Cialtroni e fake news nella guerra al Venezuela
di SINISTRA RETE (Fabrizio Casari)
MANAGUA. L’aggressione politica, diplomatica e mediatica verso il Venezuela ha ormai oltrepassato i limiti dell’ossessione. A sostegno di una opposizione inguardabile, sostenuta da Washington e dai paramilitari colombiani, sono scese in campo forze e personaggi di ogni ordine e grado. Nell’opera di mistificazione spiccano i media (tra tutti la CNN) che sulla realtà venezuelana spacciano fake news senza pudori, realizzando i loro reportage sotto dettatura dei partiti di opposizione.
A cominciare dal definire una “dittatura” un paese nel quale si è votato 19 volte negli ultimi 15 anni e dove solo in due di queste ha vinto la destra. Stando alla Fondazione di Jimmy Carter – ex presidente USA, non un chavista – il sistema elettorale venezuelano “è il migliore del mondo e vi partecipa l’80% della popolazione avente diritto”.
Tra le cose che non vengono raccontate c’è che l’acutizzarsi dello scontro ha origine in un conflitto tra i poteri dello Stato, nato dalla decisione del Tribunale elettorale di non riconoscere la validità dell’elezione di 3 deputati dell’opposizione nella zona amazzonica. Si trattava di elezioni fraudolente e il tribunale non le vistò come legittime. Da quel momento l’opposizione rifiutò di adeguarsi a quanto prevedono le norme sulle elezioni e il regolamento parlamentare e diede inizio alla campagna violenta di manifestazioni. Provando a mettere all’angolo il governo Maduro, convinti che il Venezuela non avrebbe accettato, chiesero la mediazione della Chiesa di Roma al negoziato, ma quando Papa Francisco inviò un suo delegato, alla prima riunione abbandonarono il tavolo e interruppero le trattative.
Negli ultimi mesi si è assistito ad un incremento delle manifestazioni violente perché lo scopo dell’opposizione é la caduta rapida del governo: la sua strategia, così come la sua unità interna, hanno respiro corto e, se non vincono a breve, c’è rischio che non vincano più. Non a caso alla reiterata disponibilità del governo di riattivare il dialogo, l’opposizione rifiuta e sceglie invece di aizzare le piazze.
Perché?
Per diversi motivi, tra i quali quello, appunto, della divisione al suo interno, riscontrabile tra l’altro nella lotta subdola tra l’ex candidato alla Presidenza Capriles e il fascista Leopoldo Lopez. Capriles, il cui carisma è in discesa, teme che Lopez possa utilizzare un suo cedimento al governo per strappagli la leadership e resta quindi sull’onda del rifiuto del dialogo nel timore di essere sconfessato dalle piazze dove si mescolano attivisti di destra e criminali in affitto.
E proprio nel racconto falsificato delle manifestazioni violente i media svolgono la seconda parte del compito assegnatogli. Dipingono le squadracce pagate dell’opposizione come fossero manifestanti spontanei e pacifici. Non parlano dell’abbondanza di pistole e molotov, di fionde e pietre, di spranghe e scudi; di due ragazzi bruciati vivi solo perché sospettati di essere “chavisti”, sempre dai “manifestanti pacifici”.
Meno che mai parlano dei paramilitari colombiani dediti agli assassinii mirati, tra questi quelli di deputati governativi assassinati fin dentro alle loro case. Infine, occultano le manifestazioni di massa a favore del governo, come quella di due giorni fa a Caracas con centinaia di migliaia di persone e dimenticano che, anche nella passata vittoria elettorale dell’opposizione, il margine era assai ridotto e che, lo si voglia o no, il paese è diviso in due come una mela.
Nell’area dedicata allo spaccio di fake news si distingue il “Gruppo Prisa”, ovvero il marchio editoriale al quale appartiene il quotidiano spagnolo El Pais. Legato oltre ogni decenza ad alcuni settori politico-finanziari spagnoli e statunitensi, da diversi anni si è messo al servizio dell’impero a stelle e strisce in ogni paese del continente latinoamericano. Per non dire di altre emittenti, come la tv nazionale cilena, che per corroborare le tesi di un reportage sulla violenza in Venezuela mise in onda immagini prese a Bogotà e Rio De Janeiro spacciandole come fossero di Caracas.
Ma anche i nostri media, Corriere e Repubblica in testa (cui si accoda – purtroppo – anche Il Fatto Quotidiano, per ignoranza redazionale nei temi di politica estera), svolgono il loro compitino da impiegati amanuensi della propaganda statunitense. Solo per fare un esempio, nel caso del fascista Leopoldo Lopez, arrestato, giudicato e condannato per istigazione all’odio e per responsabilità sia nei disordini (le guarimbas), sia negli omicidi di civili, i nostri eroi della “libera stampa” chiedono incessantemente il suo rilascio, sebbene sia stato considerato colpevole di tre omicidi.
Strano però, che quando sono stati inferti nove anni di carcere ad un manifestante italiano per il lancio di un estintore su un blindato dei carabinieri, la condanna venne salutata dagli stessi giornali come necessaria e congrua. Insomma, uccidere poliziotti e civili a Caracas viene considerata poco più che una ragazzata meritevole di assoluzione, mentre lanciare un oggetto contundente su un blindato dei carabinieri a Roma merita 9 anni di carcere.
La terza centuria si giova poi degli ex presidenti o ministri di paesi stranieri che, per arrotondare le già laute prebende, si mettono a disposizione degli Stati Uniti per combattere la guerra contro Caracas. Spiccano in questo ruolo gli spagnoli Josè Maria Aznar e Felipe Gonzales. Aznar non stupisce: i suoi rapporti con l’America latina sono sempre stati eccellenti con i settori più reazionari, soprattutto con il terrorismo cubanoamericano in Florida e con i paramilitari colombiani di Uribe e Mancuso in Colombia, quindi nessuna sorpresa per la sua posizione.
Per quanto riguarda invece l’ex socialista Felipe Gonzales, si deve ricordare che da Premier spagnolo diede l’autorizzazione alla costituzione illegale ed incostituzionale dei GAL, gli squadroni della morte governativi che uccidevano i dirigenti ETA: con che faccia oggi accusi Caracas di non rispettare la democrazia e i diritti umani, è un mistero. Per carità di patria non menzioniamo Casini, ci troveremmo peraltro in totale solitudine.
Ad occupare il fronte continentale latinoamericano ci sono le ONG americane come Human Right Watch e le organizzazioni regionali filo statunitensi, tra le quali spicca la OEA (Organizzazione degli Stati Americani) diretta da Luis Almagro, ex politicante uruguayano che ha aperto una guerra senza quartiere contro il governo Maduro. Nonostante l’organismo abbia nel suo statuto anche la difesa dell’integrità dei paesi membri, Almagro, che svolge ormai da mesi il ruolo di portavoce dell’opposizione venezuelana, si guarda bene dal chiedere dialogo e pacificazione, come il suo ruolo imporrebbe; accusa Caracas di ogni nefandezza chiedendo le dimissioni del governo e la fine del progetto politico bolivariano.
L’operato di Almagro è in totale osservanza di quanto impone la Casa Bianca. Con l’intento di isolare il Venezuela e renderlo così più vulnerabile, cerca da mesi d’imporre un voto dell’organizzazione. L’obiettivo è produrre una rottura che permetta ai paesi membri di decidere sanzioni contro Caracas e, eventualmente, di girarsi altrove nel caso di un intervento militare diretto, sia da parte della Colombia per procura che direttamente da parte statunitense, visto che dispone di 7 basi militari in territorio colombiano.
Ma Almagro al momento colleziona sconfitte, perché nessuna delle sue proposte (formalmente avanzate da Messico e Stati Uniti, e sostenute dai dodici paesi che propongono la linea dura nei confronti di Maduro) ha ottenuto il sostegno necessario tra i trentaquattro membri. Il gruppo dei paesi alleati con Caracas, in tutto otto, ha invece appoggiato una proposta in cui si auspica la fine della violenza e la ripresa del dialogo.
L’inginocchiamento di fronte ai voleri di Washington ha spaccato in due l’istituzione che presiede – e della quale dovrebbe garantire l’unità come condizione per l’esercizio di un ruolo terzo da tutti riconosciuto – e ha con ciò sancito la fine della sua credibilità personale e politica. Rivelatosi tra i peggiori interpreti del ruolo nella storia dei suoi segretari generali, ha trasformato l’OEA nella sezione esteri della Casa Bianca, così riportando l’organismo multinazionale alla scarsa considerazione che ha sempre riscosso nelle più importanti cancellerie del continente.
A tutto ciò si aggiunge l’aspetto paradossale della faccenda. Si perché ad Almagro si associano alcuni paesi che, quanto a diritti umani e democrazia, meriterebbero una censura da parte di tutta la comunità internazionale, non solo della stessa OEA. Pur volendo stendere un velo pietoso sul Cile della Bachelet, primo per povertà e repressione (di studenti e indios Mapuches) nel Cono Sud, o soprassedere sul Brasile del golpista ultracorrotto Temer, la cui repressione brutale delle manifestazioni che ne chiedevano le dimissioni non ha mai ricevuto una parola di condanna da parte di Almagro, il paradosso più vistoso è quello del Messico, lanciato in una offensiva senza precedenti contro il Venezuela. L’intento è quello di inginocchiarsi verso gli USA, nella speranza di ricevere meno ceffoni nel negoziato bilaterale con Washington e che le minacce di Trump sul muro e sul Nafta restino solo propaganda elettorale.
Certo, ci si aspetterebbe che la 14esima economia del pianeta reagisse con maggior dignità al disprezzo esibito da Trump, ma è pur vero che l’attitudine servile è connotato preponderante del presidente Pena Nieto. Ad ogni modo è divertente sentir parlare il Messico di democrazia e diritti umani, dato che nel mondo si posiziona subito dopo Iraq e Siria per il numero di vittime civili; che conta oltre 22.000 scomparsi negli ultimi 6 anni; che assassina e fa scomparire 43 studenti ad Ayotzinapa; che ha il triste record di primo paese al mondo per femminicidi (tra i 5 e i 7 al giorno dal 2005 ad oggi); che è al primo posto per la corruzione e l’impunità dei corruttori e dei corrotti; che esibisce un livello profondo di vincoli tra narcos e politici che ne fanno un narco-stato; che si colloca tra i peggiori al mondo per l’orrore del suo sistema penitenziario e l’amministrazione della giustizia, che risulta tra i primi in Occidente per frodi elettorali e povertà cronica e che, oltretutto, è leader mondiale di produzione, commercio ed esportazione di droga. Ebbene, il suo ministro degli Esteri, Luis Videgaray, accusa il Venezuela di mancato rispetto dei diritti umani e scarsa democrazia.
Incurante persino dei doveri di anfitrione, l’altro ieri, al Vertice di Cancun dell’OEA, Videgaray ha rilanciato le sue accuse a Caracas. Ma, stupidamente, lo ha fatto nelle stesse ore in cui in Messico si svelava la scoperta di un programma d’intercettazione telefonica governativo destinato ai dirigenti degli organismi a difesa dei diritti umani e ai giornalisti più autorevoli.
Con un software chiamato Pegasus, d’invenzione e brevetto israeliano, il governo messicano tiene illegalmente sotto controllo e intercettati centinaia di persone cui ne minaccia l’integrità fisica. C’è da sottolineare come l’articolo 66 della Costituzione messicana proibisca categoricamente la violazione della riservatezza personale, ma è chiaro l’intento di cercare elementi utili alla ricattabilità dei giornalisti più autorevoli affinché scrivano solo quello che al governo conviene. Il New York Times di ieri ha esposto in un lungo articolo la vicenda e i giornalisti messicani hanno presentato tutti gli elementi del caso in una conferenza stampa. Le smentite del governo messicano non hanno potuto smentire un bel nulla e anzi, com’era prevedibile, nessuno si è sorpreso.
L’aggressione a Caracas si spiega con l’intenzione di Washington di tornare a mettere le mani sul subcontinente. Gli Stati Uniti dirigono la guerra al Venezuela perché vogliono rientrare in possesso del suo petrolio, ridurre la presenza di Russia e Cina nel continente e, nel contempo, interrompere la stagione dell’unità latinoamericana. Per questo attaccano il Venezuela, provocano Cuba e minacciano il Nicaragua, ammoniscono la Bolivia e provano ad agire in Ecuador.
Alcuni tra i paesi che dovrebbero difendere la dignità e la sovranità latinoamericana si prestano al volere imperiale: non hanno cominciato oggi e non finiranno domani, la vocazione alla servitù si alimenta con la corruzione e venirne a capo sarà questione di generazioni.
Altri però, dimostrano che il Venezuela non è solo, che un continente di solidarietà e di scambi tra eguali è presupposto di un territorio libero. Resistere all’aggressione al Venezuela oggi significa anche permettere di resistere a quelle che verranno verso gli altri pesi latinoamericani. E’ perciò resistenza che diventa prospettiva politica, è cura del futuro di tutti. Di chi lo ha già capito e di chi lo capirà.
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