Alla veneranda età di sessantadue anni ricevo in regalo per il mio compleanno un corso di scrittura on-line, il cui costo si aggira sui cinquecento euro. Il corso, sulla struttura del romanzo, è organizzato da una fra le più importanti scuole italiane. Forse la più importante, o almeno la più nota. Dopo tre mesi di masturbazioni a distanza si sarebbe infine dovuti andare a ritirare l’attestato presso la Scuola medesima, in una città italiana. Niente di strano fin qui. Ma vi spiego perché parlo di masturbazioni. Premesso che non si impari a scrivere in tre mesi, sia nel caso di lezioni frontali, che on line e premesso che i fondamenti e le fondamenta della scrittura, dell’ortografia, della sintassi, li costruisci e assimili durante il tuo percorso formativo (azzarderei fin dalle elementari), leggendo, scrivendo, sbagliando e correggendo, mi chiedo legittimamente: qual è lo scopo di queste scuole? Cosa formano e cosa ti fanno apprendere? Risposta benevola: niente. Risposta malevola: me la risparmio, è meglio. Vi racconterò pertanto, tentando di rimanere dentro le righe, questa mia esperienza che alimenta le acide riflessioni che leggerete.
Un insegnante – nel loro gergo teacher, o coach – ti spiega come impostare un romanzo nella sua struttura, nella sua gabbia narrativa. Niente di strano, direte voi. Infatti non vi è niente di strano. Ciò che mi ha messo subito in una condizione di irritazione, fastidio, è tutto il contesto. Non potevi, non dovevi uscire da quella gabbia narrativa: nelle tue cartelle dovevi pesare scaletta, trama, personaggi, conflitto (“non esiste narrazione senza conflitto” diceva il coach-teacher; “non esiste vita senza conflitto”, replicavo io), punto d’osservazione degli eventi, voce narrante, numero di scene, luoghi ecc. Poi ci parlava del’incipit, l’attacco del romanzo, di quanto esso fosse importante. Vero, verissimo, l’incipit è fondamentale anche nel giornalismo, non ti insegnano altro nelle redazioni: un incipit vale la lettura del tuo pezzo, da lì il lettore deciderà se continuare a leggere.
Nel romanzo qualche differenza c’è. Non si parla di una notizia calda, ma di una narrazione fredda, per quanto calda possa essere la penna dello scrittore. Nel romanzo l’autore può indulgere a qualche esercizio di stile, nel giornalismo è sconsigliabile, occorre stare sul pezzo, sulla notizia. Ci leggeva così delle introduzioni di scrittori, la maggior parte americani. Ci parlava di fiction televisive quali Mad man per spiegarci la struttura del romanzo. Così ebbi una serie di intuizioni.
Prendiamo degli autori citati nelle lezioni: Richard Yates, Cormac McCarthy, J. R. Moehringer, Joseph Mitchell, Javier Cercas Mena, Phlip e Joseph Roth (gli ultimi due a me molto noti). Mi accorsi che alcuni di questi scrittori avevano ispirato film hollywoodiani: Revolutionary Road è un film tratto dal romanzo di Richard Yates, interpretato da Leonardo Di Caprio e Kate Winslet; Non è un paese per vecchi, con uno splendido Javier Bardem, è anche un film tratto dal romanzo di Cormac McCarthy; L’animale morente e Pastorale americana sono due romanzi di Philip Roth che hanno ispirato altrettanti film e via discorrendo.
Nel forum fra studenti e docente si citavano autori tutto sommato moderni, cosicché primeggiavano scrittori a “stelle e strisce”, i già noti e inflazionati latino-americani, autori dinonsoché, ungheresi naturalizzati americani e il giapponese Haruki Murakami. Conoscevano i cosiddetti moderni ma secondo me ignoravano i pilastri della letteratura; conoscevano Murakami, indubbiamente Ishiguro (Premio Nobel per la Letteratura nel 2017), ma sono certo sconoscessero lo scrittore-vate del Sol Levante: Yukio Mishima. E il teacher-tutor-coach-editor ci propinava lo spagnolo Javier Cercas Mena, quando, diversamente (e sono pronto a scommetterci due delle mie tre palle), ignorava Miguel de Unamuno, pilastro della letteratura iberica. Perché Javier Cercas Mena, mi chiedevo e non altri?
Javier Cercas è un autore politicamente impegnato, che scrive adesso – dopo essere stato segnalato all’editoria da Roberto Bolaño, altro autore di sinistra molto in voga fra i radical chic – un romanzo ogni due anni, tutti ben recensiti dalla stampa progressista. I suoi temi ossessivi (come la “Guerra civile spagnola” e la dannazione della memoria del franchismo) hanno ispirato anche un film tratto dal suo romanzo omonimo, “Soldati di Salamina” (poteva mancare il film?).
E ancora la “Guerra civile” a far da sottofondo a “L’impostore”, dove si smaschera Enric Marco, noto anarchico antifranchista ormai novantenne, che nei fatti ha goduto una fama immeritata ecc. E de “Il sovrano delle ombre”, vogliamo parlarne? La storia di un ragazzo che nel ’36 si arruola nell’esercito di Franco, morendo poi in combattimento “dalla parte sbagliata”. Questo giovane era il prozio materno di Cercas Mena. Due zebedei che non vi dico! Meglio la Corazzata Potëmkin di fantozziana memoria…
Ma ciò che mi parve un’offesa, fu che in quel trasudar di cultura massificata, quella sorta di musica neomelodica napoletana rivestita della patina del best seller e del conformismo di mercato, l’assenza totale di un pur minimo riferimento a David Foster Wallace. Un mito, uno che oggi viene identificato con un acronimo: DFW. Una sorta di Jim Morrison della letteratura per genio e dissonanza culturale. DFW? Non pervenuto. Ma non pervenuti tutti riferimenti letterari sul romanzo storico dell’Ottocento, gli autori chiave dell’Otto-Novecento (eccezion fatta per un riferimento a Kafka), a Tolstoj, Hugo, Flaubert, Dostoevskij. E poi Canetti, Svevo, Mann, Scott Fitzgerald, Faulkner, Conrad, Hesse ecc. Modi diversi di intendere il romanzo, modi diversi di scrivere, modi diversi per essere bagaglio imprescindibile. Gravi omissioni anche rispetto allo stesso Hemingway, alla beat generation.
Il romanzo italiano? Troppo provinciale per aver diritto di cittadinanza, affanculo quindi, quei poveracci di Moravia, Sciascia e Bufalino. Vuoi mettere l’incipit di un autore ungherese fuggito in America a causa del nazismo, o di un cileno nemico di Pinochet, entrambi dai nomi esotici e accattivanti, con uno di Leonardo Sciascia di Racalmuto? Tutto mi parve nell’ottica di un’industria culturale, la scuola stessa traeva la sua linfa da un’ottica commerciale, lontana dalla formazione, inserita nel vacuo mondo della pubblicità, del merchandising, dell’illusione della celebrità. D’altronde, l’uomo odierno è educato alla scuola del conformismo, schiacciato dal bisogno di approvazione e di successo, posso osare con pochi timori di smentita. Poi, una serie di citazioni tecniche rigorosamente in inglese. So anche questo, ci sta in qualche modo.
Però non riuscivo, non riesco e non riuscirò a capire perché mai si debba dire flashback per analessi (rievocazione da parte del narratore di eventi accaduti in un tempo antecedente al presente del racconto) e flashforward per prolessi (anticipazione degli eventi che accadranno dopo il momento presente della storia). E passi pure l’ormai radicato background per dire retroterra socio-culturale, l’insieme di elementi che caratterizzano la storia di un individuo o di un gruppo. Il giullare, il mistificatore, l’imbroglione era rigorosamente il trickster, allo stesso modo colui che muta forma, il portatore di una metamorfosi, era lo shapeshifter. Altra cosa che mi mandava in bestia, era ascoltare in video le parole del teacher-tutor-coach-editor:
Editare in vostri lavori richiede del tempo, li editerò la prossima lezione.
Editare? Purtroppo so anche questo, editare, che tuttavia in italiano dovrebbe essere sinonimo di pubblicare da parte di un editore, veniva ricondotto a editing ovvero cura redazionale di un testo per la pubblicazione, cioè lettura attenta intesa a verificare la correttezza di ortografia, grammatica, sintassi, l’organizzazione strutturale del testo e la sua coerenza interna. Per revisionare i nostri scritti li doveva editare. Io non ci sto.
Mi chiedevo che senso avesse tutto questo. Il senso poi lo trovavi spulciando i profili dei tuoi colleghi. Tutti impegnati in qualcosa, lettori voraci di quei libri cari alla Scuola (diffido dei voraci in ogni variazione di significato del termine); giovani (c’era un liceale), quarantenni che lavorano all’estero come insegnanti di qualcosa, donne che odiano tutto ciò che non parli delle donne come soggetto portante della storia del mondo, la vecchia babbiona (mia coetanea) che non ha un cazzo da fare tutto il giorno e vuole diventare scrittrice; tutti liberi e libertari, chiusi nell’alcova di una cultura accettata dal contesto culturale descritto nei libri. In ogni caso quei libri che ignoravano gli altri libri, cioè quelli che hanno costruito la letteratura, il romanzo, il teatro, la nostra biblioteca spirituale. Quei loro libri che non hanno come riferimento Dostoevskij, Turgenev, Gogol, Balzac, Joyce, Camus, il teatro dell’assurdo, Ionesco, Strindberg, Dürrenmatt, Beckett, Eliot, Sartre, i classici della letteratura.
Il mio maestrovoleva insegnarmi l’importanza del conflitto nella stesura del romanzo. Ma se non conosci gli scrittori tragici (antichi e moderni), il sottosuolo dostoevskijano, il conflitto per eccellenza fra padri e figli (Turgenev, ci sei?), l’apatia esistenziale (Camus), la nausea sartriana, la nevrosi e la sapienza alchemica della scrittura di uno Strindberg (compreso l’Inferno matrimoniale, altro conflitto niente male), il paradosso letterario, di per sé generatore di conflitto, la letteratura fantastica, quella poliziesca e noir, Poe, Lovecraft, Simenon, Conan Doyle, di cosa stiamo parlando? Di Revolutionary Road, della noia coniugale e dell’adulterio, della middle class americana, della recita attraverso i ruoli sociali, dei silenzi e delle ipocrisie di coppia? O dell’aborto, dei tanti temi cari all’americanismo, che con una mano mette le regole (morali, etiche, sociali, economiche) e con l’altra le stritola? Quale scrittura è possibile a un neofita se difetta di conoscenza dei capisaldi della letteratura? Sarà a malapena infarcito di scrittura ideologica e ideologizzata, gli mancheranno le narrazioni storiche, i giochi di prestigio dei grandi romanzieri, il lenocinio dello stile di chi ha fatto dello stile lo strumento per scardinare stereotipi lessicali e culturali.
Ma per fortuna un altro maestro, di ben altro spessore, mi aveva già insegnato come sia difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire. Il mio teacher-tutor-coach-editor (trentacinque anni circa) è entrato subito in conflitto con me. Niente di personale, sia chiaro, ma un abisso ci separava. Egli soleva ricordarmi l’importanza di un incipit e di un finale nella struttura del romanzo, che in ogni caso avrebbe dovuto prevedere anche un conflitto, un personaggio, un antagonista, un cosiddetto “eroe” che intraprende un “viaggio”, e una scaletta, e un piano di lavoro, e una sinossi e una gabbia categoriale che mi stava stretta. Mi chiedevo:
Ma Stendhal, Gogol, Flaubert, Pessoa, Goethe, Musil, quando scrivevano agivano per calcoli di porzioni di spazio manoscritto, scalette, quadri sinottici e altre componenti fissate a priori?
Darsi un metodo, forse, potrebbe essere un metodo per qualcuno, tuttavia ho sempre fatto mio il metodo di non aver un metodo, ecco perché mi sentivo soffocare da quelle lezioni, da quelle scalette, da quell’ambiente verniciato di cultura che nei fatti era il contraltare della mia idea di cultura.
Mi diceva sempre, lui, il maestro:
Sei troppo affascinato dal potere evocativo delle parole.
Io gli rispondevo senza remore:
Più che la storia, che come ogni storia lineare o interrotta ellitticamente diviene ‘simulacro’, mi proporrò attraverso il ‘conflitto per eccellenza’ rappresentato dalla scrittura, dai suoi artifizi, dal suo scardinare sensi, significati, immagini dello specchio del mondo. So che ciò alimenterà i tuoi ‘sospetti’, ma una storia, per essere “vera”, deve essere “falsa”, sennò è melodramma, ripetitività descrittiva. Più “falsifichi” la storia, più è “vera”. Ecco allora il linguaggio scritto che diviene personaggio fra i personaggi, voce narrante per quanto narrata, espediente che rifiuta il simulacro del realismo narrativo.
Mi risparmiavo di ricordargli Flaubert e la sua ricerca de le mot juste, la parola esatta.
Però gli spiegavo:
La scrittura – meretrice che si dà a tutti, anche agli imbecilli e nel contempo sovrana plasmatrice di senso e ragioni, per i più raffinati – si sposa col conflitto. Già, quel ‘Signor Polemos’ che non accetta pacificazioni di sorta.
Resta il fatto che il mio maestro di scrittura, infarcito di americanismo consumistico e di teologia della liberazione latino-americana, non avrebbe potuto mai capirlo: “Giochi con le parole” mi ripeteva ad ogni lezione. “Ci gioco – rispondevo – perché le parole sono essenze che mostrano il mondo più di ogni altro mostrare”.
Me ne fottevo della cultura anglosassone del “mostrare invece di dire”, non avevo fatto un corso di scrittura per imparare a scrivere, o per ascoltare gli anglicismi più stupidi e alla moda. Anglicismi che modificano il tuo modo di pensare e ve lo dimostrerò con un esempio reale. La mia amica Giovanna, letterata finissima il cui modo di esprimersi e di scrivere è l’equivalente dell’orgasmo in un rapporto sessuale, mi raccontava di essere andata da Feltrinelli per comprare (e regalare) “Nebbia” di Miguel de Unamuno. La commessa, sicuramente laureata, lettrice a sua volta, digita sulla tastiera per verificare se il testo sia disponibile e che fa? Digita: “The Unamuno”, anglicizzando goffamente il nome dello scrittore basco. Ne volete più?
L’iscrizione a quel corso per me era stata soltanto un’avventura, come ogni altra cosa nella mia vita, pertanto provocavo il mio tutor-coach-editorapprofittando del potere bastardo della scrittura, conscio che egli non avrebbe capito:
Mostro parlando, mostro celando, mostro omettendo, mostro differendo, mostro graffiando e scorticando i bordi della mia pagina (Barthes), mostro interrompendo lo spazio e il tempo, sovvertendo la loro linearità sequenziale – gli dicevo – mostro soprattutto scrivendo, chiedendo aiuto alle parole. Chi ha più parole ha più mondo, perché potrà mostrarne o occultarne più parti, più spicchi, più fenditure,
ribadivo con l’impetuosità di una lama teutonica. Non sono mai riuscito a fargli capire che raccontarsi è affidarsi, fidandosi (ma anche diffidando), al vortice di ricordi veri o immaginati, al dolore vero o immaginato; scrivere è diventare tutti gli uomini e le esperienze di questa e di altre vite. Scrivere, raccontare, è un sabba cerimoniale che ti consegna alle forze più oscure e melanconiche del tuo inferno nascosto, quelle stesse forze che sovente ti indicano l’incipit e il finale. Attraverso l’alambicco alchemico del linguaggio, della parola, della scrittura.
Unica persona del corso con la quale sono stato in sintonia è una donna, brillante, intelligente, acuta e a lei ho chiesto di inviarmi un commento su quell’esperienza comune. Ve lo riporto affinché lo leggiate:
Mi sono iscritta a un corso di scrittura presso una famosa scuola. L’ho fatto per curiosità, per voglia di apprendere qualcosa divertendomi, per conoscere gente con la mia stessa passione per la lettura e la scrittura. Il risultato è stato deludente. E non lo dico perché mi abbiano detto che non possedessi idee originali e stile, perché, a dire il vero, i miei lavori sono stati anche apprezzati. Ho notato molta ignoranza, falsità, affettazione. Ce ne sarebbe da dire in proposito sulle aberrazioni a cui sono stata costretta ad assistere, ma vorrei porre l’attenzione su un aspetto, che forse mi tornerà utile come argomento di scrittura. Gli alunni del corso: gente ormai affermata nel proprio lavoro, nella propria professione, che stava a elemosinare i complimenti del docente. La loro piaggeria, il loro prostrarsi in modo acritico, con la speranza di una futura pubblicazione, revisionata, magari adulterata, assurgono al grottesco parossismo di diventare un nome. Allora ho capito che i talent scout (e i talent show) televisivi hanno invaso ogni cosa, ogni fetta del nostro mondo, ogni variazione diastratica e diafasica linguistica e sociale e che X Factor è in ognuno di noi. Anche il letterato, che dovrebbe essere libero, controcorrente, ribelle, agogna il successo, il più smodato, il più esagerato. Ed è il paradosso, laddove avremmo bisogno di sentire vibrare le corde più alte della spiritualità o assistere al crollo delle maschere dell’ipocrisia e delle miserie umane, invece di prostrarci ai piedi del primo ignorante di turno issato al ruolo di docente di scrittura creativa.
Ci siamo ritrovati a fine corso, tutti lì, nella sede della Scuola. Tutti abbiamo pagato il biglietto aereo e l’albergo per raggiungere quella città. A parte me e la mia collega della quale ho riportato la testimonianza, gli altri hanno passato il tempo a chiedere come e cosa fare per ‘agganciare’ un editore (vi risparmio un botta-risposta infinito fra studenti e docenti della Scuola). La risposta è stata più o meno questa:
Cercatevi un coach, un editor [dietro lauto compenso] che contatti per voi le Case editrici, diversamente i vostri scritti potrete pubblicarli con degli editori cosiddetti a pagamento, cosa che vi sconsigliamo.
Tutti volevano diventare famosi e ingenuamente credevano che legando il proprio nome a una scuola avrebbero avuto la strada spianata. Ma dalla Scuola è sempre partito un niet, in questo caso debbo dire opportunamente, così come, maliziosamente, potrei dire che la Scuola medesima giochi sull’equivoco. Ma non c’è controprova. La prova invece l’abbiamo per altre cose: se vuoi fare un master biennale in quella Scuola fondata da nomi celebri, celebri editori e celebri imprenditori, devi pagare diecimila euro l’anno. Aggiungendo poi le spese di vitto e affitto in quella città, più altre spese correnti che i fuorisede non possono eludere (bollette, spostamenti urbani, viaggi, imprevisti ecc.), cosicché la spesa per un master salirebbe almeno a ventimila euro annui. Per due anni: quarantamila euro.
Scusate, con quarantamila euro mando mio figlio alla Bocconi, o al Trinity College di Oxford o di Dublino. Io stesso con quella cifra faccio un master a Dublino, dove voleva andare a specializzarsi con una terza laurea (ne aveva due e stava completando un dottorato) mio figlio prima di morire, il quale aveva dedicato la sua vita alla logica e all’epistemologia. Altro che X Factor di letteratura! Potrei raccontarne ancora però mi fermo e fermandomi mi si allarga l’obiettivo sulla pochezza culturale che ho visto in quella Scuola e sulla sindrome dello scrittore famoso che rende stupide le persone, tanto che mi è venuta in mente una definizione in sanscrito cara agli indù: anadhikari vedanta, metafisica degli imbecilli.
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