – non è naturale abbandonare chi si ama –, ma essa sarebbe accettabile. Tuttavia, il fenomeno che quotidianamente si verifica è un altro. Quando non è fuga per mero bisogno, ad esempio nelle regioni del Sud Italia, questa fuga è spesso nei giovani laureati inseguimento di un miraggio che il modo di produzione capitalistico fa balenare davanti agli occhi, ma che – come tutti i miraggi – svanisce non appena ci si arriva vicino. Non discuto che in altri paesi le condizioni lavorative siano migliori che in Italia, ma occorre sempre essere consapevoli che lo sradicamento, l’allontanamento dalla famiglia di origine, è una perdita fondamentale di felicità per ogni essere umano. Come tale, quanto meno, essa non dovrebbe essere propagandata, specie da istituzioni politiche ed accademiche.
Mi giunge voce che un docente universitario piuttosto noto abbia detto, a lezione, che è meglio vivere sotto i ponti che accettare di vivere nella casa lasciata in eredità dai nonni: come se la comunità famigliare fosse una prigione, e non anche un luogo di realizzazione personale! Pensate che la radice greca da cui deriva la parola eleutheria, che traduciamo con “libertà”, ospita proprio l’idea del crescere in un ambiente protetto, famigliare, comunitario, in cui si può gradualmente divenire “autonomi”, ossia appunto – sempre etimologicamente – essere “legge a se stessi”. Lo schiavo invece (così come oggi il giovane precario sradicato) non aveva questo contesto favorevole di crescita, e ciò gli provocava perdita di identità ed umanità, dunque incapacità di essere pienamente libero, autonomo. In una commedia di Menandro si legge che per lo schiavo «solo il padrone è legge e giudice di ciò che è giusto e ciò che è ingiusto». Oggi “il padrone” sono queste false idee funzionali ai processi capitalistici di mercato.
Vi chiedo allora: davvero è da considerare così deprecabile voler continuare a vivere, magari accontentandosi di meno dal punto di vista economico, nel paese in cui si è sempre vissuti, ed in cui si condividono con gli altri, quanto meno, lingua e tradizioni, oltre che radici e rapporti? Io auguro a tutti i giovani qui presenti di trovare dei compagni o delle compagne che vorranno loro un bene enorme per tutta la vita, ma tenete conto che ben difficilmente, nella vita, si potrà trovare anche una sola persona che vi vorrà bene come la vostra mamma o come il vostro papà (salvo eccezioni, purtroppo ahimè sempre possibili in natura). Tenetelo sempre presente nelle vostre scelte di vivere o meno all’estero.
Il secondo luogo comune
Il secondo luogo comune è quello che ritiene i giovani schizzinosi. Ricordate infatti che un famoso ministro, anche lei docente universitario, disse una volta che i giovani non devono essere troppo schizzinosi nello scegliere il lavoro, ossia, specie all’inizio, devono prendere quello che gli capita, perché il curriculum inizia anche così. Questa disponibilità a fare di tutto è infatti molto apprezzata dalle aziende. E ci credo che è apprezzata! Se poi lo si fa gratis – con un bello stage – è ancora più apprezzata!
Ovviamente, la questione va analizzata sempre a prescindere dalla simpatia/antipatia che suscita chi ha detto la frase, e quanto meno da un duplice punto di vista, individuale e sociale. Sul piano individuale, è evidente che se si è in estrema difficoltà a mettere insieme il pranzo e la cena, si è costretti a non essere schizzinosi e ad accettare quello che arriva. È naturale. Semmai, la politica dovrebbe fare di tutto per evitare almeno queste situazioni. I giovani che però non sono in queste condizioni, come di solito non lo sono i giovani laureati, perché dovrebbero farlo? Perché dovrebbero fare la prima cosa che trovano? Se la loro umanità, la loro vita, indipendentemente da quello che hanno studiato, si arricchisce di più – ed è così – passando del tempo facendo, ad esempio, volontariato con gli anziani, o con persone in difficoltà, o accudendo i genitori, perché dovrebbero scegliere il peggio per sé stessi, anche se ciò assume la forma di un lavoro remunerato? A mio avviso la politica, e la filosofia su cui essa dovrebbe appoggiarsi, dovrebbe iniziare a smitizzare il lavoro, il quale – almeno nelle condizioni capitalistiche nelle quali ci troviamo, in cui non si può scegliere cosa fare in base alla utilità sociale di quel che si fa, o in base a ciò verso cui siamo portati: ci si può solo adattare a cosa offre il mercato in base alle aspettative di profitto delle imprese – come tale può solo essere uno strumento, ma non il fine della vita stessa. Il fine giusto per la vita può essere solo la felicità, ossia la piena realizzazione di sé in un mondo che si deve cercare di rendere il più possibile armonico (perché vivere in un mondo armonico consente a tutti di essere più felici). Un lavoro che abbrutisce, anche se svolto in giacca e cravatta, non è una opportunità, ma è qualcosa che ci plasma negativamente facendoci diventare peggiori! Le abitudini non sono mai prive di effetti. Aristotele diceva che, ferma restando la natura di ciascuno, le abitudini – apprese da piccoli dai genitori, e poi dai contesti sociali che si praticano – creano una sorta di “seconda natura”, che talvolta anche l’educazione migliore fa fatica a modificare.
Ecco perché chi ha modo di influire sulla politica e sulla educazione non deve fare entrare nella testa dei giovani il messaggio per cui ciascuno deve pensare principalmente a sé stesso. Il messaggio da dare ai giovani deve essere sempre un messaggio educativo, il quale mostri – come diceva appunto Platone – che non si pensa realmente a sé stessi senza al contempo pensare anche agli altri, al mondo nel suo complesso, poiché nessuno può essere pienamente felice in un mondo infelice e conflittuale. Per questo motivo ai ragazzi occorre consigliare non di non essere schizzinosi, ma di stare sempre attenti nelle scelte, ossia di cercare sempre di scegliere bene, avendo rispetto e cura di sé stessi e degli altri. Le scelte che si fanno a 18 anni, o a 20 anni, non sono irreversibili, ma comunque condizionano. Un’attività lavorativa avvilente condotta per un certo periodo di tempo, un fidanzato sbagliato, anche una singola esperienza sbagliata fatta magari con leggerezza, a volte segnano la vita per sempre. Alcune ferite non si rimarginano mai. Il più delle volte si può certo tornare indietro, ma le esperienze, dunque le scelte, non sono solo opportunità, ma hanno anche dei costi: qualcosa si paga sempre. Io sarò forse un po’ troppo protettivo, da papà quale sono di una bambina che va alle scuole elementari, ma occorre davvero oggi essere sempre prudenti, e dunque saggi, nel porre in essere le proprie scelte.
Per tornare comunque al tema degli schizzinosi, alle scuole superiori, con le ultime riforme, centinaia di ore saranno dedicate alla cosiddetta alternanza scuola/lavoro. Ciò lancia purtroppo chiaramente ai ragazzi il messaggio che a scuola, nel migliore dei casi, stanno ricevendo istruzione (strumenti per andare a lavorare), non educazione (formazione di una umanità compiuta, necessaria alla loro felicità). I ministri peraltro, di tutti gli schieramenti, su questo tema gongolano: “Ecco, grazie a noi i ragazzi iniziano finalmente ad entrare già da adolescenti nel mondo del lavoro…”. Ora: a parte il fatto che anche mia nonna, 90 anni fa, lavorava già alle scuole elementari – evidentemente era avanti sui tempi –, mi chiedo perché non si ragioni mai su cosa queste attività “lavorative” tolgono ai ragazzi. Queste centinaia di ore investite nella letteratura, nella storia, nella filosofia, non favorirebbero giovani, e poi cittadini, più intelligenti e consapevoli? Forse il punto è proprio qui, come aveva capito Nietzsche: all’attuale modo di produzione servono lavoratori docili e consumatori frenetici. Per questo motivo la cultura classica, l’educazione, con la loro riflessione e lentezza, risultano di impaccio.
Il terzo luogo comune
Vengo al terzo ed ultimo luogo comune, frutto della superficialità di un ministro dell’attuale governo, che ogni tanto fa qualche gaffe, e che qualche mese or sono pare abbia detto che per trovare lavoro è quasi meglio andare a giocare a calcetto con le persone giuste, che non avere degli ottimi curriculum. E su questa frase, come ricorderete, polemiche a non finire. Il ministro si è in realtà subito affrettato a chiarire il proprio pensiero, dicendo che non voleva affatto sminuire il valore del curriculum, ma che constatava comunque che il lavoro oggi, in Italia, si trova più per conoscenze che per capacità.
Evidente che, per quanto colga un aspetto di verità, la giustificazione rischia di essere peggiore della gaffe. Il ministro in questione infatti non si è accorto nemmeno – questa la cosa più grave, a mio avviso – di avere invertito il fine con i mezzi. Il fine di una buona vita è infatti, come dicevamo, l’essere felici e, come scrisse Aristotele, dei veri amici costituiscono una componente imprescindibile della felicità, in quanto anche la più grande fortuna, o il più grande successo, non sono nulla senza amici veri con cui condividerli. Ora: lasciare intendere che è preferibile scegliersi le amicizie in funzione del vantaggio occupazionale che un domani potrebbe derivarne, mi fa proprio pensare ai tre tipi di amicizia di cui parlava Aristotele. Lo Stagirita teorizzava infatti tre tipi di “amicizia”, l’ultimo soltanto dei quali, però, propriamente tale. Il primo tipo è la cosiddetta amicizia “per il piacere”: si sta insieme a qualcuno soltanto finché costui – è cosa tipica dei giovani – è bello, simpatico, affascinante, ecc.; ma se gli capita qualche accidente, lo si abbandona subito. Evidente che questa amicizia non è stabile, dunque non è tale. Il secondo tipo è la cosiddetta amicizia “per utilità”: si sta insieme a qualcuno soltanto finché costui – è cosa tipica degli adulti – è potente, ricco, in grado comunque di aiutarci; quando costui smarrisce il proprio potere, lo si abbandona. Evidente che anche questa forma di amicizia non è tale, ossia non è conforme al suo concetto. Il terzo tipo è la cosiddetta amicizia “per il bene”: si sta insieme a qualcuno perché questo qualcuno ha delle doti che riteniamo buone, perché condividiamo quello che fa, perché in certo modo ci assomiglia, sicché tutto ciò che gli accade di buono è come se accadesse a noi (questa la philia greca, che è un po’ come l’amore: il sostantivo greco indica infatti sia l’amicizia che l’amore). Evidente che questa amicizia è realmente tale, e pertanto è destinata a durare, a crescere, a perfezionarsi. Ecco: nella sua giustificazione ex post del calcetto, è come se il ministro consigliasse di strumentalizzare, ossia un po’ di mercificare, anche le relazioni sociali, dunque l’amicizia. Sicuramente lo ha fatto senza cattiva volontà, ossia in modo inconscio. Questa, tuttavia, è a mio avviso una aggravante, in quanto significa che il senso comune, cui i politici spesso si attengono, reputa ormai normale la strumentalizzazione di ogni aspetto della vita.
L’educazione classica serve a capire cosa è realmente importante per essere felici
Ecco a cosa serve l’educazione classica: a capire cosa è realmente importante per essere felici, e come cercare di agire concretamente per realizzarlo. Se ciò richiede anche di modificare l’attuale modo di produzione sociale, perché le strutture privatistiche e mercificate impediscono la buona vita, ebbene, allora sarà in questo senso che occorrerà iniziare a riflettere e ad agire.
Mia figlia – che mi vede spesso con i libri anche alla sera, perché per me la filosofia è una vera passione – mi chiede spesso: «Papà, perché studi filosofia?». Lei probabilmente ancora associa la filosofia ad una rottura di scatole che mi fa giocare meno con lei. La domanda non è comunque da poco. Io le rispondo così: per cercare di capire bene le cose importanti che ci fanno vivere meglio, in quanto, se non si comprende cosa è importante e cosa non lo è, si vive male. A questo serve la educazione classica: a riflettere sui fini migliori da dare alla vita, sia sul piano individuale che sul piano sociale, perché la filosofia classica nasce politica, e questo fatto non può essere rimosso.
Fonte: https://www.sinistrainrete.info/filosofia/11206-luca-grecchi-educazione-classica-educazione-conservatrice.html
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