Vi sono state, come prevedibile, anche delle distorsioni evidenti, come l’aver amplificato a dismisura le critiche che pur egli fece agli Usa, fino a farle convogliare in un antiamericanismo viscerale che gronderebbe, a dire dei critici, da ogni singolo rigo. Andrea Mossa dimostra invece che lo studio critico della politica estera degli Stati Uniti, impero con la pretesa di costruire la nuova e vera Europa, e la fine della grande epoca dello jus pubblicum europeum, sono giudizi motivati da una meticolosa stratificazione di ricerca che si poggia su una visione critica ma non pregiudizialmente manichea. Così come l’idea, anche questa ‘smontata’ da Mossa, che la riflessione schmittiana sia tra le principali fonti teoriche del neoconservatorismo statunitense. In verità, i temi del dibattito portato avanti da Schmitt sono vari e articolati, tali da poter prestarsi a diverse letture e quindi potrebbe esservi anche del vero nella confutazione capziosa. Ma questo libro di Mossa si fonda essenzialmente su letteratura primaria e circoscrive i contorni delle tematiche più intricate senza rischiare di far esondare i giudizi oltre le stesse intenzioni di Schmitt.
I motivi di questo reiterato interesse è anche quantitativo. Oltre le intuizioni e la qualità dell’opera, spiega Stefano Pietropaoli nella introduzione al volume, Carl Schmitt è autore di oltre cinquanta monografie e di circa trecento tra saggi, recensioni e scritti minori che abbracciano un arco temporale di ben settant’anni durante i quali, in Germania, si sono avvicendati ben quattro ordinamenti politici. In più, egli legge il proprio tempo attraverso le lenti indagatrici del giurista, del filosofo politico, dell’esperto di relazioni internazionali, dello studioso di teologia, del consigliere politico e financo del critico letterario e musicale. Dunque, quantità, durata e qualità giocano a suo favore per disegnare un quadro complessivo neutrale e avulso da piccine partigianerie.
Oltretutto, in varie occasioni, è egli stesso a suggerire le connessioni non visibili ai più, citando sue opere molto distanti nel tempo e suggerendo una continuità e una relazione tra scritti che obbligano qualunque serio studioso a ritornare su vecchi saggi grazie ai quali è poi possibile reinterpretare con correttezza quelli più recenti. In realtà, spiega sempre Pietropaoli, la damnatio memoriae si fonda essenzialmente sul rifiuto di una eredità. Ma rifiutare una eredità significa implicitamente presupporre di essere allievi; perché solo dei legittimi eredi possono rifiutare un legame (ed un’eredità). E pur tuttavia, questo ripudio diventa per molti quasi ossessivo, come per Waldemar Gurian, quando propone uno smantellamento ed un dissenso integrale, punto per punto, tesi per tesi.
Protagonisti, a volte, di dialoghi interrotti, vale a dire dialoghi mancati oppure mai diretti ed espliciti, come Otto Kirchheimer (collaboratore della Scuola di Francoforte), Franz Neumann (il quale scrisse Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo) e Carl Joachim Friedrich (docente ad Harvard). Loro e molti altri scrissero su Schmitt senza incrociarsi in maniera diretta. La stessa Hannah Arendt la quale, in larga misura, ripropone ma in maniera contraria e speculare gli stessi temi schmittiani, scrivendo nei suoi quaderni e diari ma soprattutto attraverso interessanti glosse, e quindi appunti a margine del testo, che appone sulla propria copia di Der Nomos der Erde. Schmitt è dunque imprescindibile, da qualunque parte e in qualunque modo lo si voglia leggere e sono i temi, i concetti, le definizioni ad indicarci l’irrinunciabilità di un pensiero.
Ragioniamo allora, per un attimo, sul moderno concetto di politico, formula che lui esplorò in tutte le possibili modalità. La connessione, a volte perversa, tra teologia e politica, la distinzione tra Amico (Freund) e Nemico (Feind), sono solo alcuni parametri penetrati, lungo alcuni decenni, con esauriente capacità analitica da uno studioso del diritto che, come detto, scriverà moltissimo e, in Germania, a tutt’oggi, risulta il giurista più citato. Nel tempo, la deriva esegetica ha in non pochi casi assunto caratteristiche troppo rigide e capziose tanto che, già nel 1963, nella premessa a Il concetto del politico (1932), lo stesso Schmitt spiegherà che
in tal modo, la delimitazione, prudente e iniziale, di un preciso ambito concettuale è stata trasformata in uno slogan primitivo, in una così detta teoria dell’amico-nemico, nota solo per sentito dire e buona da affibbiare alla controparte (Le categorie del Politico).
Vale la pena ribadirlo: egli dispiega la sua opera non in maniera sistematica anche se punti di connessione sono sempre rintracciabili. In particolare, una miniera di elementi ripresi in vario modo, riferiscono della attenzione verso i pensatori della controrivoluzione, e in special modo alla triade composta da Donoso Cortés, de Bonald e de Maistre. Senza di essi, e quindi grazie allo sviluppo del tema della rappresentazione (di cui parla in Cattolicesimo rimano e forma politica, che Carlo Galli definirà: Un libretto quasi d’occasione (…), ma che è anche una chiave d’accesso privilegiata alla sua formazione intellettuale), chiunque voglia incamminarsi nella comprensione del concetto di Politico e quindi di Teologia politica non potrà giungere ad alcuna conclusione. E proprio il fatto che questo concetto sia scivoloso e poco incline alla rigidità di un unico modello interpretativo, coerente nei secoli, ha fatto sì che Schmitt sentisse la necessità di scavare nel passato per ripercorrerne i molteplici viluppi e gli inabissamenti carsici.
Si occupa di questo particolare aspetto, l’ottimo libro di Fabrizio Grasso (Archeologia del concetto di politico in Carl Schmitt, prefazione di Luciano Albanese Mimesis, p.80) che partendo dalle vicende personali del giurista il quale riceve alla fine della Seconda guerra mondiale imputazioni infamanti e dalle sue memorie difensive raccolte nel libretto Ex Captivitate Salus in cui dice di sentirsi un autentico Epimeteo cristiano, ripercorre l’archeologia di tale idea partendo dalla centralità della concezione cristiana della storia perché
è singolare che nella massa sterminata degli avvenimenti e delle epoche storiche sia proprio l’epoca del primo cristianesimo a diventare per noi così significativa. E singolare è anche la regolarità con cui, a partire dalla Rivoluzione francese, questo parallelismo continui a comparire in autori opposti e con opposte conclusioni, là dove il parallelismo come tale rimane ininterrogato.
Soltanto nella filosofia cristiana della storia si intenderebbe quel processo definito come secolarizzazione e, in particolar modo, solo nella versione della confessione cattolica sarebbe concepibile la comprensione della figura del katechon. Su quest’ultimo concetto ne confermerà le argomentazioni anche ne Il nomos della terra quando spiegherà:
Non credo che la fede cristiana originaria possa avere in generale un’immagine della storia diversa da quella del katechon. La fede in una forza frenante in grado di trattenere la fine del mondo getta gli unici ponti che dalla paralisi escatologica di ogni accadere umano conducono a una grandiosa potenza storica.
La sua analisi si muove dunque da una posizione di irrecuperabilità per cui tutta l’Europa, Germania inclusa, soffriva della secolarizzazione della vita e la deriva inizierebbe nel momento in cui è venuta meno la sacralità della rappresentazione. La scienza giuridica, dichiara, è fenomeno europeo coinvolto nel razionalismo occidentale ed ha come padre il diritto romano e come madre la Chiesa di Roma. La separazione da quest’ultima, all’epoca delle guerre di religioni, ha portato conseguenze in chiave politica.
Come si vede, se da una parte paiono evidenti i legami e i richiami alla filosofia controrivoluzionaria, dall’altra proprio attraverso di essi trova la congiuntura giusta per connettere religione e diritto, politica e teologia; vale a dire proprio tutti quei parametri di cui parlavamo prima. Li riplasma con il suo acume di filosofo del diritto e tutti i temi e i concetti (sovranità, liberalismo, ateismo, democrazia, eccetera) li fa discendere dalla lettura meticolosa degli autori controrivoluzionari le cui tesi sono per Schmitt molto più che delle semplici suggestioni. Il punto d’appoggio dove tutto si mantiene saldo consiste nel fatto che la Chiesa muti nel tempo senza cadere mai in contraddizione: ad ogni mutamento della situazione politica cambiano, a quanto pare, tutti i princìpi, meno uno: la potenza del cattolicesimo (Cattolicesimo romano e forma politica).
Non ci sarebbe relativismo nel pensare che la Chiesa, consapevole di non essere un regno eterno (eppur agendo con l’ottica dell’eternità), sia però capace di esercitare il proprio potere storico con una idea politica che si fonda sull’imperium e nel sacerdotium. In ciò ravvisando tutta la cognizione per l’idea originaria di forza frenante in grado di trattenere la fine del mondo, quella appunto del katechon. E proprio nella frattura tra imperium e sacerdotium c’è infatti l’inizio della degenerazione e della caduta. Il mondo nuovo che divide Chiesa e Stato, che si pianifica alla fine del Medioevo e poi si struttura con la Rivoluzione francese, è il mondo nuovo che concepisce il concetto di politico così come noi lo conosciamo, e che si rivela in special modo nella opposizione permanente Amico/Nemico.
La Chiesa rappresentava invece una complexio oppositorum (ed è lì che si ritrovano le ragioni del politico). Come spiega Carlo Galli, nella capacità di aderire agli aspetti contradditori della realtà, senza esserne subalterna sta, per Schmitt, la superiorità della Chiesa. Ecco perché si distingue dal modello delle forme secolari basate sulla dualità-connessione imprenditore e Lenin, forme del pensiero moderno strutturatosi sull’apparato tecnico-economico. La Chiesa, invece, non ha bisogno né dei mezzi dell’economia né di quelli della tecnica per affermare il concetto di politico perché detiene quel pathos dell’autorità nella sua piena purezza (Cattolicesimo romano e forma politica). E fino ad una certa fase del medioevo l’unità complessiva è stata rappresentata dalla respublica christiana che teneva connessi (complexio oppositorum) il Papa e l’Imperatore. In quel contesto ritorna il concetto di rappresentazione di cui avevamo parlato prima, e che non potrebbe essere – secondo Schmitt – accostato all’apparato moderno fondato appunto su economia e tecnica perché inadatto ad essere rappresentato: che la Chiesa rappresenti – scrive Carlo Galli – significa in primo luogo che non deduce forme dalla Verità come da una teoria e inoltre capace di dar vita alla triplice grande forma: la forma estetica della dimensione artistica, la forma giuridica del diritto e infine il glorioso splendore di una forma di potere storico-mondiale (Cattolicesimo romano e forma politica).
La Chiesa è dunque per Schmitt il punto più alto della rappresentazione della forma politica. Il nostro, tuttavia, è un mondo nuovo, non più sottomesso al dominio della Chiesa e che il filosofo tedesco inquadra in un generale e completo stato di degenerazione che non regredisce mai in caos, tant’è che parlerà di polizia mondiale pronta a sostituire in futuro la politica. Polizia mondiale che diverrebbe – secondo Schmitt – essa stessa politica. Da questa analisi discenderà poi la questione della sovranità, il concetto di stato d’eccezione, le due forme di dittatura (commissaria e sovrana) e insomma tutta la teoria politica.
Da questo punto in poi demolirà la teoria positivista del diritto motivando lungo brillanti pagine l’idea che il diritto poggi la sua forza su una brutalità fattuale, sul fatto che esso sia il risultato di un atto sovrano. Gli uomini moderni hanno sostituito la finzione giuridica di un legislatore onnipervadente e lo hanno declinato attraverso l’intuizione dello Stato moderno quasi come fosse principio metafisico, applicando le categorie teologiche al pensiero giuridico politico. Questo è il transfert che dà forma concreta ai moderni modelli, siano essi liberali (che si perdono nella discussione continua dei parlamenti che vogliono protrarre sempre i tempi di discussione) che nel socialismo. La discussione eterna dei modelli liberali è sintomatica di una stasi che permette alla potenza tecnica-economica di agire indisturbata:
Quando l’unità della Chiesa si spezzò nel XVI secolo e la politica fu distrutta dalle guerre civili di religione, in Francia si chiamarono politiques proprio quei giuristi che, nella guerra fratricida fra i partiti religiosi, avevano optato per lo Stato, come unità superiore e neutrale (Le categorie del Politico).
Ecco perché l’autonomia da discipline come l’estetica o la morale, la politica può ricavarla solo attraverso la contrapposizione Amico/Nemico che si colloca in un ambito tipicamente politico. Ma che sta subendo anch’esso una degenerazione. L’Europa lo aveva contenuto attraverso lo jus pubblicum fornendo una riconoscibilità ed uno status anche al nemico. La modernità non ammette altro da sé. L’idea di essere detentori di una verità planetaria e umanitaria fa sì che il nemico sia fuori da ogni logica di riconoscibilità e venga considerato nulla più che un delinquente. Nella nascita stessa del concetto politico moderno trova dunque l’assenza di ogni fondamento di potere e all’uomo, privo di valori e dell’antica metafisica, non resta che tornare all’essenziale, ad un agire politico dove l’atto di decidere abbia ancora un ruolo. Dove l’uomo fondi la politica su un atto di decisione che è sempre preventivo rispetto ad ogni strutturazione normativa e tuttavia sveli, ancora una volta, la sua irrisolvibile solitudine.
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