Non è sfruttamento, è assuefazione
di SINISTRA IN RETE (Marco Ambra)
Leggendo la cronaca quotidiana del declino industriale italiano, non ultimo il dibattito fra Calenda ed Emiliano sul futuro/passato dell’Ilva a Taranto, viene in mente una formidabile sentenza di Max Weber sull’etica spuria di chi dibattendo su tali questioni parte da una pregiudiziale pretesa di ragione, un’etica che «invece di preoccuparsi di ciò che riguarda il politico, vale a dire il futuro e la responsabilità davanti a esso, si occupa di questioni politicamente sterili – in quanto inestricabili – come quello della colpa commessa nel passato» (Scritti politici, Donzelli, Roma 1999, p. 219). Non che le colpe e le responsabilità, specie in sede penale, non abbiano la loro importanza, ma farle pesare all’interno di un dibattito politico significa falsificare del tutto il politico, offuscare la presa di responsabilità di fronte al futuro che dovrebbe esserne il compito.
Di fronte al declino industriale italiano il dibattito politico si polarizza così, tristemente, dietro la catena delle colpe e delle responsabilità trasformando concetti e argomentazioni in slogan lanciati fra contrapposte tifoserie: chi ha fatto le riforme contro chi non le ha fatte, chi ha accresciuto il debito pubblico contro chi ha praticato l’ortodossia ipercoerentista dell’austerità, mancando completamente l’obiettivo politico delle questioni.
Sospendiamo per un momento il giudizio sulla probabile cattiva coscienza di chi pratica questo esercizio quotidiano di falsificazione dei problemi politici a livello istituzionale. Che Gramsci ci perdoni. Ecco, se lo facciamo avremo un’analisi dell’ipocrita relazione fra politica ed economia nell’Italia dell’ultimo trentennio: è con il beneficio di questo sguardo obliquo sui problemi del nostro futuro-passato che si presenta un pamphlet da battaglia e di discreto successo editoriale come Non è lavoro, è sfruttamento di Marta Fana (Laterza, Roma-Bari 2017, qui la bella recensione narrativa di Alberto Prunetti).
L’economista ricostruisce la ventennale marcia trionfale dell’ideologia neoliberista in Italia, dal ruolo del concetto di flessibilità nelle riforme del lavoro dal 1997 al 2015, culminate con il Jobs Act, alla schiacciante avanzata delle privatizzazioni come argine e panacea alla corruttela imperante nelle aziende pubbliche o come forma di ammortamento del debito pubblico. Lungo questa pista, sostiene Fana «il dato politico da tenere a mente è che la presenza dello Stato nell’economia negli ultimi trent’anni non si è nei fatti ridotto, ma ha spostato l’asse del proprio intervento a favore delle imprese e del capitale e a discapito della spesa sociale per i lavoratori, gli studenti, i disoccupati» (p. 128). Basti pensare a quanto lo Stato ha speso fra il 2008 e il 2014 in aiuti al settore bancario, ovvero circa l’8% del Pil, e a quanto invece è stato investito in istruzione e ricerca, il 4% del Pil nel 2015 a fronte di una media europea del 10,3%, per comprendere la portata e l’asse dello spostamento.
Tale spostamento di risorse è stato sostenuto dal dogma della relazione causale fra flessibilità e produttività del lavoro o più in generale fra flessibilità ed intero sistema economico, come se una costante erosione dei diritti dei lavoratori agisse da stimolo miracoloso sulla produttività. Una relazione del tutto indimostrata, asserita acriticamente dal coro tragico della politica, e che, se si guarda a numeri degli ultimi trent’anni, come diligentemente fa Marta Fana, dimostra semmai il rovescio contraddittorio del postulato di partenza: i paesi che sono maggiormente cresciuti nell’ultimo decennio e che meglio hanno reagito alla congiuntura critica iniziata nel 2008 sono anche quelli che anziché tagliare il costo del lavoro hanno maggiormente investito su innovazione, ricerca e sviluppo.
In Italia invece ci si è cullati sul dogma della flessibilità, innaffiandolo abbondantemente con l’ideologia regionale del trickle down, ovvero con la mistica dell’avvento di maggiori profitti per i più ricchi come punto di partenza di un flusso di ricchezza, prima a goccia e poi a cascata, verso il basso. Questo corollario al dogma della flessibilità, che ha orientato la politica fiscale di tutti i governi della “Seconda Repubblica”, non solo è evidentemente smentito dalla più grande divaricazione della forbice delle disuguaglianze economico-sociali dal dopoguerra ad oggi, ma ha portato alle luci della ribalta e ad assurgere al ruolo di maîtres à penser dell’italica industria personaggi di dubbio spessore come Farinetti o Briatore (quando un tempo, per Giunone, a pontificare erano gli Olivetti).
Il quadro risulta ancora più chiaro se come Marta Fana guardiamo alle nuove forme di sfruttamento emerse nei settori della logistica, della grande distribuzione, nell’orpellistica avanzata della gig economy e nel sistema di retribuzione decontrattualizzato e fondato sui voucher. La scelta narrativa di partire da queste avanguardie dello sfruttamento corrobora i numeri della deregulation del lavoro in Italia sciorinati nella seconda parte del saggio. I temi toccati dal libro sono allo stesso tempo gli esempi più significativi della frammentazione del processo produttivo alla base della ristrutturazione in corso del capitalismo e del modo in cui questa frammentazione crea forme di sfruttamento trasversale, intergenerazionali e senza nazionalità, celate nella retorica dell’immigrato che ruba il lavoro e nello scontro generazionale.
Sul piano sociologico è questo forse il contributo più importante dell’analisi di Fana: il capitale oggi mette a profitto la solitudine e la frammentazione, traveste con il costume variopinto dell’innovazione «l’emergere di spazi di “coworking”, dove apparentemente si lavora insieme, ma, molto più realisticamente, ognuno se ne sta per i fatti suoi» (p. 9). Prendiamo una delle mitologie più fresche di questa fase di ristrutturazione del capitale: la cosiddetta gig economy, ovvero il trionfo dei lavoretti a chiamata che fa capo ad aziende come Deliveroo, Foodora, Uber o JustEat. L’uso di un’applicazione per smartphone come terminale della catena di comando nella chiamata per i lavoratori che effettuano le consegne o fanno gli autisti, oltre a far emergere la frammentazione della forza lavoro lascia aperta la possibilità di un controllo totale. Il lavoro viene infatti imposto attraverso un’assoluta disintermediazione delle responsabilità, sulla base di un algoritmo che assegna i turni, i richiami disciplinari e persino i licenziamenti. Abbattendo in questo modo il costo del lavoro che non ha né possibilità di mediazione contrattuale con la dirigenza né occasione di confronto e organizzazione della lotta sindacale.
Un’analoga strategia viene individuata da Marta Fana in uno dei settori che ha fatto finalmente e maggiormente discutere in queste settimane, quello della logistica. In questo caso l’abbattimento brutale del costo del lavoro è ottenuto attraverso la creazione di catene di subappalto e il ricorso, spesso solo minacciato, alla robotizzazione delle mansioni lavorative. Le condizioni di lavoro estreme dei lavoratori della logistica di grandi multinazionali come Amazon, spesso migranti pronti ad accettarle, sono il rovescio della medaglia della brillante fantasmagoria ideologica messa in scena dal marketing e dalla “modernità” della merce direttamente a domicilio: «il volto plastico dello sfruttamento è un’ipocrita rappresentazione della soddisfazione individuale» (p. 51).
Le condizioni di lavoro dei lavoratori della logistica rappresentano poi l’avanguardia più spinta, il dadaismo dello sfruttamento. Ma non meglio se la passano tutti quei lavoratori a progetto che galleggiano nel quadro della diffusa precarizzazione, esternalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici. In questo caso il limite a cui tendere non è il lavoro infraumanizzante, ma la normalizzazione del lavoro gratuito. E un’ottima palestra è in tal senso l’alternanza scuola-lavoro, almeno così come si configura a partire dalla legge 107 del 2015 e dal contesto in cui essa s’inserisce: quello di un quadro di riforme centrate sull’uso della valutazione in termini meritocratici e all’interno di una tendenza al disinvestimento dello Stato sull’istruzione che sta producendo, già nel breve periodo, uno spaventoso blocco della mobilità sociale correlato ad un alto tasso di abbandono scolastico. In questo contesto l’esperienza dell’alternanza scuola-lavoro addomestica i futuri lavoratori alla gratuità della loro opera, alla normalità della precarizzazione e alla prospettiva del demansionamento: commessi da Zara o camerieri in autogrill, passivi figuranti in aeroporto o addetti alle fotocopie in biblioteca, gli studenti e le studentesse coinvolti nella stragrande maggioranza dei progetti di alternanza sono obbligati a rinunciare ad ore di didattica disciplinare per stage di dubbio contenuto formativo, rappresentazioni distorte del mondo del lavoro, disconnesse da qualsiasi funzione produttiva.
La mole di osservazioni e argomenti raccolti in Non è lavoro, è sfruttamento ha un obiettivo preciso, anzi un merito. Marta Fana ha lo scopo dichiarato, sin dall’inizio del libro, di produrre una lettura della realtà economico-sociale nella sua dimensione storica: «più di una generazione vive oggi in un contesto di crisi permanente, di distruzione del patto sociale – scioltosi come neve al sole – del dopoguerra e degli anni del boom. Metabolizzare il lavaggio del cervello quotidiano operato a uso e consumo delle élites non fa che distogliere lo sguardo dalle vere cause e responsabilità e dai possibili rimedi» (p. 5). Ma distogliere lo sguardo dalla narrazione tossica del lavoro significa anche ammettere la legittimità di nuovi dubbi.
Può oggi la produttività del lavoro essere ancora l’unico principio di speranza intorno al quale addensare la coscienza di classe? Non c’è spazio per un discorso sul reddito che affianchi e ridia forza a quello sulla dignità del lavoro? Possiamo pretendere l’inversione fra valore di scambio e valore d’uso della merce senza prima aver attraversato in ogni contraddizione il venerdì santo della frammentazione della forza lavoro? Possiamo costruire scuole e case antisismiche se prima non ricostruiamo dalle macerie dell’oggi un minimo di tessuto sociale?
La strada da fare è faticosa ed è per questo che «nel nostro piccolo quotidiano abbiamo il dovere politico di innescare ogni miccia capace di portare alla luce queste contraddizioni e farle vivere nei processi in cui siamo coinvolti, come comunità» (p. 159). È questo un punto d’onore, un passo in avanti del libro di Marta Fana, quello di non cedere al ritornello caustico ed autoironico dell’integrazione, quello “smetto quando voglio” che trasuda assuefazione.
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