Una bandiera bianca con un leone rampante. È il nuovo simbolo, criptico e per il momento poco reclamizzato, che ha iniziato a diffondersi nel nord dell’Iraq e sotto il quale militano forze residue dello Stato Islamico e curde che sono state espulse dalle loro roccaforti. Sono i White Flags, una sigla ignota ai più, ma che inizia ad assumere dimensioni preoccupanti. La loro comparsa risale al dicembre 2017, quando miliziani bene armati hanno iniziato ad attaccare senza sosta lo stabilimento petrolifero di Jambur, nel nord dell’Iraq e poco a sud di Kirkuk, giustappunto una delle ultime frontiere dell’Iraq del dopo Califfato.
L’area, dopo la sconfitta dei miliziani dell’ISIS, era passata prima sotto controllo curdo e poi ripresa manu militari dalle forze irachene lo scorso ottobre, durante l’offensiva dei governativi contro il Kurdistan di Massoud Barzani, che ha pagato caro il referendum unilaterale per ottenere l’indipendenza da Baghdad. Se attualmente il sogno dei curdi iracheni è svanito, nessuno però riesce a impadronirsi della regione e dei suoi preziosi impianti. Alcuni dei quali, come appunto la struttura di Jambur, restano sotto attacco giornaliero da parte di questo nuovo e agguerrito gruppo militante, i cui membri si nascondono nelle aree desertiche e montagnose che si ergono nelle province settentrionali dell’Iraq.
Chi sono i White Flags
«I White Flags attaccano quasi tutti i giorni, di solito all’alba e al tramonto. Hanno un sacco di armi, tra cui artiglieria e mortai. Sono un’alleanza di ex militanti dello Stato Islamico e membri della mafia curda» afferma Ali Ghazi Swaish al-Obeidi, comandante della Brigata Hashd al-Shaabi Jundil Imam, che è responsabile per la sicurezza della struttura petrolifera di Jambur e degli altri oleodotti che trasportano petrolio dai giacimenti di Jambur alle principali stazioni di lavorazione della compagnia petrolifera nel nord di Kirkuk.
Obeidi si trova sulla prima linea di fuoco e sostiene che le milizie provengano principalmente dalla vicina città di Tuz Khurmatu, dove il governo iracheno sta per lanciare una vasta operazione per ripulire l’area dai ribelli. «Sappiamo che ex membri dello Stato Islamico e della mafia curda combattono sotto questa bandiera bianca perché, dopo la nostra più grande battaglia qui contro di loro, abbiamo trovato una delle loro bandiere bianche» ha riferito al network Middle East Eye.
Quella che Obeidi chiama “mafia curda” è più precisamente una congerie di milizie locali indipendenti, che però sono ben distinte dai Peshmerga o da qualsiasi altra forza di sicurezza curda ufficiale, che a loro volta si stanno accordando con i governativi per liberare l’area dalla loro presenza. I White Flags «si comportano come terroristi» ha riferito un’altra fonte sul terreno. Secondo le stime dei governativi, sono almeno 500 i combattenti che si nascondono in montagna, ma il loro numero potrebbe anche raggiungere e forse superare le 1.000 unità.
Che cosa vogliono
L’obiettivo principale dei White Flags è prendere il controllo delle strutture petrolifere, secondo uno schema già visto ai tempi dell’occupazione del Califfato, per proseguire nel contrabbando di petrolio che ha fruttato milioni di dinari allo Stato Islamico e a chi li ha preceduti, visto che «sono 14 anni che i furti di petrolio vanno avanti» dice Farid J Sadik al-Jadir, capo della North Oil Company di Kirkuk. I ladri usavano escamotage come l’innesto nelle pipeline di piccoli tubi per estrarre parte del flusso di petrolio pompato negli oleodotti, riversandolo in camion o stoccandolo in campi che ancora sfuggono al controllo dei governativi.
Secondo gli strateghi di Baghdad, i White Flags puntano ad aprirsi un corridoio strategico per ricongiungere la porzione di territorio da loro controllata intorno a Jambur con le montagne di Hamreen, nei pressi della città di Hawija, dove si trovano gli ultimi avamposti dello Stato Islamico e dove oggi si nascondono i miliziani che sono riusciti a sfuggire alla cattura durante la liberazione della città lo scorso ottobre.
Già lo scorso novembre, il comandante di Hashd al-Shaabi nella zona di Tuz Khurmatu, Ahmed Assad Cheirli, aveva predetto l’emergere di entità militanti nella catena montuosa di Jambur. «Ci sono diversi accampamenti dietro le montagne, uno è un campo di addestramento dell’ISIS chiamato Perkanna, dove sono ancora attivi molti dei loro membri e c’è almeno un altro campo lì, che ospita gli sfollati di 43 villaggi in questa zona che hanno sostenuto l’ISIS» riferì sempre a Middle East Eye.
Fenomeno in crescita
La novità rappresentata dai White Flags, in ogni caso, consiste nella strana – e forzata – alleanza curdi-sunniti: queste milizie radicali sono infatti favorite nella loro ascesa dal sostegno della popolazione locale un tempo soggetta al Califfato, che teme più di ogni altra cosa i governativi iracheni e soprattutto gli sciiti stranieri che, dopo aver liberato le città occupate, si sono resi responsabili di feroci ritorsioni sui civili.
L’alleanza è dunque strumentale alla loro sopravvivenza e risente sia della sconfitta patita sul campo da entrambe le anime indipendentiste e rivoluzionarie del nord Iraq, sia del peso della riorganizzazione della società irachena stessa dopo che il paese è andato in frantumi. Il futuro delle famiglie e degli ex appartenenti allo Stato Islamico, che erano e restano molti più di quanto non si creda, rimane uno dei più complessi problemi dell’Iraq piagato dalla guerra civile, visto che per molti di loro non esiste più una casa o una possibilità di pace sociale. Stesso destino incerto che si profila per i curdi. Anche per questo, c’è chi vede nei White Flags una speranza e un’opportunità di rivalsa.
Articolo sorprendentemente onesto per l’ambiente italiano. “Sono molti di più di quanto solitamente si pensi” fino ad ora lo scrivevo soltanto io. Eppure bastava riflettere sul fatto che l’IS conquistava città in tre giorni e con pochi morti e le città venivano ri-conquistate dai nemici in 4-6-8 o 10 mesi (chi le difendeva così strenuamente?); e sul fatto che l’IS ha combattuto contemporaneamente su 5 fronti contro centinaia di migliaia di soldati (iracheni, miliziani sciiti, russi, iraniani, curdi iracheni, curdi federalisti siriani, statunitensi, ribelli siriani, turchi) e quindi, salvo credere che sia composto da superuomini, era chiaro ai non prevenuti che fossero centinaia di migliaia (oltre coloro che controllavano e gestivano le città, insomma un popolo).
Gli sfollati dei 47 villaggi che solo in quella zona hanno sostenuto l’IS ci dicono che l’esercito iracheno fa pulizia etnica come l’IS.
Addirittura l’autore parla chiaramente di forza rivoluzionaria (ovviamente si tratta di rivoluzione reazionaria, sotto moltissimi punti di vista), altra qualifica innegabile, per chi è minimamente informato, e che viene negata perché secondo il politicamente corretto la qualifica costituirebbe un sorta di legittimazione.
Insomma, bravo l’autore e brava la rivista. L’informazione deve essere distaccata, oggettiva disinteressata, avulsa da giudizi morali e da tifoserie geopolitiche; deve amare la verità dei fatti senza pietà per niente e nessuno, a partire dal giornalista.