È arcinoto che la società moderna si dibatte nella completa inversione di ogni principio, nella totale sovversione di ogni diritto di natura, nel completo rovesciamento di ogni regolare svolgimento delle cose. Accade, dunque, senza alcuna meraviglia, che le “buone notizie” possano provocare un’improvvisa caduta degli indici di borsa. Come è possibile?

Il problema sta nella scissione tra il mondo della finanza e la sfera dell’economia reale: la prima, da “serva” della seconda, è divenuta un mostro rapace che tutto divora, abbattendosi come un uragano sui popoli e sulle loro culture. E capita, come all’inizio di questo mese, che il timore circa la fine dell’afflusso di denaro a basso costo – causa la nomina di Jerome Powell a nuovo governatore della Federal Reserve – unito alla stupefacente reazione al timido aumento dei salari, possa aver provocato il panico nei mercati finanziari. Non sarà mica che i lavoratori iniziano a respingere il decennale declino delle paghe e dello stato sociale? Non sia mai…!

Del resto, le ampie fortune accumulate al vertice della piramide sociale sono il risultato di una vasta operazione di sfondamento, a mezzo della quale la ricchezza prodotta dal lavoro, in tutto il mondo, confluisce da decenni nelle mani di una ristretta oligarchia. Gli anni ’80 del secolo scorso, infatti, avevano segnato l’inizio di una controffensiva di quei gruppi che sono espressione del grande capitale e della finanza speculativa; le insorgenze della classe operaia internazionale tra il 1968 e il 1975 avevano ottenuto importanti risultati sul piano pratico, ma la mancanza di una visione politica complessiva non rese possibile l’identificazione del vero nemico che stava per affacciarsi alla porta.

Il programma fu attuato attraverso un’offensiva scatenata dall’amministrazione Reagan, con al seguito il governo di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e con la diretta collaborazione delle burocrazie sindacali, divenute esecutrici dei dettami del capitale, dietro il pretesto di assicurare la competitività internazionale delle grandi imprese.

Il crollo delle borse del 19 ottobre 1987 fu il più grave della storia, ma non portò ad una più ampia crisi nell’economia reale. Infatti, l’attacco alle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia e la prima ondata di globalizzazione, segnata dal trasferimento della produzione industriale verso Paesi a basso costo di manodopera, risollevarono velocemente i profitti. Questo processo fu rinforzato dopo il 1991, con la liquidazione dell’Unione Sovietica e il conseguente abbandono da parte di Paesi come l’India e la Cina dei loro programmi di sviluppo regolati a livello nazionale, con la crescente svolta verso il libero mercato. Le banche centrali – inoltre – divennero garanti della “stabilità” dei mercati finanziari, mentre i grandi partiti ex-comunisti si riciclarono come nuovi camerieri della finanza.

L’accumulo di ricchezza a mezzo di speculazioni finanziarie, cresciuto a dismisura negli anni ’90, tuttavia, divenne un processo sempre più instabile, nella sua tendenza a dissociarsi dall’economia reale; e per volere dei mercati finanziari, furono eliminati gli ultimi residui di meccanismi regolatori che ponevano un freno alle operazioni predatorie, posti in essere a seguito della Grande Depressione negli anni Trenta del secolo scorso (si veda, ad esempio, l’abrogazione, nel 1999, del Glass-Steagall Act da parte dell’amministrazione Clinton).

Sia chiaro, perciò, che i grossi guadagni realizzati con gli oscuri giochi di borsa nel decennio successivo alla crisi del 2008 non sono l’esito di una crescita economica “reale”, ma il frutto di operazioni puramente speculative da parte delle principali banche d’affari, sovvenzionate dai governi e dalle banche centrali – che hanno dunque favorito una redistribuzione senza precedenti in favore di una ristretta oligarchia.

Il nervosismo dei mercati finanziari, nelle ultime settimane, scaturisce quindi dalla paura che siano ormai inefficaci i meccanismi impiegati negli ultimi quattro decenni per comprimere i diritti e le rivendicazioni del mondo del lavoro. Non ci può essere certo alcun “aggiustamento pacifico” in questo senso, dato che l’intero sistema che genera profitti finanziari è scosso dalle fondamenta a causa delle sue stesse contraddizioni. La prospettiva di un crollo intensifica i conflitti commerciali e valutari, indebolendo la fiducia nella stabilità del sistema monetario internazionale e minando la compattezza politica e sociale dei popoli occidentali.