La sovranità nazionale e la centralità della lotta antimperialista
di SINISTRA IN RETE (Alessandro Pascale)
È molto importante che Marx21.it abbia lanciato una discussione su un tema importante e assolutamente non marginale come quello riguardante la sovranità nazionale. Nel tracciare le righe seguenti sintetizzerò alcune conclusioni a cui sono giunto nell’opera “In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo” (scaricabile gratuitamente su intellettualecollettivo.it), che si intrecciano profondamente con questa questione.
La gran parte del movimento comunista italiano ha vissuto gli ultimi decenni in balìa del revisionismo, facendosi dettare le parole d’ordine, e talvolta perfino l’analisi, dalla borghesia e da intellettuali di area progressista ma non marxista. Il fatto che oggi parlare di sovranità nazionale sia un tabù e che si lasci il tema alle destre non deve stupire insomma: è il simbolo di una strutturale incapacità analitica dovuta ad un profondo revisionismo che affonda le sue origini assai lontano nel tempo: in Italia almeno agli anni di Berlinguer, il quale, con l’abbandono formalizzato del marxismo-leninismo da parte del PCI, a favore dell’ottica eurocomunista, legittimò inconsapevolmente un filone culturale cosmopolita che con l’internazionalismo proletario non ha nulla a che fare.
Nella sua storia il movimento comunista mondiale, fino allo scioglimento del COMINFORM (1956) ha sempre mantenuto chiaro il nesso tra internazionalismo e patriottismo, secondo un rapporto dialettico per il quale il primo aspetto risultasse preponderante rispetto al secondo, utile soprattutto a scopo tattico nella conquista dell’egemonia e della presa del potere.
Non è un caso che le vie nazionali al socialismo siano state duramente stigmatizzate fino al 1956, tanto da procurare la rottura con la Jugoslavia e una serie di dure reprimende alle direzioni politiche del PCI e del PCF. Non è nemmeno un caso che tutte le principali rivoluzioni socialiste abbiano avuto luogo in Paesi dove la questione sociale posta dai partiti comunisti ha trovato successo unendosi ad un messaggio di salvezza della nazione, ossia ad un’ottica patriottica. Queste verità evidenti hanno cominciato ad incrinarsi a seguito della rottura dell’unità del movimento comunista internazionale, causata dal revisionismo introdotto da Chruscev, concretizzatosi nella rilevante spaccatura tra URSS e Cina. Da allora la frammentazione è stata continua, giungendo in pochi decenni al diffuso abbandono delle categorie fondamentali della cultura e dell’analitica marxista-leninista. La sinistra ha perso coscienza del fatto che la democrazia liberale non sia altro che un’illusione di libertà e democrazia, riservata peraltro solo a pochi Paesi occidentali e imperialisti. La gran parte del Terzo Mondo ha subito il dominio indiretto, ma in qualche caso ben visibile degli USA: gli interventi statunitensi in Cile e Vietnam sono solo i più famosi, ma l’azione della CIA e del Dipartimento di Stato ha fatto sì che sotto qualsiasi presidente statunitense, “democratico” o “repubblicano” che fosse, avessero luogo centinaia di destabilizzazioni segrete utili a mantenere un proprio dominio economico e politico indiretto.
Una grande rimozione collettiva riguarda il fatto che fino a poco più di 50 anni fa la gran parte del mondo era sottomessa politicamente e militarmente dagli imperi coloniali, che vi avevano imposto un dominio diretto contro il quale hanno lottato movimenti nazionalisti sostenuti dall’URSS e in molti casi egemonizzati dai comunisti. Nella lunga transizione verso la decolonizzazione si è però imposto un nuovo Impero, non impersonale come voleva Toni Negri, ma saldamente diretto e controllato dalla principale potenza imperialista uscita rafforzata dalla Seconda Guerra Mondiale: gli Stati Uniti d’America. Gli USA hanno di fatto continuato ad esercitare un dominio politico ed economico sostanziale, seppur non formalizzato, sulla gran parte dell’Asia, dell’Africa e dell’Asia. In questo scontro di proporzioni mondiali con i “Paesi non allineati” e con il blocco socialista si è deciso il destino del mondo intero, in quella che è stata una gigantesca lotta di classe come mai è avvenuto prima nella Storia. La caduta dell’URSS e la capacità degli USA di mantenere un controllo ferreo grazie al proprio peso economico, politico e militare hanno sancito per un periodo più o meno lungo la prosecuzione dell’apogeo imperiale statunitense, motivo per cui per la gran parte del mondo l’indipendenza e l’autonomia sono ancora parole prive di contenuto, nel momento in cui dipendono ancora largamente dagli assetti neocoloniali imposti dalle multinazionali, dal FMI e dalla Banca Mondiale, ossia dai principali strumenti con cui l’imperialismo (per lo più statunitense) riesce a mantenere un controllo sostanziale su Paesi ricchissimi di materie prime e di manodopera a bassissimo costo. Laddove non è bastato il controllo economico-finanziario è arrivata la lunga mano della CIA, che godendo dalla sua nascita di un budget iniziale pari a circa il 5% dei fondi messi a disposizioni per il Piano Marshall, ha potuto garantirsi un budget via via crescente con cui ha saputo mantenere operativamente il controllo di questo impero mondiale, pur perdendo saltuariamente qualche battaglia (Cuba, Indocina, Venezuela, ecc.).
Il caso di Cuba è particolarmente esemplificativo di un popolo capace di realizzare una delle tanti rivoluzioni inizialmente non caratterizzate in senso socialista, bensì democratico e antimperialista, tese a riconquistare la sovranità nazionale contro un dittatore luogotenente degli interessi statunitensi. Lo stesso Ernesto “Che” Guevara decise di darsi alla lotta armata per l’emancipazione dell’America Latina quando capì le modalità e la dimensione del controllo statunitense assistendo in prima persona al golpe messo in atto contro il Governo Arbenz in Guatemala nel 1954, uno dei primi esempi storici di quella che oggi chiamiamo “rivoluzione colorata”. La costruzione di sistemi socialisti, autonomi dal blocco imperialista, o il rafforzamento delle relazioni politiche, economiche e militari con il blocco socialista (si pensi all’Egitto di Nasser e all’India di Nehru) sono state delle necessità storiche per qualunque Stato che volesse garantire la propria sovranità nazionale costruendosi prospettive di sviluppo economico e sociale.
Questa lunga premessa è indispensabile per capire anche il contesto italiano ed europeo. Durante la Guerra Fredda anche l’Europa Occidentale è stata, per obbligo o per scelta (con l’eccezione della Francia per alcuni periodi), subalterna agli USA, accettando una sostanziale riduzione della propria sovranità nazionale. Le classi dominanti delle borghesie europee, per impedire la presa del potere dei comunisti, hanno accettato il ritorno in grande stile dell’imperialismo, manifestatosi dagli anni ’70 con l’avvento della globalizzazione neoliberista, la quale ha concesso di iniziare un processo di espansione economica rivolta non più solo all’espansione dei consumi interni, ma soprattutto al ripristino di un rapporto di forza più favorevole ai Capitali privati nei confronti dei Capitali pubblici e del mondo del Lavoro. Ciò ha comportato l’espansione a dismisura del potere della finanza (tornato presto ai livelli precedenti la Prima Guerra Mondiale) e il ritorno in grande stile dei monopoli, accompagnato da un’offensiva ideologica (una classica “rivoluzione passiva”) tesa a ridare prestigio alle dottrine economiche liberiste per cui un tale processo sarebbe andato a vantaggio di tutta la società. Menzogne smentite da anni di dati che mostrano come le condizioni dei lavoratori siano peggiorate negli ultimi decenni in Occidente, mentre le disuguaglianze siano cresciuti a livelli esorbitanti, tornando a livelli ottocenteschi. Ciò è sotto gli occhi di tutti.
Con la fine della Guerra Fredda l’imperialismo occidentale per qualche anno non ha avuto più argini, potendo permettersi il lusso di violare apertamente e pubblicamente la sovranità nazionale di altri Stati, in spregio totale ad ogni elementare norma di diritto internazionale. Le guerre della Jugoslavia (1999) e dell’Iraq (2003), condotte senza neanche assicurarsi il mandato dell’ONU, sono solo i casi più manifesti dell’arroganza statunitense conseguente alla scomparsa del contrappeso sovietico. Le borghesie europee hanno potuto nel frattempo continuare ad arricchirsi ed espandersi, mentre le classi lavoratrici continuavano, nel loro complesso, a raccogliere solo le briciole dei nuovi furti condotti su scala mondiale, peggiorando anzi spesso le loro condizioni di vita, nell’incapacità sistemica di una borghesia sempre più capace di garantire un equilibrio soddisfacente della distribuzione dei profitti ottenuti. La controffensiva del Capitale è stata radicale, totale, sconvolgente e senza freni. Per distruggere le conquiste ottenute dai movimenti operai nel corso di decenni si è costruita una nuova sovrastruttura imperialista, l’UE (Unione Europea), ed in parallelo la BCE (Banca Centrale Europea), organismi che rimettono in discussione il nesso tra liberalismo e democrazia faticosamente raggiunti come soluzione di compromesso nel 1945 nell’ambito delle Costituzioni Antifasciste.
Si può allora dire che oggi gli Stati europei abbiano piena sovranità nazionale? No, non si può dire. Vige in essi il predominio delle élites finanziarie, capaci di ricattare e far cadere Governi di Paesi anche molto potenti. Il destino fallimentare e deludente della Grecia di Tsipras, totalmente incapace di mettere in discussione l’internità alle sovrastrutture imperialiste, era inevitabile stante l’arretratezza ideologica di Syriza. La forza della finanza, che sfrutta ad esempio l’arma dei titoli di Stato, dei debiti pubblici e un potere non riscontrabile in altre parti del mondo della BCE, è stata capace di far cadere anche Governi in Italia, commissariata de facto dalla Trojka con tanto di lettera arrivata da Bruxelles con le riforme mettere in atto. Lo svuotamento del potere della Politica ha significato la cancellazione dell’articolo 1 della Costituzione Repubblicana: la sovranità non appartiene al Popolo, ma alla Borghesia e al grande Capitale finanziario. Anche in Italia non c’è da decenni sovranità nazionale: stuprata durante gli anni della Repubblica dalla continua destabilizzazione statunitense, la democrazia italiana è stata svuotata di contenuto con l’adesione al Trattato di Maastricht (1992), avvenuto casualmente solo un anno dopo il crollo dell’URSS. In quello stesso anno in cui con la stagione di Tangentopoli si creavano le premesse per la resa dei conti anche verso quel gruppo dirigente che, pur aderendo alle politiche imperialiste e alla NATO, aveva osato mostrare eccessiva autonomia di giudizio. Un’altra casistica riscontrata spesso nei Paesi neocoloniali del “Terzo Mondo” controllati dagli USA durante gli anni della Guerra Fredda. Nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, ristrutturata con una legge elettorale maggioritaria antidemocratica, cadeva ad esempio anche quel Bettino Craxi che aveva sì distrutto la Scala Mobile introducendo il neoliberismo in Italia, ma che aveva osato sfidare gli USA nella crisi di Sigonella, portando avanti una politica estera più autonoma nell’ambito del Mar Mediterraneo e del Medio Oriente.
La sinistra, impastoiata in un revisionismo fondato sulla “via italiana al socialismo”, sulla critica dei “socialismi reali” e su una sostanziale visione “eurocomunista”, è arrivata a votare a favore dell’euro e non ha saputo porre la questione del profondo nesso tra sovranità nazionale e popolare. Oggi non è possibile progettare il pur minimo percorso progressista senza mettere in discussione l’appartenenza alle sovrastrutture imperialiste (UE e NATO) che limitano la sovranità nazionale, ossia la possibilità per la Politica di rimettere in campo soluzioni politiche alternative a quelle neoliberiste. Una parte della borghesia industriale italiana, appoggiata da larghi strati popolari in fase di proletarizzazione, parla strumentalmente di sovranità nazionale, ma la declina in senso di un rinnovato imperialismo italiano, senza peraltro mettere minimamente in discussione l’appartenenza alla NATO e smorzando molto anche le critiche all’UE, nella speranza forse di far ragionare la borghesia tedesca sulla necessità di un maggiore bilanciamento dei vantaggi dal nuovo assetto “europeo”. La soluzione che propongono è vecchia 150 anni: razzismo, espansione internazionale, nazionalismo e mercificazione spinta del lavoro. La soluzione che devono proporre i comunisti è totalmente diversa: lotta aperta all’imperialismo, ostacolo primario alle rivendicazioni popolari di migliori condizioni di vita. Recupero della sovranità popolare da porre in dialettica connessione al recupero della sovranità nazionale. Uscita dall’Unione Europea, dall’euro e dalla NATO come passo indispensabile per dare avvio ad un programma progressivo che ad un dato livello non può che coincidere, in un Paese a tecnologia e sviluppo avanzato come l’Italia, in una rivoluzione socialista che comporti l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e la messa sotto controllo popolare degli impianti produttivi.
Il fatto che un processo di questo tipo possa essere solo rivoluzionario lo spiegano la Storia e gli attuali rapporti di forza mondiali, che vedono gli USA e le potenze imperialiste occidentali impegnate a cercare di contenere con ogni mezzo l’avanzata economica e politica della Cina e dei BRICS. Per anni si è sostenuto che uscire dall’Unione Europea per l’Italia significherebbe rimanere senza partner commerciali, il che rappresenterebbe un grosso problema soprattutto sul fronte energetico. Questo è in effetti uno dei grandi problemi in cui sono incappati storicamente i Governi progressisti del “Terzo Mondo” che intendessero emanciparsi dall’imperialismo. L’Italia non è però un Paese del “Terzo Mondo”, e l’evoluzione verso un mondo sempre più multipolare consente di superare questa obiezione, progettando se necessario una drastica rimodulazione degli accordi commerciali con altre aree del mondo in ascesa. Un fatto, anche questo, reso possibile dalla politica di cooperazione economica “win-win” portata avanti dalla Cina, la quale, non dimentichiamolo, sta prendendo in mano la globalizzazione su scala mondiale. È la Cina, che è guidata da un Partito Comunista che mantiene saldo un controllo politico e macro-economico (seppur nell’ottica di un “socialismo di mercato” inedito per la sua radicalità), che sta consentendo a svariati Paesi del “Terzo Mondo” di emanciparsi dall’arma del ricatto economico usata per mezzo secolo dall’imperialismo occidentale. Solo gli incoscienti possono definire la Cina un Paese imperialista al pari di quelli occidentali in cui il potere economico è saldamente nelle mani del grande Capitale finanziario e quello politico dei “comitati d’affari della borghesia”.
Ai comunisti italiani spetta il compito di capire questi processi e seguire una linea strategica coerente e di classe capace di rilanciare la lotta contro l’imperialismo anche in Italia. L’unica maniera possibile per farlo è ricostruire un’adeguata organizzazione comunista marxista-leninista che si ponga l’obiettivo di ripartire dall’analisi critica dei limiti storici emersi dalla gramsciana “lotta di posizione” per la conquista del potere in Occidente. Qualsiasi altra via non “dialettica”, che preveda la riproposizione meccanicistica e sterile di dogmi o schemi revisionisti è condannata al fallimento. Ci vorranno verosimilmente anni perché il movimento comunista italiano diventi conscio e faccia proprie tali consapevolezze. In questa ottica il progetto “Potere al Popolo” può diventare un esperimento più avanzato rispetto a quelli finora esistiti, per le potenzialità che ha di ricomporre un fronte sociale e politico di classe anticapitalista nel quale portare tale analitica improntata al recupero delle categorie dell’antimperialismo e di un marxismo-leninismo attualizzato e vivificato dalle lezioni storiche offerte dal ‘900 e dalla nuova fase mondiale.
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