Il saccheggio del Made in Italy
di GOOFYNOMICS
(…prosegue qui un dibattito serio su una cosa seria, mentre i gazzettieri si occupano in modo ridicolo di cose serie, o in modo serio di cose ridicole, seguendo il naturale corso degli eventi, che naturalmente li avvia all’estinzione: quell’estinzione che qui abbiamo con forza affermato essere condizione necessaria ma non sufficiente per l’affermarsi nel nostro paese di un processo politico realmente democratico…)
Caro Alberto,
l’intervento di Brazzale ed il tuo successivo post (che non era mio, ma di uno de passaggio; comunque, ormai ci ho rinunciato: fra un po’ penserete che io sono il CEO di Google perché il mio blog è su blogspot…NdC) sono un invito a nozze per me. Non posso non intervenire su temi che mi vedono coinvolto ormai da 25 anni in veste di professionista prima ed imprenditore poi.
Cercherò di non cadere nell’errore tipico di noi aziendalisti, così efficacemente riassunto dalle parole del professor Cesare Pozzi durante il suo intervento al goofy6:
Dalla mia credo di avere un lungo periodo di esperienza in diversi settori industriali, in aziende di diverse dimensioni (un paio anche grandi, le altre medie), situate in diverse zone del nostro Paese. Tutte queste aziende hanno sempre operato sui mercati esteri, da quando c’era la Lira e bisognava fare il benestare bancario per esportare (astenersi Millenials). Insomma, si tratta di qualcosa in più, spero, del micugginismo e di qualcosa in meno di una ricerca condotta con rigoroso metodo scientifico.
Un’altra premessa di metodo. Parlare di Made in Italy, senza differenziare tra settori (moda, agroalimentare, ecc..) e comparti di uno stesso settore (lattiero-caseario, pasta, prodotti da forno, giusto per fermarsi all’agroalimentare) comporta l’elevatissimo rischio di trarre conclusioni appropriate per un settore ma completamente fuori luogo per un altro. Le dinamiche competitive sono molto diverse, la struttura e la concentrazione dei settori altrettanto diverse. Mi sforzerò, tuttavia di cercare un minimo comune denominatore.
Dopo la premessa di metodo, vengo al merito:
Come sottolineato in un tweet, Brazzale si concentra quasi esclusivamente sul tema della provenienza dei fattori produttivi e, da lì, prendendo atto della provenienza dalle più disparate nazioni, conclude che il Made in Italy non esiste. Al netto della volontà di provocare un dibattito, Brazzale manca proprio il fulcro del problema.
Si focalizza infatti, in particolare, sul tema della provenienza delle materie prime, soffermandosi su una lotta di retroguardia che tanti danni sta facendo all’agroalimentare italiano.
Il fattore differenziale non risiede infatti nella provenienza delle materie prime, quanto nella capacità di lavorarle, di arricchirle di un “saper fare” unico e molto spesso legato al territorio, di trasformarle con ricette tramandate da secoli e migliorate con la tecnologia. Tutte queste attività sono inscindibilmente legate al Territorio, con la T maiuscola, ed è proprio questo legame che il consumatore, soprattutto estero, apprezza e compra.
Intestardirsi, come continuano a fare Coldiretti e molte associazioni dei consumatori, sulla provenienza della materia prima come condizione essenziale per fregiarsi del titolo Made in Italy, è un errore, contro cui giustamente Brazzale si scaglia. Le migliori mozzarelle e burrate pugliesi sono fatte con latte proveniente in uguale misura dalla Germania (su questo ci sarebbe da aprire un fronte su cosa potrebbe accadere col cambio Lira/DEM a 1.200, ma perderemmo il filo del discorso) e dalle colline della Murgia. È importante che il consumatore lo sappia, ma non è un fattore discriminante, anche perché gli imprenditori pugliesi del settore mi confermano che la carica batterica e le qualità organolettiche del latte tedesco sono eccellenti. Ciò che conta è dove viene eseguita la trasformazione di quelle materie prime ed il risultato di tale trasformazione. Che è tale solo perché delle persone ci mettono decenni di esperienza, di gusto, di creatività. Tutte caratteristiche che non trovi in altre parti del mondo.
Potrei fare l’esempio della pasta. È noto che la produzione di grano duro nazionale è insufficiente per il fabbisogno dell’’industria di trasformazione (anche qui potremmo aprire un’ampia parentesi sulle cause di lungo periodo, politiche UE soprattutto, che hanno determinato questo deficit strutturale) e che poco meno della metà del grano duro proviene dall’estero (USA, Canada, Australia, Francia, Kazakistan…). Accertato che i parametri fisico-chimici di questa merce sono rispondenti alle norme che tutelano la salute dei consumatori, e vi assicuro che i controlli nei porti e nei pastifici sono capillari, la pasta prodotta è il risultato di sapienti miscele di grani di diverse provenienze, di diagrammi di produzione frutto di decenni di esperienza di persone appassionate e competenti. In una parola, la pasta De Cecco potrebbe essere prodotta solo a Fara San Martino, non in Moldavia.
In Turchia, il settore della pasta sta avendo un forte sviluppo negli ultimi anni. Stanno comprando gli stessi macchinari per la pastificazione che abbiamo in Italia, stanno comprando il grano dagli stessi fornitori e stanno offrendo prodotto sugli stessi mercati internazionali su cui vendono i nostri marchi più prestigiosi. I risultati in termini qualitativi non sono paragonabili ma, soprattutto, il posizionamento di prezzo è nettamente inferiore al nostro. Il consumatore vuole mangiare italiano, a prescindere.
Non voglio dire che Brazzale solleva un problema inesistente, ma che non è un problema centrale. Il punto che Brazzale manca di cogliere è purtroppo un altro.
Negli ultimi 20 anni (ma potremmo andare anche indietro nel tempo) la politica industriale del nostro Paese ha sistematicamente indebolito quella spina dorsale di migliaia di piccole e medie imprese agili, ricche di competenze, rette da persone che trascorrevano 200 giorni l’anno in giro per il mondo a fare conoscere i nostri prodotti. Quanti proclami contro il nanismo delle nostre imprese abbiamo dovuto ascoltare da chi ha creato le condizioni affinché la dimensione aziendale fosse una discriminante e penalizzasse i piccoli?
Quanti studi farlocchi che dimostravano la insufficienza delle spese in ricerca e sviluppo delle nostre aziende? Ignorando che tutte le PMI, per risparmiare imposte sul reddito, nascondevano tra i costi tali voci, anziché capitalizzarli e renderli visibili nello stato patrimoniale? Se tutte le PMI capitalizzassero le spese in ricerca, sarei proprio curioso di sapere dove saremmo nelle classifiche che tanto piacciono ai vari Zingales, per dimostrare il mancato aggancio delle nostre imprese alla rivoluzione ITC degli anni ’90 e spiegare così il declino cominciato proprio in quegli anni.
Quanti fondi di private equity abbiamo visto all’opera in gioielli del nostro agroalimentare? Li abbiamo visti arrivare, tagliare personale, introdurre SAP, burocratizzare le aziende e privarle della agilità decisionale, quella che gli consentiva di impostare una strategia in mezza giornata e bruciare i concorrenti tedeschi che, nel frattempo, erano ancora intenti a riunire i loro consigli di amministrazione?
Un’ultima riflessione, non specificamente legata al tema del Made in Italy. In tanti anni di attività solo nelle PMI ho visto sensibilità ed attenzione alle persone ed al loro destino. Può apparire una inopportuna generalizzazione che si presta a facili obiezioni, perché gli atteggiamenti predatori non sono mancati, anche tra le PMI. Ma la facilità con cui in una grande impresa si tagliano teste che nemmeno conosci è cosa ben diversa dal travaglio che vive l’imprenditore che conosce ad uno ad uno tutti i suoi dipendenti, conosce i loro problemi, il mutuo da pagare. Per molti è l’unico patrimonio della vita e ne ho visti tanti resistere fino all’ultimo, distruggendo le loro residue capacità patrimoniali, pur di non lasciare per strada persone con cui lavoravano fianco a fianco da decenni.
(…bene: a molte di queste cose, come sapete, ero arrivato per via accademica partendo da una riflessione sviluppata con voi cinque anni or sono, che ha condotto a svariati articoli pirreviùd: questo, sul declino dell’Italia, questo, che mette a confronto spiegazioni alternative del declino nei paesi del Sud dell’Eurozona, e infine questo, che spiega e misura attraverso quali canali l’adesione alla moneta unica sta allargando il divario fra le economie del paesi membri. L’autore del contributo odierno sta assistendo coi suoi occhi al saccheggio del nostro Made in Italy da parte di fondi di private equity. Saranno impazziti, questi investitori esteri, nel comprarsi marchi non particolarmente noti al grande pubblico in settori non particolarmente innovativi come l’agroalimentare?
Credo di no, credo che si stiano semplicemente appropriando della nostra capacità di creare valore – salvo poi dilapidarle, come il nostro amico spiega. Il risultato sarà la fuoriuscita di profitti e competenze dal nostro paese, la desertificazione di quel poco di vitale che è rimasto. Di questo risultato saranno stati artefici i governi PD – e in generale europeisti (leggi: Berlusconi) – e i loro aedi – e in particolare, il Sole 24 Ore, che più e più volte ha vilipeso dalle sue colonne i piccoli e medi imprenditori, spina dorsale del nostro paese, come, del resto, dell’economia tedesca, e più in generale di ogni economia funzionante. Il discorso puramente ideologico contro le nostre PMI, condotto dalle nostre élite e dai loro giornali non può avere altro fondamento razionale che non sia la loro subalternità agli interessi esteri, o la connivenza con essi.
D’altra parte, non si vede perché un governo che disprezza il proprio popolo debba apprezzarne la capacità imprenditoriale. Un pezzo del delirio europeista è l’idea lievemente fuori tempo massimo che il piccolo e medio imprenditore sia il nemico di classe, da combattere con tutti i mezzi a disposizione, incluso il manganello del cambio sopravvalutato. Certo, questo suicidio fa male soprattutto ai lavoratori, ma, come abbiamo visto in anni di dibattito, il fatto che faccia male anche agli imprenditori serve a dare a questo tradimento dell’interesse del paese un piacevole retrogusto “de sinistra” (fra l’altro sollevando quest’ultima dal compito gravoso di individuare il vero nemico… che spesso, guarda caso, si trova fra i di lei finanziatori: il grande capitale finanziario internazionale!).
Credo sia ora di sfrattare dall’Italia chi la disprezza e la vende a chi vuole parassitarla. Ancora un paio di mesi di pazienza, e ne avremo l’opportunità: un’opportunità che è solo il primo passo di un lungo percorso. Ma proprio perché il percorso è lungo, occorre che il primo passo sia mosso nella direzione giusta…)
Fonte:http://goofynomics.blogspot.it/2018/01/il-saccheggio-del-made-in-italy.html
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