Sulla dottrina marxista dello Stato. Una nota nel centenario della Rivoluzione d’ottobre (2a parte)
di COSTITUZIONALISMO (Massimo Pivetti)
4. La tesi dell’incompatibilità tra “Stato” e “libertà”
Estratto. La nota discute criticamente la dottrina marxista dello Stato quale venne sviluppata da Lenin alla vigilia dello scoppio della Rivoluzione d’ottobre sulla base delle idee principali di Marx ed Engels sulla questione. Si argomenta che questa dottrina, a partire dalla sua tesi centrale di un’incompatibilità tra la nozione di Stato e quella di libertà, non ha reso nel complesso un buon servizio alla causa della classe lavoratrice nel capitalismo.
Sommario: 1. Due compiti della sinistra; 2. Una cultura borghese illuminata e la sua estinzione; 3. Sulle basi culturali dell’azione politica della sinistra; 4. La tesi dell’incompatibilità tra “Stato” e “libertà”; 5. Dottrina marxista dello Stato ed esperienza storica; 6. Influenza negativa della dottrina.
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Consideriamo un po’ più da vicino la dottrina marxista dello Stato, quale la troviamo ricostruita e sviluppata da Lenin in Stato e rivoluzione (1917) sulla base degli scritti più rilevanti di Marx e Engels sulla questione[4]. In essa si riconosce che una repubblica democratica sia la forma migliore di Stato per il proletariato nel capitalismo: il peso dei rapporti capitalistici di produzione e distribuzione sulla massa del popolo è minore nella repubblica borghese più democratica che in quella meno democratica. Lo Stato nasce dal bisogno di tenere sotto controllo e moderare gli antagonismi di classe, sicché la natura dei
suoi interventi dipende dai rapporti di forza effettivi tra di esse e contribuisce a sua volta a determinarli. Engels osserva al riguardo che vi sono periodi in cui l’equilibrio tra le classi contrapposte è tale da far apparire lo Stato come un mediatore al di sopra delle parti; in realtà non lo è mai – egli argomenta – ed interviene più a favore dell’una o dell’altra a seconda, appunto, dei loro rapporti di forza. In assenza dunque delle condizioni per la distruzione dello Stato borghese, per la classe lavoratrice si sarebbe trattato di riuscire a orientarne almeno in parte il potere a proprio favore. Non viene insomma negata l’importanza per il proletariato di cambiamenti dei rapporti di forza in vista del conseguimento, attraverso lo Stato, di miglioramenti nelle sue condizioni generali di vita.
Tuttavia oggi possiamo affermare che nel corso degli ultimi 70 anni la dottrina marxista dello Stato non ha reso nel complesso un buon servizio alla causa della classe lavoratrice nel capitalismo. Con la sua insistenza su un futuro di libertà in cui la macchina dello Stato sarebbe stata relegata «nel museo delle anticaglie, insieme al telaio a mano e all’aratro di bronzo» (Engels), essa ha contribuito suo malgrado alla persistenza di un diffuso antistatalismo nella cultura di sinistra. La tesi di un’incompatibilità prospettica tra la nozione di “libertà” e quella di “stato” – la tesi che «non appena diverrà possibile parlare di libertà lo stato come tale avrà cessato di esistere» (Engels), che «allorquando ci sarà libertà, non ci sarà più alcuno stato»[5] – ha contribuito a relegare in secondo piano la consapevolezza che, nel capitalismo, è soprattutto attraverso il potere dello Stato che la classe lavoratrice può riuscire a ridurre la pressione su di essa esercitata dalla borghesia.
La dottrina marxista dello Stato postula che esso non potrebbe che estinguersi quando non vi fossero più classi. Il comunismo renderebbe lo Stato completamente inutile perché non ci sarebbe più alcuna classe da sopprimere. Ma tra la borghesia e il proletariato c’è un’asimmetria importante che la sinistra di classe in Europa e altrove ha paradossalmente perso di vista: mentre il secondo può fare a meno della prima – ossia può “sopprimere” i capitalisti – la prima non può sopprimere il secondo senza sopprimere anche se stessa. Nel conflitto di classe, in altre parole, la borghesia non può andare “fino in fondo” ed è pertanto condannata a fare continuamente i conti col rischio di essere soppressa come classe. Proprio questa asimmetria è dopo tutto la base della possibilità per la classe lavoratrice di riuscire a condividere in parte con la borghesia il potere dello Stato, ossia la base di ogni conquista importante che essa riesca a strappare ai capitalisti e ai loro rappresentanti. L’antagonismo di classe deve infatti essere continuamente tenuto sotto controllo e contenuto, con mezzi che dipendono di volta in volta dalle «forze relative dei combattenti» (Marx); è appunto attraverso la condivisione del potere dello Stato che ha luogo questo contenimento.
5. Dottrina marxista dello Stato ed esperienza storica
Ma oltre ad aver contribuito suo malgrado all’antistatalismo diffuso nella cultura di sinistra, si può dire che la dottrina marxista dello Stato contenga al suo interno dei limiti che oggi possiamo ben cogliere alla luce dell’esperienza storica. Perché mai lo Stato dovrebbe tendere ad estinguersi a seguito della socializzazione dei mezzi di produzione e del superamento dell’antagonismo di classe? L’esperienza accumulatasi dalla Rivoluzione d’ottobre sembra aver privato di ogni solido fondamento la tesi che una società senza classi non abbia bisogno dello Stato.
La ragione più ovvia è quella che venne indicata da Stalin nel suo rapporto al 18° Congresso del PCUS nel marzo del 1939[6]. La tesi dell’estinzione dello Stato poggiava crucialmente sull’ipotesi di una vittoria della rivoluzione su scala mondiale, sicché ciascun paese socialista sarebbe stato circondato da altri paesi socialisti. Altrimenti, l’accerchiamento capitalista e la connessa minaccia esterna rendeva del tutto inconcepibile che all’interno di un paese divenuto socialista lo Stato potesse iniziare ad esservi relegato nel “museo delle anticaglie”. Ci troviamo qui di fronte, non tanto all’impossibilità del socialismo in un paese solo, quale era stata sostenuta da Trotzkij[7], quanto all’impossibilità dell’estinzione dello Stato nel socialismo in un solo paese[8].
Più complesse sono le ragioni interne, connesse con il funzionamento dell’economia e della società socialista, che rendono difficilmente concepibile l’estinzione graduale dello stato proletario prodotto dalla vittoria della rivoluzione. La dottrina marxista dello Stato considera il potere politico come l’espressione ufficiale dell’antagonismo di classe nella società civile, sicché una volta che le classi fossero sparite anche lo Stato dovrebbe finire per subire la stessa sorte. Il punto è che classi e antagonismo di classe potrebbero riformarsi: perché mai la loro iniziale abolizione dovrebbe essere irreversibile? A meno di considerare l’avvento della società senza classi come una sorte di fase storica finale della civiltà dell’uomo, allo Stato proletario non sarebbe concesso di potersi gradualmente estinguere perché esso dovrebbe continuare a guardarsi dal rischio di essere sostituito da un altro tipo di Stato, e ciò che col tempo tenderebbe a cambiare sarebbe solo la forma di volta in volta assunta da questo rischio.
Ma i lavoratori avrebbero bisogno dello Stato non solo, inizialmente, per vincere la resistenza degli sfruttatori, e, in seguito, per continuare a difendersi dal rischio di essere scalzati dal potere. Dopo la sua conquista, i lavoratori avrebbero persistentemente bisogno dello Stato per far funzionare l’economia socialista. L’esperienza ha dimostrato che non si tratta di un bisogno temporaneo, destinato a venir meno col passare del tempo e il cambiare delle abitudini della massa del popolo; neppure, che si tratta di un compito meramente tecnico-amministrativo. Il fatto che il proletariato non abbia bisogno della borghesia, non comporta che l’organizzazione e il funzionamento dell’economia socialista possano fare a meno dello Stato e di un governo politico. Al contrario, le funzioni dello Stato non possono che aumentare a dismisura con la trasformazione del capitale in mezzi di produzione di proprietà collettiva. Anche se le decisioni principali sono prese dai
lavoratori, organizzati in «corpi simultaneamente legislativi e esecutivi» (Marx), sul modello della Comune di Parigi, alla macchina dello Stato borghese deve sostituirsi una macchina capace di tradurre quelle decisioni in produzione effettiva di beni e servizi e nella loro distribuzione tra la popolazione; una macchina composta oltre che di tecnici, ingegneri, agronomi etc., di funzionari pubblici di ogni ordine e grado – non importa quanto “revocabili e modestamente pagati”[9]– capaci di coordinare l’intero processo produttivo della nazione per dare esecuzione concreta alle istruzioni dei lavoratori.
L’eliminazione delle classi e dello sfruttamento non elimina poi i problemi del controllo e della disciplina dei singoli lavoratori nel processo produttivo. Si tratta di problemi che cambiano di natura ma che non spariscono nell’economia socialista; essi tendono piuttosto a divenire più acuti a causa dell’assenza della disciplina capitalistica di fabbrica connessa con la minaccia della disoccupazione, un’assenza che deve essere sostituita da qualche forma più complessa e politica di controllo sui singoli lavoratori da parte della collettività – ossia, appunto, attraverso «lo speciale apparato coercitivo che si chiama stato»[10]. L’esperienza ha mostrato che forme di “autocoercizione”, come le gare di emulazione socialista tra i lavoratori, non sono riuscite alla lunga ad assicurare l’autodisciplina richiesta; in particolare, non sono riuscite a contenere la tendenza dei lavoratori a “risparmiarsi” il più possibile nella sfera della produzione – tendenza naturale in qualsiasi economia industrialmente sviluppata, non importa se capitalista o socialista, in cui la grande maggioranza dei lavori non presenta alcun interesse per chi li svolge, a parte ovviamente quello di costituire fonti di reddito.
Di fatto, si può affermare che la convinzione di Engels, condivisa da Lenin, secondo cui l’estrema semplificazione delle funzioni dello Stato nel socialismo avrebbe fatto loro perdere ogni carattere politico, trasformandole in semplici funzioni amministrative che tutti sarebbero stati in grado di svolgere[11], sia stata completamente invalidata dall’esperienza delle difficoltà crescenti, non solo tecnico-amministrative ma politiche, incontrate dalla società socialista sia nella pianificazione centrale del processo produttivo che nella gestione dei problemi del controllo e della disciplina. L’esperienza ha mostrato che con la scomparsa delle classi lo Stato cambia ovviamente natura ma non può tendere ad estinguersi. Semplicemente, il suo ruolo politico primario cessa di essere quello di moderare l’antagonismo di classe affinché non sia messo a repentaglio l’ordine borghese e diviene quello di difendere il nuovo ordine dalla minaccia esterna e di farlo funzionare al meglio per riuscire a preservarlo.
6. Influenza negativa della dottrina
Si è suggerito sopra che la tesi di un’incompatibilità di fondo tra la nozione di Stato e quella di libertà e l’insistenza su un futuro di libertà in cui la macchina dello Stato sarebbe
stata relegata nel museo delle anticaglie non abbiano reso un buon servizio alla causa del proletariato nel capitalismo. Torniamo brevemente sulla questione a conclusione di questa nota.
Negli scritti di Engels sulla questione dello Stato e in Stato e rivoluzione vengono criticati sia il punto di vista di Kautsky che quello anarchico o “antiautoritario”[12]. Ma la critica è ben più aspra, e la presa di distanza decisamente più marcata, nei confronti del primo che del secondo. La posizione di Kautsky viene ripetutamente definita come “opportunista”, l’obiettivo del proletariato nelle condizioni date non potendo per lui essere la distruzione del potere dello Stato ma il cambiamento dei rapporti di forza al suo interno in vista di concessioni specifiche da parte del governo in carica o la sua sostituzione con un altro meno ostile al proletariato[13]. Il contrasto con gli “antiautoritari”, invece, non sussisterebbe se essi si limitassero a predicare contro l’autorità politica, contro lo Stato:
«Tutti i socialisti – aveva scritto Engels ricevendo alla vigilia della Rivoluzione d’ottobre la piena approvazione di Lenin – sono d’accordo sul fatto che lo stato, e con esso l’autorità politica, sparirà come risultato della rivoluzione sociale, ossia che le funzioni pubbliche perderanno il loro carattere politico per essere trasformate in semplici funzioni amministrative». Gli “antiautoritari” sono criticati in quanto propugnano l’estinzione immediata dello Stato, sostenendo che la sua abolizione possa e debba avvenire anche prima che siano state abolite le condizioni che ne hanno determinato l’esistenza. Ma la dottrina anarchica, anche se concepisce la fine dello Stato come l’atto iniziale della rivoluzione sociale, anziché come l’esito di un processo graduale di estinzione automatica, condivide pur sempre con la dottrina marxista l’obiettivo dell’abolizione di ogni autorità politica.
Sarebbe difficile negare l’influenza negativa esercitata da questo denominatore comune delle due dottrine sulla cultura generale della sinistra; il contributo da esso dato alla sua inattitudine a prefigurare autonomamente delle soluzioni progressive dei principali problemi sociali – delle soluzioni capaci in particolare di contrastare, attraverso il rafforzamento dello Stato, un crollo del potere politico-contrattuale del lavoro dipendente come quello cui abbiamo assistito all’interno del capitalismo avanzato nel corso degli ultimi decenni. La dottrina marxista dello Stato, in altri termini, non può considerarsi estranea alla visione dell’intervento statale in funzione dell’interesse collettivo come «una gigantesca mistificazione»[14], né, più in generale, alla diffusa insofferenza “di sinistra” verso ogni forma di autorità e di potere.
NOTE
[2] In particolare della sua Accumulazione del capitale del 1913 e dell’Anticritica pubblicata postuma nel 1921 (entrambe le opere sono state pubblicate in Italia da Einaudi nel 1960 con una introduzione di P.M. Sweezy).
[3] Cit. in M. Beer, The Life and Teaching of Karl Marx, International Publishers, New York, 1929, p. 183. La maggior parte dei membri inglesi del comitato direttivo della Prima Internazionale provenivano dalla Universal League for the Material Elevation of the Industrious Classes: erano noti capi sindacali, ex seguaci di Owen e del movimento cartista, movimento il cui carattere può considerarsi particolarmente ben illustrato dalle parole pronunciate nel 1838 a Manchester da un oratore cartista di fronte a 200.000 lavoratori: «Il Cartismo, amici miei, non è un movimento politico che punti a strappare dei successi elettorali. Il Cartismo è una questione di coltello e forchetta: la Carta significa un alloggio decente, cibo e bevande di buona qualità, prosperità e una giornata lavorativa più corta» (cit. in F. Engels , The Conditions of the Working Class in England in 1844 (1845) , Oxford University Press, Oxford, 1993, p. 237).
[4] Si farà riferimento all’edizione inglese di Stato e rivoluzione, corredata di numerose e utili note redazionali, contenuta nel secondo volume di The Essentials of Lenin in Two Volumes, Lawrence & Wishart, Londra, 1947. Gli scritti di Marx e di Engels in base ai quali Lenin illustra e sviluppa in Stato e rivoluzione la dottrina marxista dello Stato sono, del primo: Miseria della filosofia (1847), Manifesto del Partito comunista (con Engels, 1848), Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852), Lettera a Weydemeyer (5 marzo 1852), Critica del programma di Gotha (1875), Lettera a Kugelmann (12 aprile 1871) e La guerra civile in Francia (1891); del secondo: La questione delle abitazioni (1872), Dell’autorità (1874), Lettera a Bebel (18/28 marzo 1875), Anti-Dühring (1878), L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), Per la critica del progetto di programma di Erfurt (1891), Prefazione alla Guerra civile in Francia di Marx (1891), Introduzione a Cose internazionali estratte dal Volksstaat 1871-75 (1894).
[5] Lenin, The State and Revolution, cit., p. 206.
[6] I brani di quel rapporto che riguardano la dottrina di Marx e Engels sullo Stato sono riportati in una nota redazionale alle pp. 211 e 212 di The State and Revolution, cit., e sono tratti da J. Stalin, Problems of Leninism, ed ingl. 1943, pp. 656-7 e 662. Ampi brani del rapporto di Stalin al 18° Congresso sono riportati anche in Kelsen [1948], La teoria politica del Bolscevismo e altri saggi di teoria del diritto e dello Stato, a cura di R. Guastini, il Saggiatore, Milano, 1981, pp. 62-5.
[7] Cfr. L. Trotzkij, Il “socialismo in un paese solo” (1936), in La rivoluzione permanente, Einaudi, Torino, 1967.
[8] Kelsen osserva che la posizione sostenuta da Stalin al 18° Congresso rappresenta «davvero un mutamento radicale della dottrina sviluppata da Marx ed Engels, che evidentemente non previdero, o non presero in considerazione, la situazione che sarebbe esistita nel caso che il socialismo fosse stato realizzato solo in uno Stato circondato da Stati capitalistici» e aggiunge che «Ciò che Stalin disse dello Stato sovietico è vero pure rispetto al diritto sovietico, poiché lo Stato non può venire separato dal diritto. Quando lo Stato, e quindi il diritto, viene riconosciuto come un’istituzione essenziale, allora non c’è
alcuna ragione politica per negarne il carattere normativo» (H. Kelsen [1955], La teoria comunista del Diritto, Edizioni di Comunità, Milano, 1956, pp. 171-2). Qualche anno prima Kelsen aveva indicato «questa ‘lacuna’ della teoria marxista dello Stato: i fondamenti del socialismo scientifico ignorano la necessità di conservare la macchina coercitiva dello Stato anche dopo l’instaurazione del socialismo, laddove tale obiettivo sia raggiunto solo entro un singolo Stato. Tale lacuna non fu colmata da Lenin. … Di conseguenza, Stalin deve correggere non solo Marx ed Engels, ma anche – compito alquanto delicato per un bolscevico – Lenin» (Kelsen, La teoria politica del Bolscevismo e altri saggi, cit., p. 63).
[9] The State and Revolution, cit., p. 174. [10] Ibid., p. 202.
[11] Cfr. ibid., pp. 182, 210-11 e 222-23. [12] Si veda ibid., pp. 182-3 e 218-223.
[13] Lenin critica come opportuniste specialmente le tesi sostenute da Kautsky nel 1912 sulla Neue Zeit in polemica con Antonie Pannekoek (cfr. Lenin, The State and Revolution, cit., pp. 218-23).
[14] L. Althusser, Marx nei suoi limiti (1978), Mimesis althusseriana, Milano, 2004, p. 133.
Fonte: http://www.costituzionalismo.it/articoli/649/
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