Maggio 1968: rovesciare De Gaulle per sabotare l’asse Parigi-Mosca
di FEDERICO DEZZANI
Nella primavera del ‘68, l’Occidente è teatro di un’ondata di proteste studentesche e operaie che imprimono un cambiamento radicale alla società: “il principio di autorità”, tanto odiato dagli ambienti della finanza liberal, è scardinato in nome della “libertà”, rivoluzionando i rapporti all’interno della famiglia, tra i sessi e dentro le istituzioni. Ma le proteste del ‘68 hanno anche obiettivi contingenti, legati alla realtà storica-geopolitica del momento. Col celebre “maggio francese”, certamente la sommossa più imponente e radicale, si tenta di rovesciare “il dittatore” Charles De Gaulle, che nel 1966 è uscito dal comando integrato della NATO per rafforzare i legami con la Russia sovietica: è soltanto grazie a Mosca e alla sua influenza sui comunisti francesi se il generale si salva. Breve storia di una delle tante “rivoluzioni colorate” per sabotare l’alleanza tra Russia ed Europa occidentale.
“Les gauchistes” contro “l’Europe de l’Atlantique à l’Oural”
Queste primavera il ‘68 compie cinquanta anni. Metà secolo è già trascorsa da quelle proteste che, nate negli ambienti studenteschi ed allargatesi al mondo operaio, investirono l’Europa Occidentale e gli Stati Uniti, lasciando segni indelebili.
Il ‘68 fu infatti, analogamente al 1848, una grande “rivoluzione liberale”, con cui l’oligarchia finanziaria impose all’Occidente i propri valori universalistici, egualitari e socialisteggianti. Il grande bersaglio del 1968 è il “principio di autorità”, sinonimo, nel pensiero gnostico-massonico, di “maschio”: un prepotente attacco all’autorità, in tutte le sue sedi (famiglia, scuola, luoghi di lavoro, istituzioni, etc.) è quindi sferrato in nome della “libertà” e del sesso femminile. È il periodo in cui esplode il femminismo, accompagnato dalle campagne per l’aborto, per il divorzio, contro la violenza sulle donne, etc.
Merita di essere sottolineato come queste rivoluzioni “liberali”, pur trovando terreno fertile nel mondo creato dalla “modernità” (il mondo operaio, l’università di massa, i circoli intellettuali di sinistra e cosmopoliti) non siano affatto spontanee ma, al contrario, accuratamente preparate. Dietro alle proteste del 1968 c’è un’attenta pianificazione logistico-organizzativa che, grazie ad una rete capillare di agenti e al massiccio investimento di fondi, consente di mobilitare gli studenti/operai e teleguidare le proteste: come sempre, è sufficiente una minoranza “di professionisti”, stipendiata e addestrata, perché la “massa” segua. L’aspetto più interessante, però, è che dietro al 1968, come peraltro dietro a tutte le altre rivoluzioni “liberali”, si nasconde anche una meticolosa preparazione “culturale”: sono cioè studiate in anticipo “le idee” che animeranno le proteste e, attraverso i media e la scuola, si predispongono le menti delle persone alla rivoluzione incombente.
Un personaggio simbolo del 1968, forse qualcuno ancora lo ricorderà, fu il filosofo e sociologo di origine ebraica, nato in Germania e poi trasferitosi negli USA, Herbert Marcuse (1898-1979). Il “teorico” della rivoluzione studentesca sostiene che le società industriali progredite, siano esse capitaliste e comuniste, siano sostanzialmente repressive, basate cioè su quel principio di autorità tanto odiato dal pensiero gnostico-massonico: l’individuo è inquadrato, irregimentato e oppresso dalla società. Saltando così dal pensiero di Marx a quello di Freud, Marcuse incita al “grande rifiuto”, alla ribellione contro l’ordine vigente, per instaurare una società basata sul piacere e sulla soddisfazione degli istinti fondamentali (ciò che molti considererebbero semplice imbarbarimento). Ebbene Marcuse, dal cui pensiero avvelenato germoglierà anche il terrorismo degli anni di piombo, non è semplice studioso avulso dal contesto politico: agente dell’Office of Strategic Service (OSS) durante la guerra, Marcuse appartiene a quel milieu di intellettuali e professori tedeschi (Max Horkheimer, Theodor Adorno, etc.), noti come la “Scuola di Francoforte”, strettamente legati ai servizi segreti angloamericani1. Il filosofo del ‘68 lavora quindi per la CIA, come lo stesso movimento studentesco/operai, i suoi slogan, la sua retorica e le sue rivendicazioni sono un prodotto dell’establishment liberal.
Sulla natura gnostico-massonica del ‘68 e dei suoi effetti ci sarebbe molto da scrivere.
Tuttavia, il nostro obiettivo in questa sede è quello di collocare le proteste studentesche e operaie nel preciso contesto politico e geopolitico dell’epoca. Se il ‘68 è, nel medio-lungo periodo una rivoluzione “liberale” volta a scardinare il principio di autorità, nel breve periodo è una rivoluzione “colorata” tout court, per rovesciare l’ordine esistente, abbattere i governi, precipitare i rivali nel caos.
Negli Stati Uniti l’obiettivo delle proteste, alimentate dalla guerra del Vietnam e dalle tensioni razziali, è il repubblicano Richard Nixon, “fascista” secondo i canoni liberali. È però in Francia che il ‘68 assume le sembianze di vera e propria “rivoluzione colorata”, talmente violenta da far vacillare la Quinta Repubblica, aprendo così, negli ultimi giorni del maggio 1968, lo scenario di un collasso dello Stato. All’Eliseo siede allora il generale Charles De Gaulle e nel mirino dei “gauchistes”, dei sinistroidi, c’è proprio lui.
Perché le proteste sessantottine, eterodirette dai servizi atlantici, si abbattono con particolare veemenza contro la Francia e contro De Gaulle? Perché con l’incendio che ha il proprio focolaio iniziale nelle università e poi allarga alle fabbriche, si vuole distruggere il “regime gollista”? La risposta è di carattere squisitamente geopolitico e deve essere cercata nell’avversione delle potenze marittime (USA e Regno Unito) a qualsiasi alleanza continentale che possa diminuire il loro margine di manovra in Eurasia. Paralizzando la Francia, l’establishment liberal mira a rovesciare De Gaulle e sabotare sul nascere l’asse tra Parigi e Mosca, tra Francia ed URSS, capace di vanificare i piani atlantici per l’Europa (riunificazione della Germania, allargamento della CEE/UE, respingimento verso est della Russia).
L’eroe di “France Libre”, ritiratosi a vita privata nell’immediato dopoguerra, torna sulla scena quando il processo di decolonizzazione (Indocina e Algeria) travolge la debole e inconcludente Quarta Repubblica. Il primo giugno 1958 De Gaulle è nominato presidente del consiglio: deciso a sbarazzarsi delle pastoie del Parlamento, ostacolo a qualsiasi azione dell’esecutivo, il generale sottopone ai francesi l’approvazione di una nuova costituzione, che prevede una “quasi-monarchia” incentrata sulla figura del presidente. Con un plebiscito (80% di sì), nasce così la Quinta Repubblica.
Uscito dal pantano della guerra algerino con il riconoscimento dell’indipendenza all’ex-territorio metropolitano (1962), De Gaulle intraprende un percorso per riportare la Francia al rango di grande potenza: benché, infatti, Parigi figuri tra i “vincitori” della guerra e sieda nel consiglio di sicurezza permanente dell’ONU, la Francia è poco più che un satellite americano nel nuovo mondo bipolare. Consapevole che è interesse delle potenze marittime tenere la Francia in una condizione di subalternità, lasciando che la Repubblica Federale Tedesca si riarmi e torni a prosperare economicamente, De Gaulle definisce la propria strategia:
- è necessario svincolarsi dagli USA e contenere la libertà d’azione inglese sul continente;
- è necessario impedire (benché sia lecito dire l’opposto in pubblico) la riunificazione della Germania, caldeggiata dagli angloamericani;
- è necessario che la Francia si liberi da qualsiasi pregiudizio ideologico (usato dalle potenze marittime per spaccare l’Europa in due e tenere assoggetta la parte occidentale) e rafforzi i legami con l’Unione Sovietica o, come la chiama semplicemente De Gaulle, “la Russie”.
Pur avendo trovato rifugio in Inghilterra durante la guerra e pur avendo lanciato dai microfoni della BBC l’appello alla resistenza contro la Germania nazista, De Gaulle è sempre stato conscio dell’insidia rappresentata da Londra e Washington per la potenza francese: perciò, sin dagli esordi della sua carriera politica, coltiva un canale speciale con Mosca, cui, probabilmente, si devono molte delle sue fortune nel dopoguerra. Attraverso l’ambasciatore sovietico ad Ankara, Sergei Vinogradov, France Libre ottiene nel settembre 1941 il riconoscimento ufficiale del Cremlino, seguito, a distanza di tre anni, dalla firma del trattato franco-sovietico. Vinogradov, spostato nel 1953 a capo dell’ambasciata sovietica in Francia, gioca un sicuro ruolo anche nell’ascesa di De Gaulle ai vertici dell’Esagono: benché il Partito Comunista Francese (PCF) sia formalmente un integerrimo avversario del gollismo, è, in realtà, il suo miglior alleato.
Fautore, fin dai primi anni ‘50, de “l’Europe de l’Atlantique à l’Oural”, De Gaulle avvia il progressivo sganciamento della Francia dall’Alleanza Nord Atlantica: nel 1959 rifiuta di ospitare sul suolo francese testate nucleari americane, nel 1960 si oppone all’integrazione dell’aviazione militare francese nel sistema di difesa NATO, nel 1963 assume analoga decisione per le truppe francesi rimpatriate dall’Algeria. Nel 1966, infine, la “Ostpolitik” gollista fa il salto di qualità: poche settimane prima del suo viaggio in URSS, De Gaulle annuncia il ritiro della Francia dal comando integrato della NATO (scelta che sarà ribaltata soltanto nel 2007 da Nicolas Sarkozy).
Dal 20 giugno al primo luglio 1966, De Gaulle compie così la sua storica visita a Leningrado e Mosca, dove propaganda la visione dell’Europa “da un capo all’altro del continente”, contrapposta al rigido bipolarismo tanto caro alle potenze marittime; negli stessi giorni si assiste, anche sul piano militare, ad un avvicinamento tra Francia e URSS, che passa per la visita del generale Jacques Massu, comandante delle truppe francesi in Germania, al maresciallo Pyotr Koshevoy, insediato a Postdam e capo delle forze sovietiche nella DDR. In quegli anni è tale la sintonia tra Mosca e Parigi che, contrariamente alla cronaca degli ultimi anni (sostegno francese alla guerra in Libia e Siria), De Gaulle abbraccia la linea russa/sovietica persino in Medio Oriente: quando nel 1967 esplode la guerra dei Sei Giorni tra Israele e paesi arabi, URSS e Francia si trovano sul fronte opposto agli Stati Uniti d’America.
Finché l’asse Parigi-Mosca è saldo, le manovre angloamericani sono sistematicamente sabotate: De Gaulle si oppone all’ingresso di Londra nella CEE e, soprattutto, stronca la nascente Comunità europea di difesa (CED) che, consentendo a Bonn di riamarsi, avrebbe rappresentato una minaccia sia per l’URSS che per la stessa Francia.
Alle potenze marittime non rimane quindi che passare al contrattacco, per tentare di scardinate questa insidiosissima alleanza continentale: la data per le operazioni è fissata per i primi dei mesi del ‘68 quando, con un duplice attacco, la rivoluzione colorata di Praga e di Parigi, si tenterà di destabilizzare l’URSS e rovesciare “il regime gollista”.
Esula dal nostro articolo occuparci della “Primavera di Praga”: è sufficiente dire che le riforme “liberali” avanzate dal neo-segretario del Partito Comunista cecoslovacco, Alexander Dubcek, sono studiate ad hoc per spingere il Patto di Varsavia ad intervenire militarmente e regalare così all’Occidente l’assist per condannare l’Unione Sovietica, come puntualmente avverrà con l’ingresso in Cecoslovacchia di 20 divisioni sovietiche, bulgare, polacche e ungheresi.
È nostro interesse, invece, soffermarsi sul “maggio francese”, la rivoluzione colorata con cui il regime gollista è fatto vacillare a tal punto da rischiare di cadere: se si salva, è soltanto grazie al tempestivo intervento di Mosca ed alla sua pressione esercita sul Partito Comunista francese (PCF).
Del “maggio francese” bisogna evidenziare che:
- è una rivoluzione colorata finanziata dall’esterno, sia dagli angloamericani che dalla Repubblica popolare cinese di Mao Zedong (la Cina è allora già ai ferri corti con l’URSS);
- è gestita da un nocciolo di professionisti, attorno cui si aggrega la massa di studenti e operai;
- nasce come sommossa “sinistroide” (anarchici, maoisti, trozkisti, situazionisti) e collocandosi alla sinistra del PCF, cerca di scavalcare ed esautorare i comunisti che rispondono a Mosca;
- è animati da figure della sinistra “liberal”, espressione dell’oligarchia finanziaria atlantica, tra cui bisogna ricordare almeno Pierre Mendès France, esponente del Partito Radicale francese e acerrimo oppositore di De Gaulle, François Mitterrand, “discepolo” di Mendès e anch’egli instancabile rivale del generale, Daniel Cohn-Bendit, allora anarchico-marxista e elemento chiave delle proteste studentesche di Nanterre e Parigi (Cohn-Bendit diverrà, come molti altri “trozkisti”, un ardente europeista dopo il dissolvimento dell’URSS).
I disordini, scoppiati a marzo all’università di Nanterre e guidati dal “Mouvement du 22 mars” di Daniel Cohn-Bendit, si propagano velocemente alla capitale: il 3 maggio 1968 si registrano i primi incidenti alla Sorbona e, tra il 10 e l’11 maggio, sono erette barricate nel Quartiere Latino di Parigi, rispolverando una vecchia usanza rivoluzionaria già sperimentata nel 1848 e nel 1870. Il 13 maggio sfila per il centro di Parigi un’enorme manifestazione animata dai sindacati di sinistra (CGT e CFDT), concretizzando il peggior incubo delle autorità francesi: le proteste degli studenti, figli della borghesia bene, si saldano a quelle lavoratori, rischiando di paralizzare la Francia e gettarla nel caos.
Per scongiurare sul nascere questo scenario, il primo ministro francese, Georges Pompidou, apre i negoziati con i sindacati, concedendo un aumento dei salari: il sindacato comunista (CGT) sarebbe ben lieto che la base approvi l’intesa raggiunta, i cosiddetti accordi di Grenelles, ma gli operai, aizzati dai rivoluzionari di professione, la rifiutano, invocando il “governo popolare”.
Dopo il rifiuto degli accordi di Grenelles, 27 maggio 1968, la situazione in Francia precipita. L’anarchia si allarga a tutto il Paese; De Gaulle osserva sconsolato che i suoi ministri non gli obbediscono più e che le sue direttive rimangono inascoltate; Mitterand afferma che Stato ha cessato di esistere ed è tempo di una svolta a sinistra. Mentre si studiano i piani più disparati per mettere in sicurezza quel che rimane dello Stato (prelievo delle riserve della Banca di Francia, spostamento in provincia del governo, ricorso all’esercito per ristabilire l’ordine), il franco francese affonda sulle piazze finanziarie internazionali: le banche straniere lo rifiutano e persino la Banca Internazionale dei Regolamenti smette di intervenire sul mercato dei cambi per sostenerlo. Come ogni rivoluzione “colorata”, all’assalto della piazza si accompagna l’assalto della speculazione.
Non c’è alcun dubbio che sul finire di maggio, il partito comunista, se l’avesse voluto, avrebbe potuto rovesciare il regime gollista, marciando semplicemente sull’Eliseo. Ma il regime gollista è in realtà, come abbiamo sottolineato, un regime “gollista-comunista”: l’Unione Sovietica e, di conseguenza, il PCF, sono i maggiori sostenitori della politica estera anti-atlantica e filo-russa del generale De Gaulle. Per salvare la neonata Quinta Repubblica c’è quindi solo un modo: i comunisti devono assumere le redini della protesta, relegando ai margini i vari anarchici, trozkisti, maoisti, situazioni e esautorando i Mendès, i Mitterand e i Cohn-Bendit. Una volta che i comunisti (PCF e CGT) saranno i “padroni” della piazza, De Gaulle potrà attaccarli a testa bassa, sapendo che sono disposti a soccombere senza combattere, salvando così il regime gollista e l’asse Parigi-Mosca.
La strategia richiede un’azione coordinata tra l’Eliseo ed il Cremlino ed è all’origine del misterioso viaggio di Charles De Gaulle a Baden-Baden, quartiere generale delle forze armate francesi in Germania.
Il 28 maggio, il generale a capo delle truppe d’occupazione francesi, Jacques Massu, riceve a Baden-Baden il suo omologo sovietico, il maresciallo Pyotr Koshevoy: i due discutono della concitata situazione in Francia e, attraverso Koshevoy, Mosca ribadisce il suo sostegno a De Gaulle, assicurando che i comunisti non tenteranno di prendere il potere e assolveranno al ruolo di “capro espiatorio” della crisi. Il 29 maggio, con un’oculata manovra di depistaggio, De Gaulle “scompare” dai radar, gettando nel panico le più alte cariche dello Stato, compreso il primo ministro George Pompidou: molti lo credono diretto nella sua residenza privata, ma nella piccola Colombey-les-Deux-Églises non c’è traccia del generale. De Gaulle, senza averne parlato con nessuno, è in realtà su un elicottero che lo sta portando proprio a Baden-Baden. Il generale vuole sapere da Jacques Massu quali sono le intenzioni del Cremlino.
L’incontro di Baden-Baden, che dura poche ore, è decisivo: l’Unione Sovietica è sempre a fianco del generale. De Gaulle, perciò, riceve il via libera ad attaccare il PCF che, assunta la guida politica della “rivoluzione colorata” scatenata dagli angloamericani, si sacrificherà politicamente per volere di Mosca, salvando così anche il gollismo.
La mattina del 30 maggio, i principali quotidiani comunisti escono con un violento attacco contro “les gauchistes”, i sinistroidi: solo il Partito Comunista rappresenta gli interessi dei lavoratori, il falso profeta Marcuse ed il suo allievo Cohn-Bendit non servono la Rivoluzione ma agiscono contro la classe operaia, gli anarchici ed i trozkisti favoriscono la reazione ed indeboliscono il Partito comunista, unica forza rivoluzionaria, etc. etc.
Il colpo a sinistra, quello per neutralizzare i movimentisti al soldo della CIA, è sferrato. Ora è la volta del colpo a testa.
Sostenuto da un imponente manifestazione gollista, che porta in piazza oltre un milione di persone al grido “De Gaulle n’est pas seul”, il generale parla alla nazione smarrita, confermando che, anche questa volta, non si ritirerà. Annunciato il rimpasto di governo, lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale e le conseguenti elezioni legislative, De Gaulle può così sferrare, col placet di Mosca, un’invettiva contro il Partito Comunista francese, sebbene questo sia stato il suo più prezioso alleato durante il terribile mese di maggio: la Francia corre il rischio di cadere sotto la tirannia di un partito totalitarista2. Il discorso dura soltanto cinque minuti, ma dà la scossa ad un Paese allo sbando. Il 31 maggio il PCF completa la manovra: De Gaulle attacca i comunisti perché sono gli unici rivoluzionari, mentre i trozkisti, gli anarchici ed i situazionisti dividono la classe operaia.
Le elezioni legislative di fine giugno sanciscono la riscossa del gollismo: L’Unione per la Difesa della Repubblica vince col 58% delle preferenze, strappando 100 seggi al Partito Comunista, immolatosi per salvare il regime di De Gaulle. Non solo, l’URSS interviene a sostegno della Francia persino sul mercato dei cambi, facendo incetta di franchi: salvato da Mosca, De Gaulle non può quindi che esprimere vaghi ed incolori commenti quando il Patto di Varsavia, nel mese di agosto, interviene per sedare l’altra rivoluzione colorata del 1968, quella di Praga.
La rivoluzione “libertaria” per rovesciare De Gaulle e scardinare l’asse franco-sovietico, organizzata e finanziata dagli angloamericani, è così fallita: grazie a Mosca e al Partito Comunista Francese. Molti osservatori e intellettuali dell’epoca ne sono consapevoli, tra cui Jean Paul Sartre, che abbandonerà sull’onda del ‘68 il PCF per abbracciare il maoismo, ingrossando così le file dell’intellighenzia al soldo dei “liberal”.
Un’ultima nota: abbiamo evidenziato come tra i principali protagonisti della manovra per rovesciare De Gaulle figurasse anche François Mitterand. Sarà sotto la sua lunga presidenza (1981-1995) se l’oligarchia atlantica otterrà risultati impensabili con De Gaulle al potere: la riunificazione della Germania, la nascita dell’euro-marco, il respingimento a Est della Russia. È “l’europeismo”, non a caso, cui si convertono anche il trozkista Daniel Cohn-Bendit ed il “compagno di rivoluzione” Joschka Fischer. Ma questa è un’altra storia.
Commenti recenti