Un No-global a tutto tondo
di SINISTRA IN RETE (Antonio Castronovi)
Il 20 gennaio di un anno fa ci ha lasciati Bruno Amoroso, economista e saggista italiano, allievo di Federico Caffè (qui gli articoli inviati a Comune). Per ricordarlo pubblichiamo questo articolo (titolo originale Mondializzazione e comunità, lavoro e bene comune in Bruno Amoroso), uscito in Ciao Bruno (Castelvecchi) di Antonio Castronovi
Quelli che sono in alto hanno dichiarato guerra ai popoli. Come resistere, come ricostruire comunità solidali passando “dalla cooperazione per competere” alla “competizione per cooperare” per dirla con Bruno Amoroso? La priorità, al tempo della globalizzazione, dovrebbe essere liberare territori e comunità. “La globalizzazione non è un fenomeno oggettivo della modernizzazione, è una forma contingente assunta dal capitalismo – scrive Amoroso -, uno stadio particolare ed eventualmente, il suo ultimo stadio. È il capitalismo nella sua forma più maligna, poiché si diffonde come una forma tumorale; come una metastasi si concentra su poche aree strategiche, … sul resto enormi effetti distruttivi. Con buona pace delle moltitudini di Toni Negri e dei new-global della globalizzazione buona…”. Mondializzazione, comunità, bene comune: un viaggio nel pensiero di Bruno Amoroso
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“Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili” (Bertolt Brecht, In morte di Lenin).
Da alcuni anni, anzi decenni, è in corso nel mondo una guerra che è stata definita come “terzo conflitto mondiale”. I protagonisti ne sono le élite globali del capitalismo triadico che la combattono – con gli strumenti della guerra democratica, della politica, del terrorismo, della guerra economica e delle guerre di religione – contro i popoli, gli stati sovrani, le comunità locali che non intendono sottomettersi ai diktat della omologazione del mondo ai dettami dell’impero globale.
Non ci sarebbe posto nel mondo globalizzato per i popoli e le comunità che praticano la sovranità nei loro territori, che aspirano a vivere in territori deglobalizzati e liberi dal dominio delle transnazionali e della finanza, che aspirano alla sovranità politica ed economica, orientate e centrate sullo sviluppo locale, sull’autodeterminazione, sulla democrazia sovrana. Lo scontro in atto è tra fautori di un mondo unipolare e fautori di un mondo multipolare. Questa guerra distrugge e disintegra stati, nazioni, popoli ed economie locali e nazionali attraverso le guerre democratiche e religiose, la depredazione delle risorse pregiate, il monopolio e la privatizzazione della conoscenza e attraverso le migrazioni forzate di milioni di disperati e profughi ambientali, di guerre e di conflitti religiosi, verso altri paesi, specie europei.
Come affrontare il presente stato del mondo? Come schierarsi in questo immane conflitto che divide e supera le antiche contrapposizioni tra destra e sinistra? Schierarsi dalla parte della globalizzazione, universalizzando i diritti umani contro i nazionalismi e i “vecchi” Stati-Nazione, oppure dalla parte dei no-global e propugnare una de-globalizzazione del mondo, difendendo spazi di sovranità di popoli e comunità in un quadro di nuova solidarietà e cooperazione reciproca per rispondere alla sfida della mondializzazione? Come si ricostruisce una comunità solidale passando “dalla cooperazione per competere” alla “ competizione per cooperare” per dirla con le parole di Bruno Amoroso?
Come affrontano questi dilemmi l’opera e il pensiero di Bruno Amoroso? Sono convinto che per rispondere a queste alternative, sfuggendo da tentazioni new globaliste, occorra sporcarsi le mani e interrogare e attraversare i vari populismi, nazionalismi, sovranismi, l’opposizione popolare all’immigrazione, le domane identitarie, le comunità ribelli, e interpretarli come forme, anche se non tutte accettabili, della attuale resistenza alla globalizzazione.
La parola d’ordine prioritaria dovrebbe essere quella di “liberare” territori, comunità, nazioni, popoli dal potere globale e dalle sue influenze locali: è l’ ”agire locale e pensare globale” del primo movimento no-global. La rivoluzione, che in parte è già in atto in forme a noi estranee, sarà innanzitutto politica e non economica, e sarà dei popoli contro la attuale globalizzazione e i suoi poteri. I lavoratori, orfani della classe e del partito operaio e rivoluzionario – illusi prima e vittime poi del fallimento dei miti del progresso e della rivoluzione proletaria – devono provare a fare e a farsi popolo e mettersi alla testa o comunque diventare parte del movimento di resistenza nelle comunità, nei territori, nelle nazioni, contro il dominio della globalizzazione. Il fronte del conflitto nel mondo oggi passa, infatti, nella divisione tra globalizzatori e antiglobalizzatori, tra unipolaristi e multipolaristi, che destabilizza le antiche divisioni tra destra e sinistra storica incentrata sul conflitto capitale-lavoro, e su quello democrazia-autoritarismo. “La lotta alla globalizzazione – afferma Amoroso – non viene dal centro, dalla destra o dalla sinistra, ma da forze trasversali, in quanto le vecchie divisioni non rappresentano più i poli del conflitto” (Per il Bene Comune). Esistono, infatti, oggi nel mondo una destra e una sinistra sia globalista che antiglobalista. La sinistra globalizzatrice parla di diritti universali ed è antisovranista e cosmopolita come le élite globali. La sinistra no-global aspira e lotta invece per un mondo multipolare che cooperi fra popoli, stati, regioni, nazioni, comunità per una economia sostenibile e solidale radicata nei territori e nelle comunità sottratti al dominio e al controllo delle grandi multinazionali e governati da popoli sovrani. Il disegno dei globalizzatori liberisti è il dominio sul mondo, regolato da un solo potere, quello delle transnazionali e dei loro organi, senza stati sovrani ma frantumati in protettorati divisi tra loro per linee etniche e religiose, per poter essere più facilmente dominati. Non c’è posto in questa visione del mondo per grandi Sati meso-regionali come la Russia, la Cina, l’India, per l’Europa politica e federata, perché troppo grandi e perché ostacolano il potere e il pieno dispiegarsi degli interessi dei globalizzatori e dei loro stati-guida, USA e Gran Bretagna. Il sovranismo è una bandiera in prevalenza delle élite locali e statali di destra tradizionale, non inserite fra le élite globali, che resistono alla omologazione e alla distruzione della loro sovranità minacciata. Questi Stati vengono additati come stati-canaglia e antidemocratici, quindi da destabilizzare anche attraverso le “guerre umanitarie” o condotte per procura, oppure attraverso rivoluzioni finanziate ed orchestrate dalle élite globali, come le cosiddette “rivoluzioni colorate”.
Penso, senza tema di sbagliare, che Bruno Amoroso sia stato tra i più convinti e combattivi sostenitori di una lotta senza tregua alla globalizzazione e ai suoi apologeti, che lui ha definito come progetto criminale. Così lui la descrive: “La globalizzazione non è un fenomeno oggettivo della modernizzazione, è una forma contingente assunta dal capitalismo, uno stadio particolare ed eventualmente, il suo ultimo stadio. È il capitalismo nella sua forma più maligna, poiché si diffonde come una forma tumorale; come una metastasi si concentra su poche aree strategiche, ..sul resto enormi effetti distruttivi. Con buona pace delle moltitudini di Toni Negri e dei new-global della globalizzazione buona” (Persone e Comunità). Citando K. Galbraith (Lo Stato Predatore) definisce, ne Il Bene Comune, criminale e predatorio il sistema della globalizzazione: “Lo stato industriale – scrive Galbraith – è stato sostituito dallo stato predatorio, una coalizione di instancabili oppositori ad ogni idea di interesse pubblico che ha lo scopo di controllare la struttura dello stato per dare potere a un’alta plutocrazia provvista solo di obiettivi immorali e di rapina”.
Lui è stato, senza dubbio alcuno, un no- global a tutto tondo!
Mondializzazione e comunità
C’è una domanda e un bisogno di comunità crescente nel mondo, anche nei paesi che hanno vissuto le stagione dell’abbondanza e della ricchezza e che soffrono oggi i morsi della crisi e dell’emarginazione progressiva dal nucleo dei paesi più forti delle economia della Triade. Questa domanda e questo bisogno trovano risposte diverse e non sempre piacevoli e condivisibili – il ritorno alla sovranità, alla Stato-Nazione, al nazionalismo o alle comunità e alla cooperazione fra Stati – ma hanno un comune carattere: contestare e contrapporsi alla globalizzazione dei vincenti. Tardano invece a trovare risposte da parte delle culture e del pensiero della vecchia sinistra sociale e politica. Anzi, a tale bisogno di ricucitura dei legami comunitari, distrutti dal capitalismo globalizzato, si risponde in prevalenza con le categorie dell’universalismo e dei diritti universali, rinnegando o avversando queste aspirazioni alla sovranità e alla comunità delle popolazioni – derubricate come populismi – spingendo così questo legittimo bisogno di sicurezza popolare verso ideologie e pratiche razziste ed identitarie. Chi ha conosciuto Bruno sa che spesso le sue posizioni eretiche in politica potevano procurare “scandalo” per le preferenze da lui spesso accordate a posizioni antisistemiche, rispetto a quelle politically correct, quando erano orientate a contrastare l’oligarchia finanziaria europea o a difendere il capitalismo nazionale.
Bruno non avrebbe certo disdegnato di autodefinirsi “populista” o di polemizzare contro quelli che etichettano i vari populismi come proto-fascismo diventato questo, purtroppo, uno slogan semplificatorio di una certa sinistra rivoluzionaria globalista nonché della vecchia sinistra neo-liberista dal “volto umano”, che osteggiano come “sovranisti” quelli che vogliono ricostruire comunità riunificando le comunità frantumate dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione capitalistica e che sostengono la necessità che popoli e territori lottino per riconquistare autonomia scollegandosi dal mercato globale. È, questa, una sinistra incapace di distinguere fra mondializzazione dei mercati (tendenza insita nella natura del capitalismo fin dalle sue origini) e globalizzazione, che è la forma assunta dal capitalismo triadico contemporaneo. Senza comprendere o voler comprendere che la globalizzazione è la risposta delle élite dominanti dell’occidente al processo di mondializzazione e all’ingresso di popoli e paese nuovi (Cina e India, e non solo ) nell’economia e nel mercato mondiale he si vogliono invece ingabbiare ed escludere dallo sviluppo. Confusione che porta a esaltare sia la globalizzazione come apportatrice di benessere per i popoli del mondo per la sua presunta capacità di liberarli dalla miseria e dall’indigenza, e sia il cosmopolitismo come forma suprema della moderna libertà!
Devo confessare un certo fastidio, per non dire rabbia, verso l’ideologia cosmopolita del nomadismo e la sua esaltazione acritica da parte di questa sinistra. Nel futuro saremo davvero tutti apolidi? L’ideologia del nomadismo ci racconta che siamo tutti cittadini del mondo. Sarà vero? O si dimentica che il 99 per cento dell’umanità è per sua natura stanziale e che il nomadismo e l’emigrazione sono una tragedia, una rottura forzata con la propria storia e cultura, con le proprie radici, con le amicizie, con gli affetti e con la famiglia, una lacerazione profonda nella identità che provoca spaesamento e sofferenze? È questo il lato oscuro del cosmopolitismo che viene nascosto in questa narrazione edulcorata del nomadismo! Ma chi sono i veri cittadini del mondo? Adam Smith, il fondatore dell’economia classica, ce lo spiega ne La Ricchezza delle nazioni: “Il possessore di capitali è propriamente un cittadino del mondo e non è necessariamente legato a nessun paese particolare. Egli sarebbe pronto ad abbandonare il paese in cui è stato esposto a una indagine vessatoria per l’accertamento di un’imposta gravosa e trasferirebbe i suoi fondi in qualche altro paese dove poter svolgere la sua attività o godersi la sua ricchezza a suo agio”. Il cosmopolitismo è oggi una ideologia costruita su misura per le élite del capitalismo globalizzato, per quell’1 per cento che si considerano “cittadini del mondo” ma senza gli obblighi che la cittadinanza normalmente comporta. È l’ideologia della libertà irresponsabile.
Ma “senza comunità non c’è libertà – ci ricorda Bruno Amoroso in L’apartheid globale – ma solo la concorrenza di tutti contro tutti. Proprio le spinte disgregatrici della globalizzazione rendono urgente ridefinire il concetto di comunità. Il primo elemento costitutivo della comunità è la popolazione. La globalizzazione immagina sistemi di società in cui la popolazione non serve, non ha ruolo. Le economie si delocalizzano rispetto alla gente di cui non hanno bisogno oppure trasferiscono altre persone da altre comunità all’interno del paese. Non esiste comunità senza popolazione. Il secondo elemento è il territorio, il radicamento della popolazione nel territorio. La caratteristica principale della globalizzazione, invece, è la de-territorializzazione: il territorio non conta perché si può produrre ovunque… Altro aspetto fondamentale della comunità sono le istituzioni, basate su forme di rappresentanza dal basso di persone saldamente ancorate al territorio. La globalizzazione distrugge il sistema istituzionale esistente e lo evolve in forme tecnocratiche di rappresentanza”.
Bruno Amoroso è stato un fervente sostenitore dell’idea e del progetto di costruzione di comunità.
In Memorie di un intruso è narrato lo svilupparsi del suo senso della comunità a partire dalla sua precoce militanza nella sezione del Pci di Donna Olimpia a Monteverde, che si esplicava con la sua attitudine a coniugare la militanza politica con forme di vita collettive e di svago. Per lui “comunismo” non era solo espressione di un’adesione ideale ma di una “empatia che trasformava il gruppo in comunità” e la vita culturale della sezione era animata: si ospitavano gruppi teatrali e il “teatro di massa” e le persone del quartiere partecipavano con grande passione alle domeniche del ballo, alle gite, alle feste, alle attività sportive, alle cene collettive. Combinare militanza, amicizia, affetti era l’essenza del suo fare comunità che gli valse una crescente ostilità nel partito che le considerava estranee e nocive all’impegno politico.
Scrive Bruno in Persone e Comunità: “La comunità è una costruzione umana e sociale. Il locale è la comunità. La sua dimensione è variabile. La cellula fondamentale è la persona e il suo nucleo di appartenenza (la famiglia, gli amici). Questi diversi nuclei s’intrecciano tra di loro come anelli olimpici e formano la comunità. Essa è fortemente connessa a un determinato territorio e con forte identità culturale. Questo spazio vitale scopre il bisogno di organizzarsi per far fronte alle sollecitazioni esterne della mondializzazione e della globalizzazione. Alla mondializzazione la comunità risponde, per far fronte alla crescente interdipendenza delle varie comunità, con politiche di cooperazione e solidali nel campo sociale, ambientale e nell’uso delle risorse (gli anelli e le reti della solidarietà). Alla globalizzazione, alla quale non ci si può opporre col localismo, (la comunità risponde) con strutture nazionali di cooperazioni tra Stati della medesima meso-regione per proteggere le comunità dalle forze omologanti della globalizzazione”.
Questa concezione della comunità penso debba molto al progetto di Stato comunitario, propugnato da Adriano Olivetti e illustrato nel Manifesto programmatico di Comunità nel 1953: “Lo Stato comunitario… fondato sulla integrazione armonica delle forze del lavoro e della cultura con quelle della democrazia, su una proprietà socializzata e radicata agli Enti territoriali autonomi (le Comunità), insisterà sulla tradizionale separazione dei poteri e sul principio di un nuovo integrale federalismo interno, inteso nel senso di equilibrio di autonomie tra periferia e centro”. Visione, questa, coniugata alla “necessità di concentrare gli sforzi in favore del superamento degli Stati nazionali interamente sovrani e in favore della costituzione di ordinamenti giuridici superiori, federazioni continentali o sub continentali”. La Federazione europea, che Olivetti auspicava, “darà all’Europa autonomia e salvezza, ma ciò stabilmente per sè e in modo esemplare per gli esterni, solo se federazione è intesa nel senso integrale di decentramento assoluto, di autonomia generale anche nei confini degli Stati, di articolazione politica e amministrativa antimonopolistica in ogni senso”.
La costruzione di un’alternativa al capitalismo globale si fonda per Bruno proprio su un progetto di alleanze solidali di comunità, di paesi, di nazioni (le meso-regioni), di tipo federalista, che restituiscano loro la possibilità di scegliere le proprie forme di organizzazione economica, sociale e politica in una configurazione policentrica e plurale del mondo.
La rifondazione delle comunità in un quadro di mondializzazione è la risposta all’affermarsi della globalizzazione come sistema dell’apartheid globale del capitalismo triadico dei paesi ricchi contro il resto del pianeta. Lui guardava alla modernità non dalla prospettiva dei globalizzatori, ma da quella delle ”comunità e dei villaggi del mondo per sette miliardi di persone”.
Fare comunità e “risocializzare” lo Stato, passare dallo “Stato del Benessere” alla “Società del Benessere”, questo è stato il suo programma e il filo rosso della sua elaborazione.
Bruno Amoroso e il sindacato
Bruno Amoroso è stato in vita un attento e acuto studioso e osservatore delle trasformazioni dell’economia-mondo e dei sistemi sociali, in particolare di quelli scandinavi, nonché del movimento sindacale e del suo ruolo nel sistema produttivo e nello Stato del Benessere. Fin da giovane, da militante comunista, da osservatore e partecipe delle vicende sindacali della Manifattura Tabacchi in cui lui lavorò per un breve periodo – del cui sindacato suo padre Pelino fu segretario nazionale nella Cgil unitaria – mostrò una capacità straordinaria di saper cogliere la natura e l’essenza delle questioni in campo. Comprese in anticipo sui tempi la deriva burocratica in cui stava scivolando il sindacato con la decisione verticistica del PCI e della Cgil, non più unitaria, di sopprimere la Federazione sindacale dei Monopoli di Stato per accorparla alla Federazione degli Statali – con l’umiliante e cinica estromissione del padre dalla direzione del sindacato – e colse con lucida preveggenza l’errore della scelta dell’americanizzazione del sistema produttivo nazionale che anche il PCI e la Cgil a loro modo sostennero.
La Manifattura Tabacchi a Roma con le vicende sindacali dell’epoca a cui suo padre partecipò, furono il companatico quotidiano di cui si nutrì la sua formazione e la sua concezione del sindacato che “trasforma gli interessi corporativi e i bisogni diversi in un progetto comune di organizzazione aziendale ispirato alla solidarietà verso i più deboli”. Bruno ricorda che suo padre era solito “saggiare le sue tesi politiche, o le sue relazioni per convegni o congressi discutendone in famiglia, sul tavola di cucina fino a tarda notte e questa fu in parte – racconta – la nostra scuola”. Non amava Bruno i sindacalisti col sigaro e la sigaretta e poi quelli con la pipa. Lui amava i sindacalisti alla Di Vittorio che diventarono comunisti per esperienza di vita famigliare e di povertà e non per scelte ideologiche o per ambizioni politiche e di carriera personale. Bruno riporta in Memorie di un intruso una risposta di Giuseppe Di Vittorio alla domanda di un giornalista sul perché fosse diventato comunista: “Da bambini – rispose Di Vittorio – le nostre mamme lavoravano sui campi dei padroni dall’alba alla sera per la raccolta della frutta, ed erano costrette a portarci con loro. Noi venivamo deposti intorno ad un albero e i ‘caporali’ ci mettevano la museruola per essere sicuri che non mangiassimo la frutta. Io sono uno di quei bambini ed è per questo che sono diventato comunista”.
Bruno era stato un convinto assertore dell’unità del sindacato e del mondo del lavoro contro le rotture che intervennero nel 1948, ma anche della sua autonomia come motore di una alleanza popolare più vasta con il ceto medio e i vari e diversi settori produttivi della società che lui auspicava anche in polemica contro le tendenze opposte che avanzavano nel partito e nel sindacato.
L’americanizzazione delle forme di produzione e consumo. Il fordismo e il post- fordismo
Bruno Amoroso è sempre stato un critico avveduto del processo di “americanizzazione” delle forme di produzione e consumo introdotti in Italia dopo la liberazione e che improntò il miracolo economico del dopoguerra con una forte crescita e sviluppo del sistema industriale incentrato sulla grande impresa e con un forte incremento dei consumi popolari. Il prezzo pagato per questo tipo di sviluppo sono inscritte nelle devastazioni del territorio, nella crescita abnorme delle città, nello spopolamento dei piccoli centri e nel biblico flusso migratorio da Sud verso il Nord che svuotò le campagne in pochi anni di oltre due milioni di addetti.
Nel dibattito all’interno del PCI e del Sindacato convivevano due Italie: quella di Emilio Sereni che indicava una via alla modernità che includesse il mondo rurale e contadino, e quella di Manlio Rossi Doria che spingeva per una più spinta applicazione del modello fordista della grande impresa da estendere anche alla produzione agricola, per incrementare la produttività del settore.
La sinistra e il sindacato abbracciarono il modello di produzione fordista contrastando le posizioni di Emilio Sereni e il modello “ comunitario” propugnato da Adriano Olivetti.
Il convegno dell’Istituto Gramsci del 1962 sulle Tendenze del capitalismo italiano legittimò teoricamente questa scelta on l’illusione che questo salto forzato nello sviluppo sarebbe stato ricambiato con una maggiore partecipazione dei lavoratori alla spartizione dei dividendi dello sviluppo illimitato e del crescente profitto. Il sindacato fu così ridisegnato sul modello della grande impresa fordista, abbandonando il sindacalismo popolare e confederale di Di Vittorio, per il nuovo sindacalismo contrattualista e verticale degli anni 60-70, che godette dell’introduzione dell’istituto della contrattazione articolata con i contratti del 1962.
Scrive in Persone e Comunità: “Il paradigma fordista (grande impresa, economia di scala, consumi di massa, organizzazione taylorista del lavoro) fu immediatamente percepito come il paradigma della modernizzazione assunto passivamente anche dai sindacati e dai partiti operai, socialisti e comunisti. Il suo effetto fu la distruzione delle pluralità dei sistemi produttivi e dei saperi locali, dei territori e delle città, l’emigrazione di massa, il declino dell’artigianato tradizionale, lo spopolamento delle aree interne montane e collinari, l’abbandono delle campagne, l’americanizzazione dell’agricoltura e la fine delle società rurali”, che fornì con gli esodi biblici dalle campagne del sud la manodopera necessaria per l’impresa fordista del Nord industrializzato. E così prosegue: “Tutta l’organizzazione della società e delle città ruota attorno alla fabbrica capitalistica e la serve. Le strategie sindacali e loro strutture organizzative furono ridisegnate sul modello della produzione di massa e delle economie di scala del fordismo. Partiti e sindacato della classe operaia videro nella crescita accelerata della classe operaia fordista e nel proletariato agricolo e bracciantile – formatosi con la crisi della famiglia e dell’impresa contadina – il formarsi delle forze che avrebbero messo in crisi il capitalismo. Il mito dello sviluppo infinito e del progresso sotto il segno dell’industrialismo segnò una stagione di lotte e di rivendicazioni del movimento operaio che arrivò a toccare livelli di consumi e di benessere materiale mai raggiunti nella storia, né prima e mai più dopo. L’altra faccia nascosta di questo progresso fu, come denunciava un inascoltato Pasolini, l’integrazione della classe operaia nel meccanismo distributivo e la sua omologazione culturale in quello della mercificazione consumistica”.
L’abbandono del modello di produzione fordista, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, da parte del capitalismo “pensante” per rispondere alle crescenti pressioni redistributive del movimento operaio e ai costi crescenti dello Stato del benessere – per riprendere il controllo della produzione e dello Stato e ridurre l’influenza dei sindacati in una fase di sovrapproduzione di merci e di costi crescenti delle materie prime – colse di sorpresa il movimento operaio e i sindacati. La vertenza Fiat con la successiva sconfitta operaia agli inizi degli anni ‘80 segnò una lunga fase difensiva del conflitto sindacale che, di cedimento in cedimento, ha accompagnato in questi decenni lo “smantellamento progressivo del sistema produttivo nazionale e del welfare pubblico, la de-centralizzazione dell’impresa nei territori, la fine del ruolo propulsivo dei contratti collettivi”, la precarizzazione del lavoro, la nascita dei contratti individuali (Pacchetto Treu) e, infine, il declino stesso del sindacato.
Scrive ancora in Persone e Comunità: “Un errore interpretativo della globalizzazione che ha coinvolto la sinistra e il Movimento Operaio, è stato quello di concepirla come uno stadio di rilancio del ciclo di accumulazione, con il risultato di alimentare strategie rivendicative difensive in vista di una ripresa futura del ciclo espansivo. Il suo effetto è stato quello di non cogliere la novità propria della natura della globalizzazione che espelleva dal suo interno aree di mercato e sistemi produttivi, de-centralizzandoli e de-nazionalizzandoli, per sottrarre la produzione al controllo sociale e politico locale e nazionale”. Nella sua relazione al seminario del circolo romano de Il Manifesto nel 2011 su Lavoro e Territorio all’indomani del referendum della Fiat di Pomigliano, così concluse questa riflessione:“L’assenza di questa consapevolezza ha fatto si che siamo rimasti a lungo attaccati alla speranza di poterci integrare in un modello che non ci comprendeva, anzi ci respingeva, e per di più a noi in gran parte estraneo. Trascurando invece scelte possibili di un altro modello di organizzazione sociale, di crescita territoriale e sociale e di cooperazione sia europea sia mediterranea”.
Bruno Trentin fu forse l’unico che nel movimento sindacale avvertì nel 1989 la tempesta che si avvicinava e colse correttamente la novità della fine di un ciclo storico, dell’epoca dello sviluppo infinito e dell’occupazione come variabile da questo dipendente, insieme al tramonto di politiche salariali espansive. Nella sua relazione alla Conferenza di Programma della Cgil di quell’anno a Chianciano, così introdusse il suo intervento: “Le trasformazioni delle società industriali, i vincoli crescenti…rimettono in questione la stessa concezione dello sviluppo economico… ma, soprattutto, il presupposto economico e ideologico sul quale il sindacato fondava, sin dalle sue origini, la sua funzione di unificazione del mondo del lavoro…ossia uno sviluppo economico, pieno di contraddizioni e di diseguaglianze, ma senza limiti quantitativi di lungo periodo, uno sviluppo economico «inarrestabile» e, come tale, condizione e garanzia di un progresso sociale e umano, condizione materiale dell’azione emancipatrice del movimento operaio; questo presupposto e questa premessa di valore dell’azione solidale del sindacato sono stati duramente contestati dalle trasformazioni intervenute..”. E così proseguì:“ Lo sviluppo quantitativo dell’economia, la crescita della produzione di merci e di servizi, e lo sviluppo dell’occupazione e del lavoro salariato, che del primo sono stati sempre considerati come dei fattori derivanti e rigidamente subordinati (delle variabili dipendenti si usava dire), si scontrano sempre più con dei limiti oggettivi, strutturali… Al punto che oggi l’idea di progresso, quella di civiltà e quella stessa di solidarietà sono sempre più associate al rispetto di questi vincoli e alla subordinazione dello sviluppo dell’economia ai limiti qualitativi che rimettono in questione i suoi obiettivi e le sue regole”. Aggiunse che era destinata alla sconfitta “una solidarietà difensiva fondata sulla salvaguardia di un modello autarchico di sviluppo, sul rifiuto di confrontarsi con le scelte ardue di una nuova divisione internazionale del lavoro e con la ricerca di una nuova solidarietà dei lavoratori in Europa”.
Per proteggere il lavoro da questi rischi incombenti, delineò così una strategia difensiva fondata sui diritti individuali e collettivi, sulla valorizzazione della persona e della sua prestazione lavorativa, sulla formazione permanente, sulla contrattazione anche individuale nel posto di lavoro: “Dobbiamo compiere il tentativo di ricondurre alla contrattazione collettiva e ad una difesa solidale dei diritti individuali fondamentali relazioni di lavoro, anche molto diverse fra loro, che non coincidono più con il modello tradizionale dell’occupazione a tempo pieno per tutta la vita…. Non crediamo al salario o al costo del lavoro come variabili indipendenti. Ma crediamo ad una strategia rivendicativa che liberi tutte le potenzialità culturali e professionali delle lavoratrici e dei lavoratori e che trasformi la persona al lavoro in un patrimonio ricco e costoso nella sua formazione..”. Ancora: “Diventerà sempre più un tema della contrattazione collettiva nei luoghi di lavoro quella dell’informazione sui percorsi professionali individuali e sui sistemi di remunerazione individuali, in modo da offrire la garanzìa di criteri trasparenti anche all’estendersi di forme di contrattazione individuale del salario e delle condizioni di lavoro..”. Caratteristiche queste – dell’autonomia, dell’autodeterminazione, della libertà e della creatività del lavoro – che sarebbero state fatte proprie dal capitalismo post-fordista sotto le sembianze del lavoratore imprenditore di se stesso e artefice del suo stesso auto-sfruttamento.
Mancò però in Trentin, ed è mancata nel sindacato anche dopo lui, la visione di un progetto alternativo al modello di sviluppo e di produzione fordista e industrialista abbandonato dal capitalismo; e anche lui fu costretto ad accettare di contrattare nel 1992, con l’accordo che abolì la scala mobile, l’arretramento del movimento operaio dalle posizioni conquistate in precedenza per allineare il paese alle politiche deflazioniste dell’Unione Europea, che lo costrinse alle dimissioni da segretario generale della Cgil prima e all’uscita definitiva di scena successivamente.
L’occasione persa dal sindacato è stata quella di non aver scommesso sul rilancio dei luoghi, delle produzioni e dei sistemi produttivi abbandonati al loro destino dal fordismo prima e dalla globalizzazione poi, ricreando forme di aggregazione tra produttori locali, rilanciando un nuovo modello di sviluppo a partire dalla rigenerazione delle città devastate dall’inurbamento selvaggio e dal consumo di suolo, dal ripopolamento delle zone interne abbandonate con politiche di sviluppo locale e culturale e mettendo in sicurezza il territorio. Di non aver offerto in questo modo un’alternativa di mercati locali e regionali al quel mondo della produzione radicato nei territori, ed estromessi dai mercati della globalizzazione, attraverso il rilancio dell’Altra Economia, dei mercati contadini, della nuova ruralità. Da ciò derivava e deriva la necessità di un alleanza tra questa economia e la società civile per ricostruire comunità di vita, di produzione e consumo. Invece abbiamo stoltamente continuato sulla strada delle sconfitte difendendo e promuovendo lo sviluppo dei grandi centri commerciali delle multinazionali straniere, che hanno ancor più indebolito la piccola impresa locale e regionale che fatica a trovare sbocchi autonomi nel mercato e che ora, ironia della sorte, per effetto dell’automazione crescente, stanno espellendo proprio quei lavoratori che avevano giustificato l’iniziale consenso sindacale e politico locale al loro insediamento nel territorio.
Lavoro e Bene Comune
Cos’è per Amoroso il Bene Comune? “ Bisogna evitare, usciti dall’incubo della fabbrica fordista e del consumismo di massa (con i quali abbiamo perso mezzo secolo di storia), di inseguire ancora una volta il capitalismo nelle sue convulsioni con il mito delle tecnologie, della società dell’informazione, della società dei servizi e, ora, con la società della conoscenza”… E ancora:“Decrescita e sobrietà significano partire dai nostri bisogni, dai bisogni delle comunità -società nelle quali viviamo, per ricostruire intorno a noi quelle istituzioni, saperi e sistemi produttivi che ridiano spazio ad una vita normale” e per riscoprire quella che lui chiama “ l’acqua calda” della “buona vita” e del “bene comune”.
Il progetto del Bene Comune, così introdotto da Amoroso in Per il Bene Comune, nasce come risposta all’esaurirsi dell’esperienza dello Stato del Benessere, sorto nel novecento per far fronte alle crisi del mercato capitalistico e ai disastri della guerra e della ricostruzione successiva. Il suo stretto legame col capitalismo fordista, il suo carattere prevalentemente corporativo, ne ha segnato anche la progressiva decadenza con l’affermarsi di politiche neoliberiste di contenimento della spesa pubblica e del welfare. Il bene comune è un progetto diverso di società e di modernizzazione che per le società europee significa anzitutto il “distacco dalla crescita quantitativa e individualistica e un rifiuto della globalizzazione e delle sue politiche neoliberali”.
“Il bene comune non è il singolare di beni comuni, né la somma dei beni individuali” ma, citando Robert Vachon, Bruno afferma che “è l’essere comunitario non riconducibile alla somma delle parti e che non può essere proprietà di qualcuno”. È, continua ancora in Per il Bene Comune, “l’essenza del progetto, il nucleo fondamentale della vita materiale delle persone e delle comunità, intorno al quale si articolano gli obiettivi e le funzioni economiche, sociali e culturali della società. È quel nucleo che sprigiona i valori, i principi che danno contenuto e forma in una certa epoca storica al vivere insieme e dal quale si possono derivare i beni comuni necessari, come strumenti per riavviare un discorso su una diversa forma di organizzazione sociale e di partecipazione”. Insomma un nuovo patto sociale che sostituisca lo Stato del Benessere, creato intorno all’obiettivo della crescita economica, con quello della Società del Benessere costruita sul Bene Comune.
Così definito il progetto di Bene Comune, la nuova Società del Benessere non può prescindere dalla solidarietà tra lavoratori e cittadini, cioè dal concepire il lavoro come bene comune legato alla comunità e al territorio di appartenenza.
Di questa concezione del lavoro sono debitore verso l’opera di Bruno Amoroso che ha nutrito, negli ultimi anni della mia esperienza di dirigente sindacale della Cgil, la mia rielaborazione, inascoltata, di un nuovo e diverso approccio al rapporto tra sindacato e società, come chiave del rinnovamento del sindacato stesso e della sua fuoriuscita dall’orbita dello schema fordista di rappresentanza del lavoro.
Nella sua Prefazione al mio libro, Il Lavoro tra Globalizzazione e Bene Comune ( 2006), individua gli elementi forti della esperienza politica e sindacale in Italia nella natura popolare del sindacato nel dopoguerra e nella la sua costante preoccupazione di legare rivendicazioni e proposte parziali a una idea e progetto di società più giusta e solidale. Infatti, scrive : “ Le organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori hanno rappresentato sia la forza maggiore di difesa e di elaborazione di proposte alternative allo sfruttamento capitalistico e alla degenerazione della società e del mercato da questo prodotto, sia il punto di fusione di tutte le componenti e le istituzioni della società civile. L’emancipazione della ‘classe operaia’ coinvolgeva tutte le componenti personali e sociali della società e produceva un cambiamento di liberazione (dalle ineguaglianze e dalle discriminazioni) per tutti”. Questo legame organico tra sindacato e società “si è venuto via via indebolendo dagli anni Sessanta in poi fino alla rottura verso la fine del decennio. Le ragioni sono da ricercare nell’affermarsi di un modello industrialista e fordista di crescita economica che ha plagiato anche i sindacati e i partiti del movimento operaio acquisendoli così ad una linea di subordinazione al modello della crescita capitalistica in Italia su basi corporative”. E così conclude: “Questa è la ragione per il venir meno della anima popolare del movimento… Ma il primo anello da ricostruire è la ricongiunzione tra movimento operaio e società civile, sulla base di un progetto di società fuori della globalizzazione e diverso da quello del capitalismo di mercato”.
Commentando nel 2011 un mio articolo su il Manifesto, Ripartiamo dal binomio locale-globale , nella sua relazione al già citato seminario organizzato dal circolo romano de il manifesto, così si espresse a proposito di lavoro e bene comune: “Ricordo che di questo tema si parlò in ambito sindacale. Reagendo al grande interesse che i sindacati mostravano per l’‘acqua bene comune’ proposi di trattare invece del tema ‘lavoro bene comune’. Gelo totale, perché avevano intuito che se il lavoro è un bene comune è compito delle comunità salvaguardarlo, regolarlo, inserirlo nelle funzioni necessarie, retribuirlo ecc.. Al che tutta l’impalcatura del lavoro e dei suoi diritti costruita per una società industriale capitalistica crolla. Ma con ciò anche il ruolo che il sindacato si è disegnato dentro di questa. Dobbiamo prendere atto positivamente che espressioni recenti anche da parte del sindacato indicano una riflessione critica su questi temi e sul bisogno di ripensarsi insieme alle altre istituzioni e organizzazioni della società civile”.
Cioè il lavoro come bene comune è parte costitutiva dell’essere, del vivere nella comunità con gli obblighi ed i doveri che ne derivano, esce cioè dalla pura funzione contrattuale-redistributiva del rapporto di lavoro.
Questo dato implica che il progetto del bene comune va visto come “superamento della retorica della solidarietà all’interno de movimento operaio, che non tocca mai gli interessi costituiti, i diritti acquisiti in una fase storica”. Concludeva il commento al mio articolo con queste mie parole: “Il lavoro può affermare la sua utilità e responsabilità verso la società e le comunità locali, solo pensandosi ed agendo come lavoro non alienato, come produttore consapevole che crea l’economia e non ne rimane succube”. Se si riconcilia, quindi, col sapere e si mette al servizio del progetto di comunità e del bene comune e non di una solidarietà ristretta di tipo corporativo.
Se nella fase della fabbrica fordista il luogo classico della socializzazione e dell’istituzione dei legami sociali e di classe era la fabbrica oggi, con il decentramento produttivo, non è più così. Lo spazio della socializzazione ridiviene il territorio, luogo di esistenza-resistenza e di convivenza quotidiana. E gli attori sociali della trasformazione sono quelli partecipi al territorio e ai suoi bisogni, a partire dai lavoratori, dalle loro famiglie, e dalle loro organizzazioni sindacali, dal mondo delle periferie urbane, del non-lavoro e della precarietà esistenziale. Il lavoro con le sue forme di esercizio e di rapportarsi alla società e al bene comune assume ora una precisa responsabilità sociale verso le comunità. Se il lavoro è un bene comune, può essere compatibile con alcune modalità di esercizio corporativo del conflitto sindacale in particolar modo nei servizi di pubblica utilità, cioè dei beni comuni sociali? È compatibile con qualsiasi occupazione, anche in quelle produzioni inquinanti che distruggono e devastano l’ambiente, la terra, l’aria, l’acqua e la vita – cioè i beni comuni naturali – come nel caso di Taranto? Come conciliare la responsabilità sociale del lavoro con il suo essere anche un mezzo di riproduzione sociale? Come affrontare l’alienazione del lavoro dai fini della produzione nell’impresa capitalistica, irresponsabile verso le comunità e l’ambiente vitale? Come rispondere alla domanda di inclusione sociale del mondo degli esclusi, dei perdenti della globalizzazione, degli operai senza-fabbrica, dei giovani senza futuro? Sono domande, queste, che attendono ancora risposte compiute.
Nel momento in cui l’impresa transnazionale separa territori e sistemi produttivi, istituzioni e popolazioni, si estranea dalle comunità e dai paesi d’origine e diventa apolide e globale, si può superare tale processo di scissione solo se lavoro e impresa, comunità e cittadini diventano partecipi di una rifondazione del paradigma dell’economia diversa e alternativa a quella impostasi con la globalizzazione. Il lavoro ritroverebbe così una sua ragione sociale non alienante ri-mettendo in discussione la stessa divisione operata dal fordismo fra lavoro e sapere che aveva trasformato l’operaio in gorilla ammaestrato, per dirla con la celebre metafora di Gramsci in Americanismo e Fordismo.
È, questa, una sfida ancora aperta per una sinistra che voglia rinascere e ritrovare le proprie radici popolari e per un sindacato che abbia voglia di misurarsi con i suoi ritardi e le proprie granitiche in-certezze che certamente non hanno aiutato lo svilupparsi di un movimento popolare e democratico di resistenza alla tragedia della globalizzazione capitalistica preferendo spesso cavalcare il cavallo vincente piuttosto che rischiare le sconfitte in proprio.
In un mio recente articolo, Considerazioni dalla parte dei vinti, pubblicato su Comune-info, così concludevo l’ultimo paragrafo destinato al riscatto dei vinti: “La Storia non è solo un susseguirsi di eventi lineari in cui il passato sta alle nostre spalle. Essa ci parla anche con il linguaggio e la memoria dei vinti e degli sconfitti redenti e non solo con quello dei vincitori, affinché quello che non fu possibile ieri diventi possibile oggi o domani…Non so se un giorno il mondo cambierà in meglio. Ma se sarà così, lo sarà non grazie a quelli che sono saliti sul carro dei vincitori, ma grazie ai popoli vinti ma non domati, alle classi oppresse, ai sacrifici e alle testimonianze di tutti quelli che pur sconfitti ed emarginati, non si sono mai arresi”. Grazie anche ad uomini come Bruno Amoroso.
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