L’invincibile finalismo
di CRITICA SCIENTIFICA
Divulgando la TRE in varie occasioni (conferenze, lezioni, interviste e video-interviste), ho cominciato a riflettere sulle problematicità più ricorrenti in termini comunicativi; la lezione più importante che ho imparato è la seguente: il finalismo non è mai morto, come se Charles Darwin non fosse mai esistito.
Il finalismo, detto in parole povere, è quell’approccio per cui scegliamo di spiegare il passaggio da uno stato A ad uno stato B di un sistema (in questo caso, l’evoluzione da una specie ad un’altra) cercando il fine per cui è avvenuto tale cambiamento.
Ancora oggi, molte persone credono che lo “sforzo” e la tenacia con cui un essere vivente cerca di sopravvivere e di riprodursi siano la causa di un cambiamento nel suo corpo o nel suo comportamento, come quando una persona si iscrive in palestra e attraverso l’impegno e la costanza sviluppa una forte muscolatura, perché i suoi muscoli si adattano all’esercizio fisico.
Questo modo di pensare, simile a quello di Lamarck, venne sostituito da quello di Darwin, fortemente anti-intuitivo, cioè contrario al modo comune di pensare: la lotta per la sopravvivenza non è il fattore che produce il cambiamento, ma è ciò che fa in modo che quei cambiamenti che implicano un vantaggio per la specie permangano, mentre quelli del caso contrario spariscano. È la componente più originale del pensiero di Darwin e che gli si deve riconoscere, infatti è ciò che viene insegnato sia a scuola sia in vari contesti divulgativi (libri e televisione). Volendo completare il discorso, l’aver tolto il finalismo è stato l’atto che ha reso Darwin una figura importantissima per la cultura in generale, per le implicazioni filosofiche e sociali.
In che senso allora affermo che il finalismo è ancora presente? Dobbiamo fare un passo indietro, allontanandoci dalle luci della filosofia, alzandoci dalla poltrona della sala congressi, uscendo dai salotti per tornare nei laboratori. Le teorie scientifiche, prima ancora di essere parte della cultura umana, sono semplicemente strumenti, come il martello, la pinza e la calcolatrice. Dimentichiamo allora le implicazioni extra-scientifiche e concentriamoci esclusivamente sul modo in cui si usa la teoria.
Siccome Darwin qualche ipotesi sull’origine del cambiamento vero e proprio doveva pur darla, all’inizio si parlava semplicemente di “variabilità”: esiste un certo grado di variabilità tra individui di una stessa specie. Da dove nasce questa variabilità? Darwin non poteva avere una risposta per tutto (è morto molto prima della scoperta del DNA, per esempio), per cui questa parte inizialmente era un po’ in ombra. Tale situazione ha fatto in modo che il discorso si spostasse soprattutto sul come applicare il concetto di selezione naturale. Solo che l’assenza di un vero criterio alternativo all’origine del cambiamento in sé (la comparsa delle novità) fa rientrare dalla finestra il finalismo cacciato dalla porta, come spiegherò meglio tra poco.
Non potendo dire “le novità compaiono quando…” ma solo “se capita che compaia una novità…” di fatto si sottrae agli applicatori della teoria uno strumento regolativo (stabilimento di una regola) e resta solo quello “esplicativo” (spiegazione concettuale).
Più precisamente, se considero una specie A da cui è discesa per evoluzione la specie B, il darwinismo mi costringe a chiedermi “quale vantaggio nella lotta per la sopravvivenza si è avuto nel passaggio alla forma B?”. Il guaio (o trappola mentale, se preferite) è che la risposta alla domanda precedente, nella stragrande maggioranza dei casi, la si trova ed è pure plausibile se non proprio semplicemente corretta…ma l’approccio usato di fatto è finalistico, perché solo conoscendo lo scopo da raggiungere per la sopravvivenza della specie A (per es. mangiare foglie o altri animali) potrò capire gli ostacoli che ha dovuto affrontare, che a loro volta ci permetteranno di rispondere alla domanda sul vantaggio nella lotta per la vita.
Di esempi se ne potrebbero fare a centinaia, un caso che ho ritrovato più volte è stato quello di un particolare tipo di orchidea, studiato da Darwin stesso, il cui stilo e ovario (quindi la parte cava, con polline e nettare) erano eccezionalmente profondi. Darwin intuì (e quindi, secondo molti, “predisse”) che doveva esistere un insetto dalla proboscide altrettanto lunga per poter raggiungere il nettare sul fondo di tale fiore, ma che nel farlo raccogliesse molto polline, necessario alla riproduzione del fiore.
La successiva scoperta di tale insetto viene considerata una prova del ragionamento di Darwin (fin qui, sono pure d’accordo), ma se tale ragionamento viene considerato anche “evoluzionistico” non sono più d’accordo: Darwin ha analizzato il fiore, conoscendo le sue esigenze ha saputo trovare una funzione (quindi uno scopo) a quella forma particolare e la sua ipotesi è stata verificata…ma è il più puro finalismo. Si spiega un fenomeno grazie alla comprensione di funzioni e fini. Inutile precisare che chi conosce bene Darwin sa che non è un’applicazione del finalismo, come ho detto prima stiamo analizzando l’applicazione della teoria, non la sua struttura logica, originale quanto si vuole.
La più sfacciata applicazione del finalismo avviene quando si ricorre al più usato e comodo binomio del darwinismo, “pressione selettiva” e “risposta adattativa”.
Ora vi esporrò, per semplicità in forma di algoritmo (cioè di ricetta) come si ottengono le “spiegazioni evoluzionistiche coerenti col darwinismo”:
– prendete una specie qualunque, del presente o del passato (per esempio, la balenottera azzurra);
– considerate una sua caratteristica fisica o comportamentale (per esempio, l’eccezionale lunghezza);
– cercate di capire una funzione o scopo di tale caratteristica (in questo caso, può essere la banale ma efficace tecnica di predazione “apro l’immensa bocca, butto tutto dentro e chiudo, sfiato e mangio”);
– trovate l’ostacolo che si oppone per la specie in questione al raggiungimento di tale scopo (in questo caso, il numero finito di risorse e la concorrenza di altre specie predatorie)
– descrivete la funzione trovata prima come “risposta adattativa”;
– descrivete l’ostacolo come “pressione selettiva”;
– elaborate un testo o un discorso in cui l’ordine dei concetti sia l’inverso di quello dato da tale algoritmo, a partire da un generico precursore della specie in esame;
– avete ottenuto la vostra spiegazione evoluzionistica coerente col darwinismo!
Il risultato finale dell’esempio precedente è questo: “l’antenato più recente della balenottera azzurra ha subito la pressione selettiva della concorrenza nella predazione data da molte specie carnivore. Mentre queste ultime basavano la propria sopravvivenza escogitando strategie di caccia basate sulla cooperazione, lo sfiancamento, l’attacco a sorpresa o tecniche analoghe, la balena ha sviluppato come risposta adattativa un considerevole incremento delle sue dimensioni per realizzare una predazione basata semplicemente sulla sua grande mole”. Ecco fatto, non è stato difficile, vero? Trovatemi voi qualcuno che sia capace di negare del tutto che la mole della balena abbia almeno questo vantaggio adattativo. La banale veridicità di queste affermazioni e il loro carattere fortemente intuitivo le rendono subito accettabili da chi le legge, solo che vengono presentate come darwiniane, mentre in realtà si sta applicando un finalismo camuffato.
Il lettore volenteroso potrà divertirsi a scrivere nei commenti un’analoga spiegazione evoluzionistica per l’eccezionale velocità del ghepardo, il mimetismo dell’insetto stecco oppure di una specie a piacere.
Come cambia il discorso se passiamo al Neodarwinismo, con le mutazioni genetiche casuali?
A mio avviso le mutazioni genetiche casuali hanno solo peggiorato le cose, perché affidare a meccanismi “slegati dalla fitness”, che non seguano un set di regole a priori, la comparsa delle novità, non ha eliminato il finalismo ma al contrario, le mutazioni sono viste dai più come una specie di scatola nera che intenta a produrre i cambiamenti dei tratti. Le mutazioni diventano quindi un fenomeno che serve per tenere le nostre coscienze a posto in termini di rispetto della teoria attuale, per poi buttarci a capofitto senza sensi di colpa nel finalismo mascherato.
Da suo più grande avversario, all’atto pratico (non nelle generiche e astratte spiegazioni della teoria) il darwinismo, anziché eliminare il finalismo, è finito col dargli una giustificazione naturalistica, basta solo non chiamarlo col suo nome. Lascio sempre al volenteroso lettore dedurre quanto poco cambia se nella scatola nera delle mutazioni ci andiamo a buttare anche altri tipi di cambiamenti slegati dalla fitness, come quelli epigenetici o dell’evo-devo.
Tornado alle mie esperienze, all’inizio credevo che l’attaccamento al finalismo di molti miei interlocutori fosse dettata da semplice dimenticanza del vero pensiero di Darwin. Ironia della sorte, quando spiegavo in diverse occasioni che la risonanza di cui parlo nella TRE non è sinonimo di “adattamento all’ambiente che cambia”, alcuni restavano un po’ delusi da una chiave di lettura a-finalistica. “Il primo a-finalista è stato Darwin!” è la replica che sono costretto a fare. Magari nella prossima conferenza mi devo portare una lunga barba bianca finta, per far capire meglio cosa sia tipicamente darwiniano e cosa no: ogni volta che indosso la barba, sto divulgando Darwin, niente barba, niente Darwin.
La dimenticanza, purtroppo, non è la sola complicazione, perché non trovo quasi mai una testa “tabula rasa” ma spesso e volentieri una definizione diversa di “darwinismo” da testa a testa: il darwinismo come “evoluzione” oppure come “mutazione” oppure ancora come “selezione del modo migliore di adattarsi”, in quest’ultimo caso mescolando incautamente Darwin e Lamarck. Dimenticanza e confusione di termini, quindi, o meglio, libera interpretazione dei termini.
A chi potevo rivolgermi per risolvere questo problema divulgativo?
L’ideale sarebbe stato imitare chi compie il lavoro di divulgatore per professione.
Qui purtroppo scatta un terzo problema dopo la dimenticanza e la confusione, quello del cattivo esempio: anche quei divulgatori che fino ad un attimo prima, quando parlavano in generale spiegavano per bene l’a-finalismo dell’evoluzione secondo Darwin, magari esaltandolo per tale posizione “coraggiosa”, un attimo dopo, quando passano al caso particolare, ricorrono ad un linguaggio finalistico.
È finalista Telmo Pievani, quando nel parlare delle specie rimaste invariate rispetto al mesozoico (https://vimeo.com/236380355) dicendo che a volta la “strategia” giusta sia restare “fermi” senza cambiare, sfruttando una certa flessibilità, lascia intendere (involontariamente!) che gli animali “scelgano” talvolta di non cambiare per raggiungere il loro scopo principale, la sopravvivenza.
È finalista Marco Ferrari, quando su Focus (numero di Febbraio 2017, 292, p.56) spiega le ragioni del bipedismo degli australopitechi, dicendo che l’avessero raggiunto per poter accedere ai frutti dei rami più alti (di nuovo, inconsapevolmente, si sfrutta lo scopo per spiegare un cambiamento).
È finalista Alberto Angela quando in prima serata spiega la talassemia presentandola come semplice “adattamento” alla malaria, lasciando intendere che il corpo umano sia capace di provocare di sua iniziativa mutazioni genetiche fatte apposta per sopravvivere ad una grave malattia.
Ribadisco che in questa sede sappiamo tutti benissimo che il darwinismo sia a-finalistico, ma stiamo parlando della sua effettiva applicazione, che poi, grazie agli esempi, spesso coincide col contenuto principale di un’opera di divulgazione (cos’è una regola senza un esempio? Cosa resta impresso di più nella memoria?).
“Quando si divulga è normale semplificare mettendo da parte le finezze epistemologiche, devono capirti anche gli inesperti”, questo è ciò che mi sono detto spesso, come replica più scontata.
Purtroppo, non credo che sia questo il caso: sono d’accordo col togliere i tecnicismi, i concetti troppo complicati, pur di spiegare la scienza a chi non è del campo, ma il concetto che scelgo di comunicare non deve essere l’opposto di quello che intendo.
Se chi mi ascolta non capisce niente di matematica ma devo spiegargli la funzione “esponenziale”, gli posso dire che è come una bomba (espansione esplosiva), ma non posso paragonarla per esempio ad un lago (chiuso, relativamente piccolo e calmo): non ho semplificato, ho mentito.
Analogamente, se trasmetto il messaggio che l’adattamento, dal punto di vista materiale, sia qualcosa che in qualche modo si realizza ma non importa come, perché è roba da biologi, mentre uso un linguaggio finalistico per spiegare l’evoluzione, ma un’evoluzione secondo Darwin, allora inganno il destinatario. Gli sto presentando una versione annacquata del darwinismo, non solo scorretta ma anche incoerente con gli elogi del pensiero “anti-intuitivo, coraggioso, staccato dal pensiero dei millenni precedenti”, come si usa dire.
Per questo a volte mi chiedo, dove sarebbe il darwinismo oggi se non fosse mai esistita la possibilità di annacquarlo con un finalismo mascherato?
La mia personale soluzione a tali problemi divulgativi, almeno per ora, quando mi trovo a spiegare di persona l’evoluzione e la TRE, è di segnalare le parole problematiche, principalmente due: “cambiamento” (dannatamente generica, specie se seguita dall’aggettivo “ambientale”) e “adattamento” (dannatamente intuitiva e dal facile finalismo).
Come consiglio che do a me stesso e a chi mi legge, per semplicità, concludo con una piccola lista di regolette divulgative figlie dell’esperienza maturata finora, ad uso sia di curiosi sia di aspiranti divulgatori (non solo professionisti). Chiunque è libero di aggiungerne altre, purché siano regole che tengano conto dei problemi sollevati nel resto di questo articolo.
1) Prima di usare le parole “evoluzione” e “darwinismo”, non date per scontato che chi vi ascolta abbia in testa la stessa definizione che intendete voi.2) Se dite “le specie si evolvono per adattarsi ad un ambiente che cambia”, chiunque vi capirebbe, ma non è affatto un bene.
3) Quanto più la scala ecologica di riferimento è alta (nicchia, ecosistema, ambiente), tanto più le affermazioni banalmente vere (cioè inutili) sono dietro l’angolo (es. “se 100 specie si estinguono per un cataclisma e solo 10 no, le restanti 10 occuperanno le nicchie liberate e si evolveranno…anche perché di sicuro non si evolve una specie estinta e l’evoluzione non ha fretta, non è un fenomeno tra l’oggi e il domani).
4) Quanto più usate la matematica, tanto meno vi capiranno.
5) Quanto meno usate la matematica, tanto più troverete definizioni diverse per la stessa parola.
6) Se usate metafore tratte dal comportamento umano (risposta, strategia eccetera) sappiate che saranno inevitabilmente finalistiche. Potete anche chiamarvi Richard Dawkins, è così e basta.
7) Esempi perfettamente calzanti in un discorso, proprio perché “perfetti”, non possono essere usati in un altro discorso anche se simile al precedente, creereste solo confusione (ergo, basta giraffe e falene colorate, se volete andare oltre le nozioni apprese a scuola).
8) Maggiore sarà il numero di argomenti introdotti da voi, da chi vi asseconda e da chi vi critica, maggiore sarà la probabilità che uno di voi tre dica cose vere insieme a qualche fesseria. Less is more. More is only caciara.
Fonte: http://www.enzopennetta.it/2018/01/linvincibile-finalismo/
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