Ha senso, nel 2018, porsi il problema dell’organizzazione politica? Non si tratta di una vera e propria sfida al senso comune? Tutte le indagini demoscopiche – ma forse basterebbe una breve riflessione sul nostro giro di amicizie, anche tra quelli di noi più attenti alla cosa pubblica – ci parlano della caduta verticale della partecipazione politica. A poco a poco, e con un certo ritardo rispetto alle altre democrazie liberali occidentali, il fenomeno dell’allontanamento delle generazioni giovani e meno giovani dalla politica si sta traducendo anche in un rifiuto del mero gesto elettorale una volta ogni quattro anni. Il sentimento dilagante è quello dell’inutilità della politica: ben che vada si tratta di un rifiuto di questa politica, accompagnato però dalla coscienza dell’ineluttabilità dell’assenza di ogni cambiamento ipotizzabile; più spesso è presente la convinzione che non esistano soluzioni di sistema alle questioni generali per l’oggi, ma solo vie di fuga individuali per la propria condizione subalterna.
Si fa, magari, volontariato. Ma, a ben vedere, alla radice di un pur nobile impegno vi è spesso la sfiducia nello Stato in quanto collettività organizzata. Un fenomeno che, paradossalmente, ha le proprie radici in una assenza e non in una completezza di senso civico.
Il sentimento pervasivo di inutilità della politica è un serpente che si morde la coda, che alimenta il divorzio dei subalterni dalla politica e che ne è a sua volta alimentato. Si è pertanto potuto assistere, specialmente nel passaggio dalla prima alla seconda repubblica, all’espulsione del popolo dalla rappresentanza politica diretta. Le assemblee elettive sono dominate dalle oligarchie; ed in funzione dell’interesse esclusivo delle oligarchie, di conseguenza, legiferano. I grandi partiti popolari, specialmente quelli della sinistra, finché hanno saputo svolgere un ruolo democratico, hanno creato dalle viscere del popolo una classe dirigente nuova, vicina ai bisogni della gente comune e pronta a schierarsi dalla loro parte nei conflitti coi potenti. Schiere di operai, braccianti, mezzadri, garzoni, piccoli artigiani, sono diventati consiglieri comunali, assessori, sindaci, parlamentari, e talvolta anche ministri. E dirigenti di quegli stessi partiti. Una volta entrata in crisi questa funzione storica rivoluzionaria dei partiti, le assemblee legislative, specialmente quelle a più alta remunerazione, sono state popolate (e spolpate) da industriali, finanzieri, azzeccagarbugli al servizio dell’oligarchia; o, in alternativa, da giovani ambiziosi che hanno visto nella politica una via alla perpetrazione del proprio status sociale in epoca di crisi degli sbocchi tradizionali per la classe media; e, in conseguenza, sempre pronti a dir di sì e a ingoiare qualsiasi rospo, poiché dai capicorrente dipende il loro avvenire.
I ministeri, allo stesso tempo, sono stati appaltati ai cosiddetti “tecnici”. Che poi tecnici non sono, perché rispondono a logiche politiche, quelle però dell’interesse particolare dei potenti. La stessa lingua della politica ne è risultata corrotta: si pensi al caso dell’economia, la spiegazione delle cui presunte oggettive necessità è stata messa al riparo di una selva di formule matematiche spesso oltretutto sbagliate, ma utili a nascondere elementari rapporti di potere e di subordinazione. Eppure, ancorché all’ombra di questo quadro e tinte fosche, ed anzi proprio in virtù di questo quadro a tinte fosche, la risposta al quesito di partenza è sì, anzi, oggi più che mai è necessario porsi il problema dell’organizzazione politica. Che significa porsi il problema della militanza, ed in conseguenza della formazione di nuove classi dirigenti.
La militanza otto-novecentesca ha goduto forse di condizioni irripetibili. La sostanziale stanzialità dei subalterni, che spesso passavano l’intera vita lavorativa e sociale all’interno della stessa città, quando non dello stesso quartiere, anche se magari in seguito ad una migrazione. Luoghi e tempi del conflitto sociale, della militanza politica e della vita associativa e familiare finivano spesso per coincidere. Socializzazione politica e umana avevano aspetti di grande contiguità – l’osteria, a cui poi si è sostituita la casa del popolo. Un orizzonte di senso dovuto all’esistenza di grandi progetti di trasformazione che cementavano un sentimento di appartenenza – si pensi al ruolo della rivoluzione russa in questa direzione. Ed anche giocavano un ruolo gerarchie familiari stabili, per cui spesso (con le dovute eccezioni) la militanza “assoluta” del ventesimo secolo è stata un fenomeno maschile, reso possibile dalla disponibilità della donna a creare le condizioni materiali non solo per la riproduzione familiare, ma anche per la militanza del marito/compagno.
Ma anche in un contesto fortemente mutato come quello odierno non è venuta meno la necessità per i subalterni di creare strumenti in grado di permettere loro di contendere l’egemonia statale alle classi dominanti tradizionali. Perché queste ultime dispongono delle televisioni, della magistratura, delle banche, dei partiti patrimonialisti, ed attraverso questi canali possono creare una classe dirigente in grado di servire i propri interessi. Il popolo deve creare al suo interno i propri canali di apprendimento, di formazione, i propri strumenti attraverso i quali “farsi Stato”, o comunque contendere lo Stato all’oligarchia.
Ed infatti i nuovi partiti politici che sono sorti a partire dalla crisi economica del 2008 dimostrano che, lungi dal non essere necessaria, l’organizzazione politica è una delle questioni chiave nel nuovo millennio. Ma che al tempo stesso le forme di organizzazione sono profondamente diverse da quelle del Novecento. Guardando a formazioni come Podemos in Spagna, il Movimento 5 Stelle in Italia, France Insoumise in Francia, e Momentum in Gran Bretagna, assistiamo a una radicale ridefinizione della forma partito, rispetto ai modelli organizzativi classici, a partire da quelli del “partito massa” che continua a essere visto da molti nostalgici come il modello eterno dell’organizzazione politica.
Il partito massa, la tipologia di partito che ha caratterizzato i partiti socialisti e comunisti del Novecento, si basava su una struttura di integrazione verticale a diversi livelli, che seguivano la logica della delega. Al livello più basso la sezione, che eleggeva delegati che andavano nella direzione della federazione provinciale, e infine nell’assemblea nazionale. Questo tipo di struttura rispondeva all’impossibilità tecnica in un’era pre-digitale di convocare direttamente gli iscritti a partecipare nell’assemblea nazionale. Per ovviare a questo problema i membri eleggevano a livello locale delegati che dovevano poi rappresentarli ai livelli più alti. La struttura locale, che si chiamasse sezione come nei partiti socialisti, o cellula come nel caso dei partiti comunisti, era dunque una struttura di rappresentanza, e di fatto anche a questo livello si celebravano congressi, campagne ed elezioni.
Nella nuova forma partito di Podemos, 5 Stelle, France Insoumise, Momentum e molte altre formazioni questa struttura complessa di rappresentanza locale, di delega e di mediazione viene a saltare. I gruppi locali non sono più strutture di rappresentanza, ma gruppi di appoggio. Essi non eleggono delegati che rappresentano i membri ai livelli più alti della struttura partito. Piuttosto sono i membri direttamente che partecipano nelle decisioni e nelle votazioni, attraverso il loro intervento su “piattaforme partecipative”, sistemi decisionali online che consentono agli iscritti di intervenire su diverse questioni. Il sistema della piattaforma partecipativa ha diversi limiti, particolarmente evidente nel caso del Movimento 5 Stelle e della sua piattaforma Rousseau, che si è prestata a diverse forme di manipolazione. Tuttavia, non si può negare che la piattaforma partecipativa costituisca una innovazione organizzativa di enorme interesse, in quanto ovvia almeno in parte a un problema che per lungo tempo veniva considerato insormontabile dai critici della democrazia diretta, ovvero il problema del luogo decisionale, la necessità delle persone di essere tutte nel medesimo luogo fisico per partecipare al processo decisionale. In questa struttura pressoché tutte le decisioni fondamentali vengono prese direttamente a livello nazionale, senza un processo decisionale a livello locale che poi va a alimentare i livelli superiori.
A parte le nuove opportunità offerte dall’innovazione tecnologica, e il superamento del problema del luogo decisionale, la ridefinizione della struttura di rappresentanza locale ha anche a che fare con una serie di considerazioni di opportunità. In primo luogo essa deriva dalla percezione che la struttura classica di partecipazione dei partiti di massa, con sedi fisiche, e riunioni periodiche non è in grado di rispondere all’esperienza sociale di una società in cui gli individui hanno tempi e ritmi imprevedibili e spesso difficilmente conciliabili, e in cui l’impressione di “non avere tempo” spesso frena le persone dal partecipare a riunioni politiche. Essa deriva pure dalla percezione che in un periodo di bassa partecipazione chi partecipa assiduamente alle riunioni fa parte di un’aristocrazia militante e presenzialista che non è rappresentativa dei movimenti di riferimento, e che perciò rischia di creare distorsioni nei processi decisionali. È indicativo il modo in cui Momentum ha abbandonato il sistema di rappresentanza locale, dopo essersi reso conto di essere stato infiltrato da delegati appartenenti al gruppo trotzkysta Alliance for Workers Liberty. Un gruppo composto da poche centinaia di membri, ma così ostinati nel partecipare alle riunioni e nel candidarsi al ruolo di delegati da riuscire a prendere il controllo di un movimento composto da decine di migliaia di persone, su posizioni piuttosto diverse da quelle di un gruppo trotzkyista. Questa è pure la ragione per cui Podemos, in mezzo a mille polemiche, ha deciso di trasformare i circoli in strutture flessibili e assembleari piuttosto che in sezioni formalizzate. Proprio per la percezione che i circoli avrebbero rischiato di non essere rappresentativi della base. Lo stesso vale per France Insoumise, dove i gruppi locali sono stati chiamati groupes d’appui, ovvero gruppi di appoggio piuttosto che nuclei di rappresentanza.
In queste forme-partito assistiamo a un doppio movimento. Da un lato esse rafforzano la base degli iscritti e il potere della leadership. Dall’altro esse tolgono potere ai livelli intermedi di rappresentanza che vengono percepiti da larghi strati della popolazione come meccanismi opachi in cui si vanno a inserire dinamiche di competizione interna, e intrighi che non possono essere controllati dall’opinione pubblica, e che generano meccanismi distorsivi se non direttamente corruttivi; oltre a dinamiche correntizie che forse più di ogni altra cosa hanno contribuito a generare sfiducia nella politica. L’idea di fondo è che la leadership sarà pure aperta a dinamiche autoritarie o involutive. Ma quantomeno, data la sua pubblicità e visibilità, è sotto il controllo della base e dell’opinione pubblica. Può quindi essere oggetto di monitoraggio e pressione, mentre quello che succede nei livelli intermedi è opaco e quindi foriero di tendenze anti-democratiche e di bizantinismi di ogni sorta. Questi nuovi partiti sono anarchici alla base e centralisti al vertice. Essi cercano di essere il più aperti possibile alla società, eliminando per quanto possibile la barriera tra dentro e fuori il partito, al punto che i loro gruppi locali ricordano le assemblee di movimenti popolari come gli indignati, e le decisioni vengono spesso prese per consenso e raramente per votazione per evitare quelle dinamiche correntizie che hanno rappresentato la degenerazione dei partiti del Novecento. Ma al tempo stesso riconoscono la necessità di una leadership forte e di essere tutti uniti nello stesso sforzo.
Questa nuova forma partito post-crisi è lungi dall’essere perfetta. Il superamento della struttura di rappresentanza locale può sollevare problemi di radicamento a livello territoriale, come pure prevenire lo sviluppo di un percorso politico coerente per la classe dirigente, a partire dal livello locale per salire progressivamente a livelli più alti. Tuttavia è un assetto organizzativo che risponde al problema della crisi della democrazia e della democrazia interna nei partiti. Il vecchio formato della sezione locale e della riunione del mercoledì è evidente che non riesce più a rispondere alla trasformazione dell’esperienza sociale, in un tempo di estrema frammentazione sia temporale che spaziale. In secondo luogo esso risponde se non alla riluttanza a dare delega al livello più alto, a quel rifiuto dell’intermediazione, e quel sospetto degli strati intermedi che è una cifra della crisi di autorità che stiamo attraversando. All’interno della quale possiamo trovarci non perfettamente a nostro agio, ma della cui pregnanza non possiamo non prendere atto. Dunque la grande sfida organizzativa consiste nel dare corpo a questo nuovo modello, assicurando, oltre all’agilità che esso sicuramente possiede, anche robustezza, e la capacità di resistere ai momenti di calo della partecipazione, che sono stati una condanna a morte per molti “movimenti leggeri”, sia nel campo dei movimenti di protesta che nei partiti politici.
Abbiamo bisogno di organizzazione. Ma le forme di organizzazione non possono essere identiche a quelle dell’era industriale. È necessario costruire forme di organizzazione estremamente agili, aperte alla partecipazione degli iscritti e al tempo stesso coordinate dall’alto. Costruire un partito che sia simile agli insetti pattinatori dalle lunghe gambe e dal corpo leggero che consente loro di camminare sull’acqua.
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