Le parole come manganello e come tabù (Addendum alla Parte III de “I tortuosi sentieri della canoscenza”)
di PIER PAOLO DAL MONTE
Nella parte III, abbiamo parlato dei “grandi concetti” quali “giustizia”, “democrazia”, “popolo” come paradigmi di significanti orfani di significato che Ernesto Laclau definisce “significanti vuoti”[1]. Questi vengono usati come clave e come tabù, per delimitare I confini dei recinti nei quali vengono confinate le possibilità del discorso: una sorta di retorica escludente che annulla qualsiasi dialettica (e, pertanto ogni dibattito). E qui non stiamo parlando solo della dittatura del “politicamente corretto”, totalitarismo depurato della violenza materiale, che esclude intere regioni concettuali dal dicibile e le trasforma in una sorta di terra di nessuno nella quale è proibito addentrarsi (se non a proprio rischio e pericolo), ma di una vera e propria strage semantica, che si è fatta particolarmente virulenta in questi ultimi anni.
Cominceremo con la sfera politica perché è uno dei territori nei quali questo fenomeno è più evidente, non solo a causa dell’ovvio utilizzo strumentale delle parole che si verifica in quest’ambito, ma anche perché questa è una sfera piuttosto incombente nell’universo dei media. Pertanto, costituisce una sorta di avanguardia nella trasformazione della lingua da strumento di comunicazione a strumento di strutturazione delle emozioni e dell’immaginazione delle masse (in senso pavloviano). In quest’ambito la “dittatura dei significanti” è particolarmente accentuata, a causa della semplificazione del messaggio retorico alla quale sono obbligati coloro che ne fanno parte.
Possiamo subito iniziare con la dicotomia politica principale della modernità, quella che, apparentemente, ha tracciato i confini dei territori belligeranti alla stregua di uno spartiacque ontologico. Spendiamo il termine “ontologico, che potrebbe sembrare un po’ esagerato in questo contesto perché, in realtà, il confine suddetto non delimita solo fazioni in lotta tra loro ma, soprattutto, un vero e proprio “campo di impossibilità” (identificato nello schieramento opposto, non solo come appartenenza politica, ma come esclusione dall’ambito del possibile che è una sorta di “orizzonte degli eventi” che separa il Bene dal Male, il Cosmo dal Caos.
In realtà, nonostante la rilevanza “ontologica”, questa dicotomia è un esempio calzante di “significanti vuoti”, per diversi motivi. Intanto il loro significato è dibattuto sin dai primordi della loro proteiforme storia, visto che i due campi si sono più volte manifestati nel loro opposto, fino ad essere, in epoca recente, ridotti a semplici recinti di appartenenza senza più alcuna definizione che sia realmente descrittiva, almeno dal punto di vista politico.
Inoltre, viviamo in un’epoca nella quale la politica, nel senso proprio del termine, è stata espunta e sostituita dall’assai più confortevole “There is no alternative” (Margareth Thatcher), ovvero “tanto non si può fare nulla”. Questo confina l’agire politico in una pedestre “governante”, un’”amministrazione condominiale” della cosa pubblica, dal momento che la cogenza del determinismo economico delimita il campo di possibilità, manifestandosi come lex naturalis e , quindi, come destino ineluttabile: un inesorabile “vincolo esterno” che agisce come manifestazione della Provvidenza e determina le sorti dell’umane genti.
Proprio per questo (e non “nonostante questo” come potrebbe apparire ovvio ad alcuni) si è accentuato il proliferare di minuzie nominalistiche per definire gli schieramenti politici tanto che, la dicotomia iniziale (destra e sinistra), si è ulteriormente scissa in tetracotomia che, ben lungi dall’apportare una superiore precisione nosologica, moltiplica i significanti vuoti, con l’unica funzione di frammentare viepiù gli altrettanto vuoti “campi di appartenenza”. Parliamo ovviamente della coppia “destra moderata” (detta anche “centro-destra”) e “sinistra moderata” (detta anche “centro-sinistra”), e di quella “destra estrema” e “sinistra estrema”. Le prime due, le parti “moderate, quelle che convergono verso un mai determinato centro (come nell’universo di Giordano Bruno), sono la realizzazione fattuale della coincidentia oppositorum, ovvero sono quelle aree di appartenenza che, nella finizione di opporsi l’una all’altra si attagliano perfettamente alla fisiocrazia politica vigente (il there is no alternative come stato di natura), tanto da essere intercambiabili.
E, infatti, queste categorie non vengono, in genere, né usate come manganello, né come tabù. Manganelli e tabù appaiono invece quando le parole “destra“ e “sinistra” vengono accoppiate all’aggettivo “estrema”.
Qui, però, occorre fare una distinzione, perché esiste una differenza piuttosto rilevante tra questi due campi d’appartenenza. Il sintagma “estrema sinistra” identifica qualcosa di disdicevole ma, in fondo veniale, ragazzi un po’ irruenti ma, non cattivi, sognatori un po’ ingenui che non hanno ancora capito come funziona la “vita vera”, in quanto intrisi di una sorta di maldestro idealismo adolescenziale, un complesso di Edipo irrisolto nei confronti di quel padre autoritario che è il “potere”. Negli anni ’70 costoro erano i “compagni che sbagliano” ma, anche se la loro “diritta via era smarrita”, erano pur sempre compagni, quindi, dal punto di vista ideologico, il loro era un peccato veniale (pur se se dal punto di vista fattuale, ebbe anche conseguenze letali). Ma, in fondo, erano innocenti errori di gioventù dovuti all’instabilità caratteriale tipica dell’età che, senz’altro, era destinata a guarire con la maturità che, si sa, reca sempre con sé la “moderazione”. Infatti, i compagni “maturi”, quelli che “non sbagliano”, fanno parte della “sinistra moderata”, anche quando questa è definita “sinistra radicale”, che, di fatto, è una sinistra moderata, ma è più puerile e frivola nella scelta dei temi politici e delle modalità comunicative (fanno girotondi, si vestono con strani colori come il viola o l’arancione, ostentano le mammelle in pubblico, praticano riti di autocastrazione simbolica, indugiano volentieri in pargoleggiamenti privi di senso, ecc.).
Altro, invece, è il discorso se si parla di ”estrema destra”. Quest’ultima è ritenuta inequivocabilmente da condannare, “senza se e senza ma” (Benjamin avrebbe scritto, più elegantemente, “sans rêve et sans merci“), è quasi un’eggregora del male metafisico. I suoi aderenti sono sub-umani rozzi e abietti che, in una “società davvero progressista”, sarebbero estromessi dal consesso umano. Costoro sono associati ad ogni nefandezza, e ogni nefandezza è ad essi attribuita: ignoranza, violenza, tribalismo, egoismo, arretratezza ( e quale peccato è più grave di quello recalcitrare a seguire il luminoso moto del progresso?). Sono i dannati della terra, i deplorevoli (deplorables) del nostro tempo, al di fuori dall’orizzonte del possibile che delimita il consorzio umano: sono letteralmente disumani. Tant’è che, in loro presenza, si attivano subito gli anticorpi cosmetici sotto forma di quell’”antifascismo in assenza totale di fascismo” più volte descritto da Costanzo Preve, che assume sempre più comiche con l’andar del tempo, come quella degli “Antifa” d’oltre oceano che non esitano a identificare come “fascista” anche una figura storica come quella di Cristoforo Colombo.
Mentre la caratteristica della sinistra è quella di amare un astratto “universale” e “globale” (disprezzando, peraltro, ciò che è particolare e prossimo), il che è molto a la page nell’epoca di progressismo frou-frouche si accompagna al totalitarismo del capitale; l”’estrema destra” avversa l’universale e il globale magari per amore della Patria (orrore!), delle usanze e delle tradizioni (doppio orrore!).
Un attributo quasi immancabile per questa “destra” (ma che, sempre più frequentemente, è associato anche a certa “sinistra”, anche se con un’accezione meno dispregiativa) è quello di “populista”. E, infatti, il termine “populismo”[2] è uno dei migliori esempi di significante vuoto perché, seguendo anche qui Giordano Bruno, «il termine è ovunque e il suo significato in nessun luogo». Tant’è che, per riuscire ad attribuirne uno, bisognerebbe risalire alla seconda metà dell’ottocento e al movimento dei narodnik (da narod, termine russo per “popolo”) che si propose di mobilitare la popolazione contadina sfruttata contro le oligarchie sfruttatrici.
Tuttavia, in tempi assai recenti, il termine “populismo” ha la sola funzione di manganello, ovvero: « un concetto che pretende di assimilare screditando, di condannare denigrando»[3].
Nell’opera di costruzione di questo significante-manganello, Alain De Benoist individua tre fasi: prima si sono definiti “populisti” i partiti della cosiddetta “estrema destra”; poi, è stata usata per designare qualsiasi opposizione tra popolo e oligarchie; alla fine, la riprovazione del populismo è diventato, tout court, biasimo nei confronti del popolo[4].
Perché il popolo, oltre che ignorante e bifolco, spesso è anche riottoso: ha l’ardire di mettersi di traverso alle decisioni delle oligarchie, specie quando si tratta di votare. A volte non bastano neppure legioni di “volonterosi carnefici” del “potere” arruolati in grande copia nei mezzi di informazione, nell’industria dell’intrattenimento e nell’accademia, per convincerli a seguire la retta via, che è quella tracciata dalle èlite. No, questi villici sono testardi, non imparano mai la lezione: sono un pericolo per la democrazia (sottinteso: la Démocratie c’est nous).
Il popolo è “fuori dalla storia”, è retrogrado al punto di non apprezzare le “magnifiche sorti e progressive” indicate dalle èlite, fatte di diritti individuali incontrastati e incontestabili (dei diritti sociali, nel frattempo, si è fatto strame), di moltitudini di creature gaudenti i cui desideri non devono conoscere limiti o ostacoli. Perché il destino del mondo è la “società aperta” nella quale ogni limite ed ogni confine saranno abbattuti (l’indistinto post-umano cosmopolita, senza genere o etnia) e il lupo si abbevererà con l’agnello (e forse l’uomo si accoppierà col cammello). Non si sa se diverremo tutti “cittadini del mondo” ma, sembra che buona parte del mondo sarà nostro concittadino, almeno se si osservano le tendenze “migratorie” di buona parte dell’orbe terracqueo.
E qui si apre un grande capitolo: “populisti e le “destre”[5] vengono infatti associati alla “xenofobia”, e questa è diventata una caratteristica a tal punto imprescindibile, nella neolingua politicamente corretta, che il sintagma “destra xenofoba” viene pronunciato come se fosse un’unica parola: “destraxenofoba” (con la variante “destrapopulistaxenofoba”).
Naturalmente, il termine “xenofobia”, come il suo vicino semantico “razzismo”, è un altro significante vuoto (o significante-manganello), almeno nel modo col quale viene adoperato[6].
“Xenofobia”, paura dello straniero, che è un sentimento peraltro giustificato, nei confronti di qualcosa che non si conosce (e che non conoscono neppure le autorità preposte a conoscerlo, viste le modalità con le quali si verifica l’immigrazione, di questi tempi), è usato come se fosse “misoxenia”, odio per lo straniero. Il termine “razzismo”, dal canto suo, avrebbe bisogno di una complessa disamina storica per essere inquadrato con una certa precisione[7]. Nella accezione secondo la quale viene usato, è soltanto un manganello, funzionale a confinare in un reticolato di tabù qualsiasi discorso che riguardi il fenomeno dell’immigrazione nella sua versione attuale.
Siccome abbiamo deciso di procedere à la Molly Bloom, seguendo una sorta di libera concatenazione di idee, apriamo qui il vasto e dolente capitolo della “neolingua migratoria”, campo prediletto, insieme a quello “sessuale”[8], delle farneticazioni “politicamente corrette” che stanno decomponendo il linguaggio in una sorta di brodaglia indistinta, nella quale è impossibile discernere i singoli ingredienti, ovvero parole dotate di significato. Qui è sorto un vero e proprio florilegio di neosignificanti vuoti, come il termine “migrante” che, come vedremo, non ha significato alcuno, o come “rifugiati” e “profughi” che ne avevano uno sino al recente passato ma che, negli ultimi tempi, ne sono diventati privi, in quanto “imbrattati dalla bava essiccata” di una moderna genia di “mentitori di professione”.
Vi sono veri e propri dizionari di neolingua dedicati all’uopo[9], che hanno il commendevole scopo di educare il pubblico alla correttezza politica in quest’ambito.
Iniziamo subito col termine “migrante”, apparso nel linguaggio corrente solo da qualche anno (il che è un segno quasi infallibile di “significante vuoto”). Questo termine è un participio presente, quindi, è atto a descrivere un processo o un fenomeno nell’atto di compiersi. Una volta che dato processo si è svolto non ha più senso qualificare i protagonisti di questo in tale modo, ma sarebbe bene usare il participio passato con una qualificazione spaziale, ovvero “immigrati” se relativi al luogo di arrivo, o “emigrati”. Le rondini, “migrano”; gli uomini possono essere stanziali o nomadi ma, quando si spostano, “viaggiano”[10]: lo fanno per diversi motivi ma, nella fase processuale, sempre di viaggiare si tratta.
In realtà, persino i dizionari di neolingua, anche se intrisi di “correttezza politica”, ritengono il termine “migrante” piuttosto vago. Ad esempio, nel Glossary on Migration editato dall’International Organization for Migration, troviamo la seguente “non-definizione”:
«A livello internazionale non esiste definizione di “migrante” universalmente accettata. Il termine “migrante” è ritenuto coprire tutti i casi nei quali la decisione di “migrare” è presa liberamente da individui per motivi di “carattere personale” e senza che intervengano fattori esterni di coercizione»[11]
Il dizionario neolinguistico della Commissione Europea è ancor più vago, in proposito:
«Migrante: Termine più ampio di immigrante ed emigrante, che si riferisce a una persona che lascia il proprio paese o regione per stabilirsi in un altro»[12]
Infatti, bisogna riconoscere che esso prende atto, in qualche modo, della vaghezza di questa definizione e precisa che “migrante” è un termine generico che trova definizioni più specifiche nei termini “”immigrante” e “emigrante”, precisamente come erano definiti fino a tempi recenti.
[Tuttavia, aggiungiamo, andrebbero pur sempre usati i rispettivi participi passati, in quando i due sono fenomeni processuali solo per un breve momento, il primo al passaggio della frontiera di partenza, il secondo al passaggio di quella di arrivo]
Il lessico delle Nazioni Unite[13] contribuisce non poco ad accrescere la confusione neolinguistica. Secondo questo, il “migrante” è
«un individuo che ha risieduto in un paese straniero per più di un anno, indipendentemente dalle cause, volontarie o involontarie, e dai mezzi, regolari o irregolari adoperati per migrare»
Data la nebulosità della definizione, i naziunionisti ritengono di fare una precisazione nella quale, però, come recita il detto popolare, “la toppa è peggio del buco”. Secondo quest’ultima, «coloro che viaggiano per periodi più brevi, come i turisti e gli uomini d’affari, non devono essere considerati “migranti” »
Be’, ci consola che la fattispecie di “viaggio” sia, seppur con una certa capziosità, conservata nel lessico naziunitario, peccato però che questo si contraddica subito dopo: “In ogni caso, l’uso comune (sic)include certi tipi di migranti per brevi periodi, come i lavori agricoli stagionali»
Insomma, pur profondendo ogni sforzo possibile, non si riesce proprio ad infondere di significato il termine “migrante”, sicchè esso assume, come unica funzione, quella di manganello moralistico atto a gettare sulle spalle dei “privilegiati” autoctoni il fardello della colpa di tutte le infamie della storia (in fondo, anche la Roma imperiale schiavizzava i nubiani per farli combattere nelle arene).
Tuttavia non è una colpa “sans rêve et sans merci” come quella predestinata dal Dio di Calvino. In questo caso viene offerta la possibilità di espiazione: basta coltivare un’’adeguata attitudine all’ “accoglienza”, termine imbevuto di svenevolezza, che ha il solo scopo di stigmatizzare coloro che ne sono ritenuti incapaci. La pochezza di questo significante (e la meschinità dell’intento “moralizzatore”) è ben visibile nel fatto ch’esso viene usato in un dominio descrittivo per il quale non è appropriato. L’ “accoglienza” attiene alla disposizione morale e affettiva, del singolo o di piccoli gruppi. Può indicare la disponibilità, l’inclinazione caritatevole, la benevolenza, ma attiene sempre alla sfera privata.
Viceversa, l’immigrazione concerne la sfera politica e normativa, ovvero all’insieme di regole che una comunità che si manifesta politicamente (e, nei tempi moderni, questa si identifica nello stato-nazione), si è data. Mescolare i due piani, non solo comporta un’inammissibile confusione ma, soprattutto, conduce, dal punto di vista logico, ad uno stato di eccezione che, forse, può essere tollerabile per gestire uno stato di emergenza, circoscritto nel tempo e di entità limitata, ma che diventa esiziale se diventa permanente e illimitato.
Nella sfera politico-normativa, “migrante” non ha significato alcuno; colui il quale entra in un paese in condizione di “sans papier” e non è una rondine, un germano reale o un’oca indiana (anser indicus), si dovrebbe definire “immigrato irregolare”[14], visto che quast’atto si verifica in infrazione delle norme vigenti. Questa è una descrizione affatto neutra, dal punto di vista assiologico (che, infatti, non è pertinente), ma non lo è affatto nella sfera politico-amministrativa, la cui sospensione,, nella fattispecie comporta, appunto, uno “stato di eccezione”[15]
Uno dei motivi per i quali i significanti che riguardano il fenomeno dell’immigrazione sono così indeterminati è proprio quello di mascherare, almeno sul piano lessicale, questo stato di eccezione. Se il termine “migranti” fosse sostituito con quello, appropriato, di “immigrati irregolari” (riconoscendo, pertanto, anche dal punto di vista semantico, un’infrazione alle norme vigenti) [16], tale stato di eccezione verrebbe immediatamente smascherato
[Scolio: le morti in mare, o quelle che avvengono durante la parte terrestre del viaggio e rimangono ignote, non sono dovute al rifiuto di “accoglienza”, bensì proprio al contrario. Sono tutte le ambiguità, anche lessicali, di cui abbiamo parlato (per non parlare delle coperture o complicità palesi) ad alimentare il traffico di esseri umani, attuato da una congerie di delinquenti organizzati per i quali i “migranti” sono semplici merci la cui spedizione è pagata profumatamente (e, soprattutto, anticipatamente)[17].
Quale sarebbe l’alternativa “accogliente” per gestire questo tipo di fenomeni, quando diventa così massivo? Smettere di controllare i documenti alle frontiere degli aeroporti, in modo che chiunque possa entrare al modico prezzo di un biglietto aereo? Il problema, però, è che questa soluzione dovrebbe riguardare tutti coloro che entrano attraverso qualsivoglia frontiera, vista l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (e se, secondo le anime belle, siamo tutti “cittadini del mondo, questo vale per tutti gli esseri umani). E in questo caso, come ci si dovrebbe porre nei confronti di persone potenzialmente pericolose, dal momento che non v’è modo per riconoscere un potenziale “migrante” da un comune viaggiatore e questo da un terrorista internazionale che compare negli archivi dell’Interpol? Quanto all’idiozia, propalata da alcuni, secondo la quale gli immigrati “servirebbero” (sic: voce del verbo “servire”) per “pagarci” le pensioni (sic), ci limitiamo a ricordare che tale attitudine, esclusivamente utilitaristica, nei confronti di esseri umani, ci pare non tanto diversa da quella dei proprietari delle piantagioni di canna da zucchero caraibiche dei bei tempi andati.]
Il mescolamento lessicale di cui sopra, non è solo fonte di confusione ma, secondo l’UNHCR (che neanche gli estremisti del politicamente corretto riuscirebbero ad accusare di scorrettezza politica) è finanche pericolosa per gli stessi immigrati o, almeno, per quelli che, tra essi, sono davvero bisognosi di protezione. Leggiamo cosa è scritto in proposito in una sezione di FAQ appositamente dedicata:
«1. I termini “rifugiato” e “migrante” sono intercambiabili?
No. Nonostante stia diventando sempre più comune vedere i termini “rifugiato” e “migrante” usati in modo intercambiabile nei media e nei dibattiti pubblici, vi è tra i due una differenza fondamentale dal punto di vista legale. Confonderli può avere conseguenze importanti per rifugiati e richiedenti asilo, così come generare fraintendimenti nel dibattito sull’asilo e la migrazione»[18].
E ancora:
« Non esiste a livello internazionale una definizione giuridica uniforme per il termine “migrante.” Alcuni attori politici, organizzazioni internazionali e media interpretano ed utilizzano la parola ‘’migrante’’ come un termine generico che comprende migranti e rifugiati. […]
Tuttavia, nel dibattito pubblico, quest’uso può facilmente generare confusione e può avere gravi conseguenze per la vita e la sicurezza dei rifugiati. […] Non distinguere i termini “rifugiati” e “migranti,” distoglie l’attenzione dalle specifiche misure di tutela legale che richiedono i rifugiati. Tra queste, la protezione dal refoulement (respingimento) e dalla penalizzazione per aver attraversato frontiere senza autorizzazione in cerca di sicurezza.[…] Non distinguere i termini “rifugiati” e “migranti,” distoglie l’attenzione dalle specifiche misure di tutela legale che richiedono i rifugiati. Tra queste, la protezione dal refoulement (respingimento) e dalla penalizzazione per aver attraversato frontiere senza autorizzazione in cerca di sicurezza. Non esiste alcun tipo di illegalità nel richiedere asilo – al contrario, è un diritto umano universale. Usare indistintamente i termini “rifugiati” e “migranti” può compromettere il sostegno pubblico a favore dei rifugiati e l’istituzione dell’asilo, in tempi in cui, più che mai, i rifugiati hanno bisogno di tutela»[19].
Ossia, non si fa affatto un buon servizio a coloro che rifugiati lo sono per davvero e, quindi, sono persone che abbandonano i loro luoghi di residenza a causa di gravi pericoli per la loro incolumità, come recita la convenzione di Ginevra del 1951.[20]
Non possiamo tralasciare, in questa disamina, il termine “profugo” che, nella neolingua migratoria è divenuto sinonimo delle due categorie finora considerate, ossia “migrante” e “rifugiato”. Dobbiamo confessare che siamo rimasti alquanto basiti quando abbiamo constatato che questa parola, che è sulla bocca di tutti, non viene per nulla considerata nei dizionari neolinguistici migratori. Infatti in essi esiste solo la voce: “sfollato” (dispiaced person, in inglese) della quale, scopriamo, che il termine “profugo” è sinonimo. Ohibò!
Leggiamo dunque la definizione che si trova nel dizionario neolinguistico a cura della Commissione Europea, che metteremo successivamente a confronto con quella dell’IOM:
«Sfollato: Nel contesto dell’UE, cittadino di un paese terzo o apolide che ha dovuto abbandonare il suo paese o regione d’origine o che è stato evacuato, in particolare in risposta all’appello di organizzazioni internazionali, ed il cui ritorno in condizioni sicure e stabili risulta impossibile a causa della situazione nel paese
stesso».
L’IOM invece, fornisce la seguente definizione:
«Uno sfollato (displaced person) è una persona che fugge dal proprio Stato o comunità a causa della paura o di pericoli per motivi diversi da quelli che lo rendono un rifugiato. Uno sfollato è spesso costretto a scappare a causa di conflitti interni, o disastri naturali o antropici»[21]
La prima cosa che salta agli occhi è che le due definizioni sono alquanto diverse. In primo luogo si coglie un’importante differenza legata alla continuità cronologica della condizione. Nella definizione dell’IOM si evince l’eccezionalità della condizione e, quindi, il suo carattere temporaneo. In quella della Commissione Europea, viceversa, sembra essere decritta una situazione cronologicamente indefinita, con carattere di permanenza, quasi che l’intenzione sia quella di promuovere l’assimilazione semantica della situazione di “sfollato” a quella di “rifugiato”.
Inoltre, vi sono altre discrepanze che vanno evidenziate. La prima è il riferimento all’«appello di organizzazioni internazionali», che non ci sembra pertinente nella definizione se non per lo scopo assimilativo summenzionato. Qui possiamo osservare un’operazione neolinguistica di segno opposto, rispetto a quella messa in atto col termine “migrante”. Quest’ultimo è eccessivamente vago e, pertanto, si presta a tutte le interpretazioni: è quasi custom made, come tutti i “significanti vuoti che si rispettino (il termine è, peraltro, connotato da un pregiudizio positivo, al contrario di “immigrato irregolare”) e può essere incluso in una nube di indeterminazione nella quale sono presenti anche le accezioni di “”rifugiato” e “sfollato/profugo”. Il termine “profugo”, viceversa, grazie alla apparente precisione con la quale viene definito (che è un atto di contraffazione linguistica), subisce uno “spostamento semantico” atto renderlo assimilabile a “rifugiato”. Questo aspetto è rilevabile anche nel riferimento alle “organizzazioni internazionali” che è inutile, dal punto di vista descrittivo, ma che infonde nella definizione un’aura di “ufficialità” che rafforza lo “spostamento semantico” di cui sopra. Ma quale potrebbe essere il motivo di questa ambiguità che si trova nel lessico della Commissione Europea, che non è riscontrabile in quello dell’IOM (o in quelli delle varie agenzie dell’ONU)? Crediamo che esso sia ravvisabile nel riferimento all’articolo 1 della direttiva 2001/55/CE del Consiglio, del 20 luglio 2001[22]che, all’articolo 2 (a) descrive le condizioni per la “protezione temporanea”:
«”Protezione temporanea”: la procedura di carattere eccezionale che garantisce, nei casi di afflusso massiccio o di imminente afflusso massiccio di sfollati provenienti da paesi terzi che non possono rientrare nel loro paese d’origine, una tutela immediata e temporanea alle persone sfollate, in particolare qualora vi sia anche il rischio che il sistema d’asilo non possa far fronte a tale afflusso senza effetti pregiudizievoli per il suo corretto funzionamento, per gli interessi delle persone di cui trattasi e degli altri richiedenti protezione»
E con questo si chiude il cerchio. Il giochino neolinguistico serviva a compiere una sorta di omologazione di tutti gli immigrati irregolari (“migranti”) alla condizione di rifugiati (e tanti saluti alle normative nazionali e internazionali), anche se la schiacciante maggioranza di costoro non fugga da alcuna delle situazioni che darebbero diritto a questo status. E questo è stato fatto nonostante il rischio di causare, un danno ed un pericolo a coloro che sono realmente “rifugiati” (e lo dice l’UNHCR, non noi)
La parte “sporca” dell’operazione è, invece, quella volta a stimolare la riprovazione sociale verso coloro che osano criticare come è stata gestita, negli ultimi anni, l’immigrazione, da parte dei governi nazionali e delle istituzioni europee, e ad instillare un senso di colpa in coloro che non credono, giustamente, che si possa confondere l’interesse nazionale (del quale fa parte anche il controllo sulle frontiere e l’individuazione di quote di immigrati che siano gestibili) con un concetto affatto indeterminato (e che, eventualmente attiene alla sfera privata), come l’”accoglienza”. Tutto questo, forse, è servito a mascherare l’incapacità e l’incompetenza con le quali è stata condotta la cosiddetta ”emergenza immigrazione” e –chissà?- i motivi inconfessabili che stanno alla base di questo comportamento.
[1]. Ernesto Laclau, On Populist Reason, Verso, London-New York 2005
[2] Per una disamina del fenomeno del “populismo”, rimandiamo ai testi più recenti in italiano:
Carlo Formenti, La variante populista, Derive Approdi, Roma 2016
Alain De Benoist, Populismo, Arianna Editrice, Bologna 2017
Luca Ricolfi, Sinistra e Popolo, Longanesi, Milano 2017
[3] Federico Tarragoni, La science du populisme au crible de la critique sociologique : archéologie d’un mépris savant du peuple, Actuel Marx, 2013/2 (n.54)
[4] Alain de Benoist, populismo, Arianna Editrice, Bologna 2017
[5] Il termine “destra”, se declinato al plurale, nella neolingua equivale a “destra populista” . Ad esempio, la Lega, pur se nosologicamente collocata nel “centro destra”, essendo stigmatizzata come “populista”, diventa fenomenologicamente “estrema”
[6] La “xenofobia” in senso proprio, è sempre esistita, e a ragione, vista la grande copia di invasioni, guerre e razzie che contraddistinguono la storia dell’umanità
[7] Vedi: http://ilpedante.org/post/indios-veros-homines-esse-la-razza-unica
e http://ilpedante.org/post/indios-veros-homines-esse-parte-ii-l-amore
[8] Tralasciamo di trattare quest’argomento perchè, confessiamo, non riusciamo più a raccapezzarci nel labirinto neolinguistico che attiene ad esso.
[9] Nella fattispecie abbiamo consultato:
COMMISSIONE EUROPEA/Rete Europea sulle Migrazioni – EMN , Glossario sull’asilo e la migrazione, Gennaio 2012, Seconda Edizione;
Richard Perruchoud and Jillyanne Redpath-Cross, eds., Glossary on Migration. 2nd Edition, International Organization for Migration (IOM) 2011;
Il sito dell’UNHCR alla voce: “Rifugiati e Migranti, FAQs”: https://www.unhcr.it/news/rifugiati-e-migranti-faqs.html
[10] “Viaggio” deriva da “viaticum” che era la provvista del viandante.
[11] Glossary on Migration, cit. p.61
[12] Glossario sull’asilo e la migrazioen, cit., p. 107. Questo glossario contiene anche definizioni surreali come “migrante di seconda generazione”, che è un esilarante ossimoro.
[13] Citato in Glossary on Migration, p.62
[14] Almeno fino ad un’eventuale riconoscimento dello status di rifugiato, che avviene in una piccolissima percentuale di casi)
[15] Perchè, ad esempio vi è stata una deroga agli obblighi di bilancio imposti dalla UE per l’immigrazione (anzi, per l’”accoglienza”, come sogliono dire le anime belle) e non per il terremoto dell’Umbria?
[16] Il che non impedisce il loro riconoscimento come “rifugiati”, una volta che si sia chiarita la loro situazione.
[17] Per non citare la trama di organizzazioni sul suolo italiano (cooperative, onlus, ma anche privati cittadini) che traggono profitto dall’immigrazione incontrollata.
[18] https://www.unhcr.it/news/rifugiati-e-migranti-faqs.html
[19] Ibid.
[20] «Chi, a causa di un giustificato timore di essere perseguitato per la sua razza, religione, cittadinanza, opinioni politiche
o appartenenza a un determinato gruppo sociale, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato»
[21] IOM, op.cit. p.29
[22] In realtà, la voce “sfollato” del lessico della Commissione Europea rispecchia puntualmente l’articolo 2 © di tale direttiva, che recita:
« “sfollati”: i cittadini di paesi terzi o apolidi che hanno dovuto abbandonare il loro paese o regione d’origine o che sono stati evacuati, in particolare in risposta all’appello di organizzazioni internazionali, ed il cui rimpatrio in condizioni sicure e stabili risulta impossibile a causa della situazione nel paese stesso, anche rientranti nell’ambito d’appli- cazione dell’articolo 1A della convenzione di Ginevra o di altre normative nazionali o internazionali che conferiscono una protezione internazionale, ed in particolare:
- i) le persone fuggite da zone di conflitto armato o di violenza endemica;
- ii) le persone che siano soggette a rischio grave di viola- zioni sistematiche o generalizzate dei diritti umani o siano state vittime di siffatte violazioni»
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