Kalecky e la (vera) piena occupazione impossibile…senza (vera) sovranità
di LUCIANO BARRA CARACCIOLO
1. Ci siamo imbattuti in un’interessante questione storico-politica e, naturalmente, economica, sollevata in questo scambio di tweet:
E se il fascismo fosse la garanzia richiesta dalle classi dominanti italiane in cambio di un ritorno alle politiche di piena occupazione?https://t.co/t4rhajHTJz
— Wendell Gee (@WendellGee1985) 14 febbraio 2018
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2. Anzitutto per poter porre complessivamente la questione in questi termini (cioè estesi all’ipotesi formulata nella risposta), occorrerebbe che fossero attualmente riconoscibili una serie di presupposti di fatto, politico-economici, di non secondaria importanza, considerata l’attuale situazione italiana (di accentuata e irrinunciabile de-sovranizzazione, persino caldeggiata nella sua ulteriore accentuazione), e cioè:
a) che esistano delle classi dominanti ancora italiane, o, quantomeno, tali per cui l’italianità delle stesse rivesta tutt’ora un ruolo decisionale autonomo nella formazione di un indirizzo politico sostanzialmente predeterminato, da decenni, nell’alveo delle istituzioni Ue e, più precisamente, dell’eurozona (essendo l’appartenenza a quest’ultima, un aspetto preponderante rispetto alla determinazione dell’indirizzo politico, come abbiamo visto più volte e, funditus, in questo post):
b) che sussistano elementi manifestati, dinnanzi all’opinione pubblica – e quindi tracciabili in sede mediatica – di una tale volontà, da parte di una classe dirigente nazionale (effettivamente titolare del potere decisionale);
c) che, data una (difficile) risposta positiva ai primi due quesiti, il concetto di piena occupazione inteso (da tale classe dirigente) sia quello, – suggerito nel tweet di risposta mediante un link esplicativo-, definito nel ben noto scritto di Kalecky, anch’esso qui molte volte citato.
3. Tale scritto espone una tesi che, – sotto il profilo qui rilevante (l’articolo di Kalecky tratta in effetti di una molteplicità di problemi politico-economici relativi al modo ed alla “misura” in cui l’intervento statale possa determinare il pieno impiego, evitando effetti inflazionistici)-, può riassumersi, a sua volta, in due proposizioni:
i) pieno impiego, secondo Kalecky, è quella situazione in cui il licenziamento cessa di essere una misura disciplinare (onde l’offerta di lavoro trova un’immediata “domanda”, anche in caso di pregressa cessazione del rapporto determinata dall’esercizio di qualsivoglia tipologia di potere negoziale di recesso da parte del datore; id est; una situazione di assenza anche della c.d. disoccupazione “frizionale”);
ii) che la situazione del mercato del lavoro di “pieno impiego” sia tale da condurre i capitalisti (“gli uomini d’affari”), alla seguente, ed apparentemente paradossale, preferenza.
3.1. Ecco come questa preferenza ci viene descritta da Kalecky:
“E’ vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego di quanto sono in media in una condizione di laisser-faire; e anche l’incremento dei salari risultante da un più forte potere contrattuale dei lavoratori è più probabile che incrementi i prezzi anziché ridurre i profitti, e danneggi così solo gli interessi dei rentier.
Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più apprezzate dagli uomini d’affari dei profitti (ndQ.; poco prima K. precisa: “Abbiamo considerato le ragioni politiche dell’opposizione contro la politica di creare occupazione con la spesa del Governo. Ma anche se questa opposizione fosse superata – come potrebbe benissimo essere superata sotto la pressione delle masse – il mantenimento del pieno impiego causerebbe cambiamenti sociali e politici che darebbero un nuovo impulso all’opposizione degli uomini d’affari“).
Il loro istinto di classe gli dice che un durevole pieno impiego non è sano dal loro punto di vista e che la disoccupazione è una parte integrante di un normale sistema capitalista”.
Ne discende, che, data questa preferenza, – che secondo Kalecky corrisponde ad un un principio “morale” della massima importanza-, laddove appunto sia garantita la predominanza politico-istituzionale dell’etica capitalista, come in effetti accade oggi in Italia in virtù dell’azione pluridecennale del vincolo esterno €-monetario, per rentiers e uomini d’affari, è il concetto di “piena occupazione” ad essere diverso da quello descritto da Kalecky.
4. In particolare, tra il concetto keynesian-kaleckiano di “pieno impiego” e quello neo-liberista attualmente recepito dai trattati €uropei, nell’ormai noto art.3, par. 3 del TUE (qui, p.1, ex multis), esiste una differenza fondamentale (che pone capo a due diverse concezioni della società e del welfare), tale che essi possono essere accomunati solo nel “nomen” ma nella sostanza risultano essere “due concetti diversi e incompatibili di “piena occupazione“.
Ed infatti, per la visione propria del monetarismo e della neo-macroeconomia classica, (recepita appunto nei trattati), la piena occupazione è solo quel livello di occupazione compatibile con il prioritario mantenimento del tasso di inflazione preordinato alla stabilità dei prezzi (cioè assenza di variazioni significative dell’inflazione stessa), e strumentale al mantenimento della stabilità finanziaria, e quindi monetaria, cioè alla preservazione della moneta unica. Questa stabilità finanziaria come condizione di mantenimento della moneta unica, a sua volta giustificativo del sistema dell’aggiustamento per via fiscale, è perfettamente descritto da Draghi; qui, p.1.
Da cui, nel quadro €uropeo di “piena occupazione”, si manifesta il concetto precettivo di NAIRU, cioè di alta disoccupazione strutturale, considerata tuttavia “piena” in quanto…non inflattiva; concetto di per sè in contrasto con gli artt. 1, 4 e 36 della nostra Costituzione; cioè col diverso modello keynesian-kaleckiano, e kaldoriano, in essa normativamente recepito.
5. Svolte queste premesse, nell’attuale assetto politico-istituzionale, determinato dalla prevalente volontà della classe dirigente italiana di permanere nella moneta unica, possiamo riassuntivamente rispondere alla sequenza di domande poste all’inizio di questa analisi (e aggiungere altre considerazioni coerenti con questo quadro).
Una classe dominante italiana, in senso economico, è probabilmente tutt’ora operante.
La sua identità affonda le sue radici nel c.d. Quarto Partito, quale “definito” da De Gasperi, nella sua azione politica costante (di sicura opposizione e boicottaggio della realizzazione del modello costituzionale).
L’assetto sostanziale dei rapporti di forza sociale risultante da tale azione, si può tendenzialmente assumere come “costituzione materiale”; almeno, come vedremo, nel senso inteso da Mortati. Dunque non in quello di una piena legittimità normativa sopravvenuta di tale assetto, cioè con la compiuta e definitiva riducibilità de facto della Costituzione formale a mera”costituzione programmatica”, o addirittura “aperta” (cfr; Mortati, “Istituzioni..” vol.1, pagg. 36 e 37). Almeno stando a quanto chiarì Calamandrei: qui, p.3.
Certo, tale tendenziale “costituzione materiale” è nel senso di un controllo istituzionale da parte di questa classe di “timocrati” (la confessione di De Benedetti nei verbali Consob, ne costituisce probabilmente la forma più esplicita e avanzata di autoaffermazione pubblica, persino più forte della storica dichiarazione di De Gasperi).
6. Diverso discorso, invece, riguarda la “classe politica” (cioè quella preposta formalmente alle istituzioni di vertice costituzionalmente previste, ed individuata in apice dal processo elettorale): l’affermazione di una costituzione materiale neo-liberista, per prevalente e crescente azione del “vincolo esterno”, esclude che si possa parlare di una classe politica ancora istituzionalmente dedita alla formazione di un indirizzo economico-politico indipendente e costruito sull’interesse nazionale, quantomeno nella sua definizione risultante dalla Costituzione del 1948.
Ma, a ben vedere, questa subordinazione all’€uropa, è il frutto della preventiva affermazione di quella stessa costituzione materiale (come in effetti suggeriscono le “memorie” di Carli, qui, p.6, e la ricostruzione di Graziani), cioè dei rapporti di forza socio-economici, che viene a consolidarsi istituzionalmente nei trattati europei, fin dalla loro origine: siamo indubbiamente di fronte a un processo circolare, per cui la forza interna della timocrazia finanziaria-capitalistica (qui, p.7), detta la crescente desovranizzazione alla classe politica nazionale, – proponendosi fin dall’inizio come strumento privilegiato di contrasto del “comunismo”- ma in realtà propugnando, sempre ab initio, la restaurazione dell’ordine internazionale del mercato.
7. Volendo sintetizzare una risposta proprio alla questione considerata all’inizio, è evidente che, dato l’assetto timocratico e “antisovrano” attuale, il concetto di piena occupazione in senso kaleckiano sia fuori questione, come possibile obiettivo contemplato dalla classe dirigente nonché dalla classe politica di gran lunga prevalente.
Persino la rivendicazione di sovranità compiuta al di fuori di una consapevole enunciazione di voler mutare l’assetto costituzional-materiale sopra descritto, non genera una traiettoria incompatibile con l’impulso primo del processo che vede nella costruzione €uropea e nella moneta unica uno strumento potente di riassetto sociale, ma pur sempre uno strumento (tra i vari disponibili).
8. In particolare, manca l’idea stessa, culturale e programmatico-politica, che la disciplina del mercato del lavoro debba essere funzionale al pieno impiego in senso kaleckiano (v. sopra), e non invece subordinata all’interesse supply side: cioè di una parte per definizione prevalente, e che viene considerata formalmente equiparata all’interesse del lavoro, in un’accezione di eguaglianza formale di tipo paracorporativo.
9. Dunque, si manifesta attualmente (in modo più o meno politicamente consapevole) un’ipotesi in cui, un certo tipo di “sovranismo”, non risulta dissimile da quella impostazione neo-corporativa che ha contraddistinto autonomamente il modello tedesco (e austriaco, ad esempio), come ben evidenzia Eichengreen nella sua “Nascita dell’economia europea” (qui, pp.2-3); cioè un modello già capace di vita propria nell’ordoliberismo adottato a livello nazionale, e che venne successivamente trasposto come principio ispiratore della costruzione europea, passando per l’Atto Unico e Maastricht.
La posta in gioco, naturalmente, è la creazione di quella riaffermazione di potere, contrabbandata come “efficienza allocativa” che riproduce il lavoro-merce.
Dunque: la vicenda del fascismo non è analogicamente ricorrente, nei suoi elementi essenziali storicamente individuabili, nella situazione attuale.
Concordo con Massimo D’Antoni su questo punto fondamentale: non esiste una torsione “verso sinistra”, cioè verso gli interessi del lavoro e verso la socializzazione del potere politico-economico, che possa indurre la classe dirigente “materiale”, la timocrazia, a utilizzare un movimento politico in funzione di sedazione e neutralizzazione violenta di una tale evoluzione politica.
Neppure, abbiamo visto, i titolari degli interessi prevalenti all’interno dei stessi rapporti di forza strutturati nella nostra società hanno motivo, ed urgenza (almeno allo stato attuale), di rinunziare al concetto “neo-classico” di piena occupazione (e di stabilità dei prezzi, connessa al rigido controllo della dinamica salariale cui è funzionale l’attuale, e praticamente incontestato, assetto normativo del rapporto di lavoro).
E naturale corollario di ciò è che neppure hanno ragione, tali stakeholders dominanti, di rinunziare al complemento di tale assetto: cioè lo smantellamento progressivo del welfare, cioè di sanità (salario indiretto) e pensioni (salario differito) pubbliche, assunti come deprecabili elementi di “resistenza” dei lavoratori (sia pur disoccupati e precarizzati) alla flessibilità competitiva del mercato del lavoro.
10. E se, quindi, non ci sono i presupposti per un interesse conservatore analogo a quello che incarnò la promozione e l’appoggio all’instaurazione del regime fascista (proprio per l’assenza di una sinistra in senso “economico”, cioè socialista e non cosmetico-globalista), non v’è, attualmente, neppure luogo per uno scambio tra “piena occupazione” e preservazione autoritaria dell’ordine sociale.
Quest’ultima prospettiva, in realtà, è più adatta a descrivere l’avvento del nazional-socialismo: cioè, come abbiamo visto in questo e quest’altro post, un “ribaltamento” della forma di Stato (da liberale a totalitario) conseguente ad una fase di applicazione delle politiche neo-classiche di austerità e pareggio di bilancio come reazione pro-ciclica (efficiente-allocativa) conseguenti ad una crisi economico-finanziaria.
La “piena occupazione” di Hitler era un obiettivo al quale proprio l’uso dello strumento militar-poliziesco, consentì di risultare pienamente compatibile con la prosecuzione di una politica di salari reali sostanzialmente inferiori alla crescita nominale della produttività, e anzi, improntata all’imperativo “popolo tedesco esporta o perirai!“, unita alla mai avvenuta rinuncia al gold standard, accompagnata alla (sola) espansione della spesa pubblica in riarmo ed al simultaneo crescente uso di lavoro forzato schiavile in danno delle minoranze invise all’ideologia di facciata del regime.
Un’ideologia che, realisticamente, si può definire sovrastrutturale, perché comunque ben attenta all’equilibrio dei costi del processo produttivo consentito da questo sfruttamento disumano, combinato con la stagnazione salariale, e dei consumi interni (cfr.; pp.3-5), instaurativi di un’economia mercantilisca funzionale ad una “di guerra” a carattere imperialista.
Insomma, il trade-off “piena occupazione” (a salari costanti) vs. “disciplina nelle fabbriche” (ottenuta tramite la…Gestapo), in uno sforzo commerciale e militare di espansione verso l’esterno, non risulta attualmente all’orizzonte del panorama culturale e politico italiano.
Ma ancor più certamente, non lo è neppure lo schema “neutralizzazione della piazza operaia” vs. “accettazione di un sacrificio del principio rappresentativo elettorale” pur di avere la “governabilità”.
Oggi, la governabilità e il sacrificio della rappresentatività elettorale (delle classi lavoratrici), non hanno bisogno dell’autoritarismo poliziesco statalizzato e del “partito unico” per essere preservati. Basta la profonda interiorizzazione di massa (ovvero “proiezione identificativa degli oppressi”) della propaganda pluridecennale in cui è consistita la “rivoluzione liberale“.
Certo, fuori dalla moneta unica questo controllo propagandistico perderebbe molta della sua efficacia (fondata sul ricatto della paura): ma le conseguenze di una tale perdita sono ben lungi dall’essere potenzialmente in atto.
Cosa potrebbe accadere in questa futura evenienza, peraltro, è un futuro tutto ancora da scrivere. Ed in definitiva, dipende dalla potenziale riemersione della coscienza politica della classe lavoratrice nazionale…cioè della sovranità democratica costituzionale.
Fonte: http://orizzonte48.blogspot.it/2018/02/kalecky-e-la-vera-piena-occupazione.html
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