Riprendiamo il discorso cominciato precedentemente partendo da Farhad Khosrokhavar, sociologo iraniano che si è occupato più approfonditamente di altri di jihadismo contemporaneo in Europa. Il suo approccio, a differenza ad esempio di quello del già citato Kepelle, risulta più efficace dal momento in cui va ad analizzare quelle che sono le ragioni profonde della processualità della radicalizzazione. La radicalizzazione non viene fuori nella testa di questi giovani dall’oggi al domani: è un processo lungo che risponde a dinamiche di umiliazione, di discriminazione, di annullamento di identità, all’interno di una società ormai largamente secolarizzata. Molta attenzione Khosrokhavar l’ha data a un caso interessantissimo ed emblematico: quello delle muhajirat, ovvero le giovani donne che partono, ad esempio, dalla Francia per andare in Siria. Dei 5.600 combattenti stranieri europei il 10% sono donne tra i 16 e i 28 anni. Perché queste donne lasciano l’Europa per militare sotto l’insegna dell’IS e fare parte di una neo-Umma?
Badiamo bene che, se per un giovane ragazzo è già difficile compiere una scelta simile e poi realizzarla nella pratica, per una ragazza lo è ancora di più, dato il tempo che trascorre tra le mura domestiche e a scuola rispetto a quello che i fratelli passano in strada. Uno delle motivazioni addotte da queste ragazze è la seguente: poter vivere integralmente secondo le norme shariatiche. Vale a dire, per esempio: portare il velo integrale, vivere in separatezza dagli uomini. È un segnale di una rottura all’interno dei loro contesti sociali (e anche in senso più ampio) degli affetti famigliari e privati che queste ragazze tessono.
I rapporti insicuri con l’altro sesso e con i genitori, la mancanza di sicurezza ecc. conducono a un totale rovesciamento, un desiderio di sottomissione e una volontà di rigida norma. Come se nel gran cosmo della (iper)modernità liquida il radicalismo fosse un’opzione per chiedere rassicurazione, per trovare un’ancora nella rigida divisione in ruoli ben definiti. Per di più Khorsokhavar indica un’altra causa: la ricerca della virilità maschile. È in atto forse un processo di de-virilizzazione dell’uomo in Occidente?
Non ce ne stupiamo. Il combattente per la fede dello Stato Islamico suona nell’innocente immaginario romantico di queste ragazze, come un mito di virilità a cui fare riferimento. Prima di partire queste giovani spesso sono date in sposa, tramite matrimoni di fortuna fatti su Skype, a uno di questi combattenti che poi incontrano in Siria od ovunque riescano ad arrivare. Insomma, a forza di parlare di parità fra i sessi, tutto ciò ha sì liquidato il modello patriarcale ma ha, di converso, annacquato le differenze fra donna e uomo, alimentando un sentimento di vuoto angoscioso, depotenziando la figura sia del padre sia della madre. È un ritorno all’immagine arcaica del maschio-eroe, in grado di guardare con coraggio in faccia la morte [come martiri]. Ancora: la volontà di un distorto umanitarismo. Si vuole fare del bene, aiutare i siriani in un momento così tragico, lottare contro il male in nome della guerra santa al posto di un Occidente impotente davanti al massacro perpetrato dal regime siriano. E tutto aderendo a un regime estremamente sanguinario.
È un nuovo tipo di femminilità. La maggior parte di queste donne sono di classe media, come è accaduto anche in Italia con il caso di Maria Giulia Sergio (vedi Guolo 2015), e sono perlopiù delle convertite, provenienti da diverse confessioni o, persino, dall’ateismo. In altri termini la loro è più, come altrove nell’islamismo, una richiesta di un ideale che di fede. Detronizzato il padre e detronizzata una società secolarizzata senza ideali, se ne trova una superlativamente devota all’ideale e alla norma. Si accetta persino di andare incontro alla morte come martiri (shahid), aggiungendo alla rivoluzionaria interpretazione del testo coranico un precetto assente, quello appunto di suicidio in nome di Allah (che nell’islam è vietato).
Ricerca di utopia, un mondo dove la sincerità e la fiducia “si combinino con una buona ineguaglianza di genere” (Khorsokhavar 2015). La Sergio, in Italia, cerca di convincere, una volta arrivata in Siria, i genitori a convertirsi e partire, dipingendo la società dello Stato Islamico come perfetta, ideale, felice. I genitori, pur di rivedere la figlia, accetteranno di partire (fallendo) chiedendo almeno se sarà possibile avere, laggiù, un’auto e una lavatrice. Naturalmente le giovani donne, nell’IS, non combattono. Il massimo a cui aspirano è, oltre il martirio (e quindi il Paradiso), di fare parte di Al-Khansaa, una milizia religiosa chiamata a far rispettare le norme shariatiche alle altre donne.
Perché il caso femminile è, tra le altre ragioni, così importante? Lo vediamo, in negativo, confrontandolo con un altro caso, altrettanto estremistico, di rivoluzione sociale, se così la possiamo chiamare, questa volta di matrice opposta. Parlo del Sessantotto. Il Sessantotto è un movimento che ha chiamato larghissime frange di giovani per unione unanime e spontanea a contestare quelli che, nel mondo Occidentale, erano pregiudizi da abbattere.
Ancora una volta c’è una caduta di grandi strutture di plausibilità. In Francia abbiamo il maggio parigino, i cui toni diventano tanto violenti da assumere quasi i connotati di una rivolta antistatale (richiamando alle memorie, chissà, un temuto giacobinismo, categoria che salta anche fuori parlando di islamismo radicale). Inizia come movimento studentesco in opposizione al troppo razionalizzante piano Fouchet, che, essenzialmente, piegava il modello scolastico a esigenze di mercato, ma ne viene fuori un’esplosione dell’immaginario di massa, che non ha esitato fin da subito a ottenere connotati da ossimoro quali, ‘bisogna essere ragionevoli e chiedere ciò che impossibile’, in nome di una nuova, amata anarchia.
Khorsokhavar dice:
Il Maggio ‘68 era una festa ininterrotta, e il movimento hippy riponeva tutte le sue speranze nel viaggio esotico verso Katmandu o l’Afghanistan, allora ancora territori liberi dal jihadismo.
Si ricalca di nuovo il confine tra illecito e lecito, in nome questa volta di un’abolizione della norma per una maggiore, sconsiderata libertà (o libertinaggio). Il piacere, in questo, rappresentato dal già citato immaginario esotico e floreale, ha una componente a dir poco fondamentale. E il piacere si traduce naturalmente in sesso, in soddisfazione infinita del piacere sessuale, nell’ottica di un’eliminazione di tabù, gerarchie e veti. Poi, naturalmente, il femminismo, la forte richiesta di emancipazione della donna che ancora oggi, in misura più o meno differenti, convince migliaia e migliaia di individui. Si voleva uscire di sera, stare tra donne, confrontarsi (ecco la ricerca di identità), rompendo magari con i padri e i fratelli, protestando contro l’aborto e per i propri diritti in ricerca di una finalmente definitiva coscienza di genere. Dal punto di vista sessuale, ciò ha dato vita a una forma di amore variamente liberato. Ipoliamori, contro la monogamia sociale e l’adulterio, il tentativo di eliminare ogni forma di puritanesimo, e così via.
Notiamo come, in una misura che paradossalmente ci suona parallela, con il jihadismo contemporaneo incontriamo un ideale esattamente opposto, ma proprio in quanto opposto, speculare, e indice di qualcosa che, in seno all’Occidente, ha condotto da una parte all’estremismo della liberazione da ogni norma (i fiori) e, dell’altra, all’estremismo di una richiesta di norma che si voglia in più forme assenza di libertà. Dice Khosrokhavar:
La combinazione della perdita di autorità familiare e la logica dei diritti con il venire meno nella società del rigore delle norme (incluse le norme repubblicane) fa sì che si produca una domanda di norme e di autorità muscolare. Da qui il fascino presso questi giovani [gli jihadisti europei] per un’autorità vera e non più di vaghi numi tutelari […]. Il sistema di norme islamiste propone loro un mondo in bianco e nero. L’islamismo radicale consente loro di combinare il piacere del gioco con il rigore morale della fede jihadista; fa loro sentire che stanno aderendo a delle norme intangibili e, al tempo stesso di poter imporle al mondo intero, invertendo il ruolo dell’adolescente e dell’adulto, in breve, di sentirsi protagonista in prima persona a imporre norme sacre agli altri ricorrendo alla guerra santa.
Se prima [col Sessantotto] si cerca di liberarsi da gerarchie e restrizioni, oggi, invece, si è affascinati da norme sacre che sfuggono al libero arbitrio umano e che si rifanno alla trascendenza divina […]. Si era anarchici e si odiava la società patriarcale, oggi ci si trova davanti a una società priva di senso; l’islamismo radicale riconfigurando le relazioni tra uomo e donna, riabilita un modello di società patriarcale come specchio di un ordine divino, di un Dio intransigente e inflessibile, contraltare di un repubblicanesimo rammollito e di un cristianesimo troppo umanizzato. […] L’emancipazione della donna era un obiettivo del movimento sessantottesco. Oggi ormai le giovani ragazze post-femministe gridano con forza il loro desiderio di liberarsi dal femminismo, accusato di aver loro dato una parità formale, costrette a farsi carico di responsabilità sempre più pesanti in un mondo ancora dominato dal maschio e dai suoi privilegi.
La vita nella sua infinita gioia e liberazione, la morte e il martirio; l’anarchia e la sharī’a; la liberazione dalla forma-Stato, lo Stato Islamico; l’amore libero, l’amore ristretto; lo svelamento, il velo integrale; i fiori e la pace nel mondo, la guerra santa globale. Sintomi indubitabili, manifesti che qualcosa davvero non è andato bene. E in mezzo, la società globale, i confusi.
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