È l’argomento preferito dai politici e ancor più dai talk show: la corruzione. Viene presentata come il principale problema italiano, capace di rallentare la crescita economica e di assorbire le risorse destinate ai bisogni della collettività.
Ma siamo davvero certi che la corruzione sia la principale causa del persistere della crisi economica italiana?
Iniziamo da una prima considerazione tecnica: i soldi della corruzione restano all’interno del circuito economico. Infatti, anche per costruire le ville di lusso si fa girare l’economia: è necessario comprare i materiali dalle imprese, e i salari pagati agli operai che lavorano alla costruzione delle ville sono spesi per l’acquisto di beni e servizi, innescando così quel circolo virtuoso che fa girare l’economia. Ovviamente non vogliamo far ripartire l’economia e l’occupazione tramite la corruzione, sia chiaro. Ma è fondamentale spiegare perché la corruzione non rappresenta il problema principale dell’Italia e capire invece quale lo è.
Tanti ricordano cosa fu Tangentopoli e cosa rappresentò. Eppure, nonostante la corruzione, in quegli anni c’era lavoro. Un operaio poteva diventare proprietario di una casa e mantenere dignitosamente la propria famiglia. Oggi, chi ancora lavora spesso incontra notevoli difficoltà ad avere uno standard di vita dignitoso.
Inoltre, in quegli anni, l’Italia era la quinta potenza mondiale, il primo Paese in Europa per produzione industriale e primo al mondo per risparmio privato e ricchezza privata pro-capite, altro che “spendaccioni”! Nel 1994 le agenzie di rating definirono l’Italia l’“Economia leader d’Europa”.
Ma allora, che cosa è cambiato? Che cosa è successo in questi decenni?
Un giornalista mainstream si affretterebbe a controbattere con un “certo, si stava bene negli anni della liretta. Ma è proprio a causa delle mancette dei politici di allora, della spesa pubblica fuori controllo e della corruzione che oggi abbiamo un eccessivo debito pubblico, di cui paghiamo le conseguenze”. Purtroppo è una frase che sentiremo anche in campagna elettorale.
Un giornalista serio, così come un politico serio, spiegherebbe che il debito pubblico è cresciuto a partire dal 1981, in seguito al “divorzio” tra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia, operazione che ha sancito una prima perdita di sovranità. Gli interessi sui titoli di Stato, prima di allora, venivano stabiliti dallo Stato. Col divorzio, gli interessi vengono stabiliti dai “mercati finanziari”.
In che modo?
Prima del divorzio, la Banca d’Italia riassorbiva i titoli in scadenza che restavano invenduti. Col divorzio, la Banca d’Italia non assorbe più i titoli, che restano sul mercato, innescando un aumento dei tassi d’interesse che ha portato in poco tempo ad un raddoppio del debito pubblico.
Non è la spesa pubblica per lo Stato sociale ad essere aumentata (in verità, già in quegli anni cominciava ad essere ridotta), ma è aumentata la spesa per gli interessi.
Nonostante ciò, il debito pubblico è diventato un problema solo con l’introduzione dell’euro. Infatti, un Paese che ha la sovranità monetaria sarà sempre nelle condizioni di emettere moneta per far fronte sia agli interessi sul debito, sia alle esigenze del Paese.
Con l’introduzione dell’euro, lo Stato è passato da emettitore a utilizzatore di una valuta che deve chiedere in prestito ai mercati di capitali privati, i quali, come tutti gli istituti bancari, prestano denaro che poi richiedono indietro con gli interessi. Con questo meccanismo hanno paralizzato la capacità di spesa degli Stati.
Nel 1997, l’economista Wynne Godley, collaboratore del Tesoro britannico, scriveva:
Le Nazioni dell’euro non solo rinunceranno alla propria moneta sovrana, ma anche alla loro capacità di spesa. Con l’Unione Monetaria gli Stati non potranno più essere finanziati dalla Banca Centrale e dovranno prendere in prestito sui mercati aperti. Questo rischia di essere troppo costoso per loro, persino impossibile. Le restrizioni di budget a cui queste Nazioni si sottopongono infliggeranno una depressione economica all’Europa, che essa non potrà risolvere
[The Observer, agosto 1997]
Il Giappone ha il debito pubblico più alto al mondo, pari al 230% del PIL, eppure paga appena lo 0,1% di interessi sul debito, circa 2 miliardi l’anno.
Come mai? Perché il Giappone ha la piena sovranità monetaria, ovvero è uno Stato monopolista della valuta e stabilisce anche i tassi d’interesse. Cioè la sua banca centrale acquista illimitatamente i titoli di Stato che non vengono collocati e, così facendo, i tassi restano invariati.
Avete mai sentito parlare del Giappone come di uno Stato che rischia di fallire? Ovviamente no. E non potrebbe mai accadere: ha la sovranità monetaria.
A questo punto, il giornalista mainstream potrebbe obiettare che oltre alla corruzione e al debito pubblico, resta in piedi anche un problema di costi della politica.
Secondo un’analisi condotta dalla UIL qualche anno fa, i costi della politica ammonterebbero ad appena 6,1 miliardi di euro l’anno, cifra che include il costo del funzionamento degli organi istituzionali (Stato centrale e Autonomie Territoriali) e 2,6 miliardi per altre spese quali auto blu, personale di fiducia politico, direzione ASL, ecc. Un totale di 23,2 miliardi tra costi diretti e indiretti, compresi i costi dei dipendenti pubblici (che non percepiscono certo stipendi d’oro).
Quanto ci costa invece stare nel sistema euro e rispettare i trattati europei?
Gli interessi passivi sul debito ammontavano a circa 66,5 miliardi nel 2016, e nel 2012 sono stati versati 84 miliardi di euro: un costo quasi quattro volte maggiore rispetto ai costi della politica.
A questi costi vanno aggiunti i tagli alla spesa pubblica (la cosiddetta spending review): circa 30 miliardi di euro in 3 anni, che sono ulteriori risorse che escono dal sistema economico, peggiorando le condizioni economiche del Paese.
L’Italia ha inoltre aderito al MES (Meccanismo Europeo di Stabilità), il cosiddetto “Fondo Salva Stati” o Fondo Europeo di Stabilità. Si tratta di un’organizzazione intergovernativa – formata da persone prive di legittimazione democratica, esenti da qualsiasi controllo democratico e che godono dell’immunità assoluta – col compito di erogare prestiti ai Paesi in difficoltà che non riescono a ripagare gli interessi sul debito pubblico, divenuti eccessivi (vedi il caso della Grecia, che nel 2011 che è arrivata a pagare oltre il 100% di tassi d’interesse).
In realtà andrebbe chiamato “fondo salva banche”, dal momento che quei soldi vengono erogati agli istituti bancari che sono in credito verso gli Stati.
L’erogazione del prestito è però condizionata all’attuazione delle riforme strutturali e al consolidamento del bilancio pubblico, in una parola: austerità, che non fa altro che peggiorare la situazione di partenza.
Secondo i dati della Banca d’Italia, alla pagina 16, il nostro Paese ha versato al MES (in inglese EFSF e ESM) la bellezza di 58 miliardi e 232 milioni di euro.
Infine vi è il Fiscal Compact, che avrebbe dovuto occupare le prime pagine dei giornali, vista la scadenza prevista per la fine del 2017, ma di cui nessun mass media ha invece parlato (preferendo altresì il triste epilogo di “Spelacchio”).
Un trattato, il Fiscal Compact, che darebbe il colpo di grazia all’economia italiana. È stato approvato all’interno degli organi dell’Unione europea, al di fuori del controllo democratico, “fortunatamente” al momento accantonato. Tale trattato imporrà ulteriori tagli alla spesa pubblica con l’obiettivo di portare il deficit allo 0,5% del PIL. Pura follia, che causerà più disoccupazione e recessione.
In conclusione, potremmo paragonare i problemi secondari (corruzione e costi della politica) a un topolino che ci rosicchia le porte di casa, mentre i costi del “più Europa” sono un dinosauro che ci distrugge la casa con una zampata.
Meglio accanirsi sul topolino o liberarsi del dinosauro in casa?
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