Sono da pochi giorni terminate le elezioni in Italia e lungi dall’essere terminato il caos, adesso viene il momento della formazione del Governo. Uno dei temi principali sia della campagna elettorale che dei giorni successivi è il tema del reddito di cittadinanza. Tra polemiche sulle coperture e analisi (indecorose) di una nascente volontà di assistenzialismo da parte del sud interpretata dal reddito di cittadinanza si sono sprecate le più disparate idee di politica economica. Soffermiamoci allora sulla qualità del discorso sul reddito di cittadinanza e nel merito, ritagliando l’ambito di un reddito di cittadinanza possibile e auspicabile.
Il reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 Stelle, in realtà, è un misto tra un sussidio di solidarietà e un’indennità di disoccupazione che, infatti, viene erogato non solo nel periodo di transizione da un lavoro ad un altro, ma anche per raggiungere un livello minimo di reddito per lavoratori già retribuiti. Questo viene erogato fino alla terza proposta di lavoro rifiutata dai ristrutturati centri per l’impiego, o viene integrando il salario esistente alla cifra stabilita: la cifra di cui si è parlato è quella della soglia di povertà, 780 euro netti (per una persona singola, che aumenta in caso di figli, ecc.). Proposta perciò che risulta difficile identificare come reddito di “cittadinanza”, essendo una contraddizione in termini: esso non è erogato per il solo fatto di essere cittadini e in ogni caso non per sempre, scadendo alla terza proposta lavorativa rifiutata, a meno che non si percepisca un reddito inferiore ai 780 euro, nel qual caso diventa un’integrazione al salario.
Si distanzia perciò – anche se non di molto – dal terreno d’applicazione della proposta di imposta negativa di Milton Friedman per i redditi più bassi e perciò anche dalla proposta derivante dalla teoria della fine del lavoro di Rifkin, secondo cui l’unica maniera per sostenere la domanda in futuro, a causa della sostituzione della manodopera da parte della tecnologia, sarà l’erogazione di un reddito da parte dello Stato, che sembra piacere molto a Beppe Grillo. Proposte che non son mai state applicate nella realtà o quasi: l’unico paese al mondo in cui è presente un vero e proprio reddito di cittadinanza è l’Alaska, che dona generosamente ai suoi cittadini 2000 dollari l’anno, che arrivano direttamente dai proventi dell’oro nero.
Ecco che allora troviamo quali sono i lineamenti della proposta pentastellata: l’impalcatura della riforma Hartz IV entrata in vigore in Germania dal gennaio 2005. La riforma tedesca è un sussidio sociale e un’indennità di disoccupazione strettamente vincolati ad alcuni parametri, compreso l’obbligo in caso di disoccupazione di accettare proposte lavorative che vengono fatte dai Jobcenter (simili ai centri per l’impiego nostrani), i cosiddetti minijob o anche quelli che sono chiamati 1 euro job – lavori socialmente utili retribuiti 1 euro l’ora – pena il taglio del sussidio. Riforma che è tutto, tranne che allettante; e in ambito economico è risaputo che tale riforma servì alla Germania per abbattere il costo del lavoro e cominciare con le politiche mercantilistiche tedesche che conosciamo.
Ma oltre a questa similitudine, il problema non si risolve, e questo perché senza l’introduzione di un salario minimo, sarà la soglia del reddito di cittadinanza a diventarlo, facendo da spartiacque tra la convenienza a lavorare e quella a percepire il reddito. Non individuando nemmeno il problema, che in un paese ad altissima disoccupazione non è di chi il lavoro lo rifiuta come vorrebbe far presagire la proposta dei 5 Stelle, ma che il disoccupato volontario non si distingue da quello involontario, in quanto le proposte lavorative scarseggiano.
Vi è poi anche un altro problema, non pragmatico ma ideologico, e cioè che il reddito minimo appare come “un atto di resa dello Stato, che cessa di perseguire attivamente lo stimolo della domanda interna e la piena occupazione”: non un allargamento delle basi dello Stato Sociale, ma il suo smantellamento in piena linea con una politica neoliberista. Dimostrato dal fatto che sia Milton Friedman che Ludwig von Mises e Friederich von Hayek erano dei fieri sostenitori di un reddito minimo garantito per sostenere le più basse fasce della popolazione, ammettendo implicitamente che il loro schema ideologico non permette il raggiungimento della piena occupazione. Ma non solo, quel che è peggio (nella proposta pentastellata), è che lascia libertà al datore di lavoro di pagare i suoi dipendenti anche sotto la soglia di povertà, tanto sarà lo Stato a integrare tale reddito, di fatto legalizzando insulse pratiche di deflazione salariale. Non a caso i loro promotori – padri del neoliberismo – parlavano anche della necessità di una totale flessibilizzazione del lavoro, senza alcun tipo di tutela e di intermediazione da parte dello Stato, per poter permettere l’ideale allocazione del lavoro attraverso l’incontro tra domanda e offerta. La proposta del reddito minimo è esattamente in continuità con queste teorie.
Come formulare allora una proposta strutturalmente possibile da applicare? Se andiamo indietro nella letteratura scientifica, troviamo quello che potremmo chiamare un reddito di cittadinanza possibile, quello che nel 1958 John Kenneth Galbraith teorizzava nel suo libro più celebre, The Affluent Society, la società opulenta, un sistema di sussidio di disoccupazione che ha il grande pregio di essere discrezionale e anticiclico, rispettando in pieno la filosofia keynesiana.
Galbraith lo chiama Cyclically Graduated Compensation (CGC), ed è un sistema di sussidi di disoccupazione il cui importo varia a seconda del ciclo economico che sta attraverso il sistema di riferimento. Così Galbraith lo esponeva nel suo libro: “le indennità di disoccupazione dovrebbero essere aumentate appena cresce la disoccupazione e diminuite in caso contrario”. Il sistema perciò sarebbe strutturato in modo che durante i periodi di bassa disoccupazione l’indennità strutturale rimane contenuta, nell’ordine del 35-45% della media salariale, e servirebbe allo scopo di aiutare il traghettamento da un lavoro ad un altro. Nei periodi di crisi invece tale indennità viene integrata dalla CGC, raggiungendo l’85-90% del salario medio di riferimento, sostenendo la domanda. Questo serviva a dissipare l’idea della preferenza all’ozio rispetto al lavoro (ed è per questo che l’indennità non dovrebbe mai, scriveva Galbraith, essere uguale al salario da lavoro): “quando il lavoro è in abbondanza non vi sarà nessun incentivo all’ozio, perché in questo caso le indennità sarebbero relativamente basse”, mentre se “i posti di lavoro sono scarsi non può essere fatta alcuna distinzione fra i disoccupati volontari e involontari: difatti ne gli uni ne gli altri sono in grado di trovare lavoro”. Sostenendo la domanda perciò il sistema aiuterebbe nella ripresa dal ciclo economico avverso, ma senza togliere al lavoro il suo carattere preminente all’interno della società, che tornerebbe ad essere centrale nel successivo periodo di espansione economica.
Da ultimo l’apporto innovatore di una proposta di ben sessant’anni fa, è il ritorno ad una politica economica discrezionale che si inserisce perfettamente nel dibattito rules vs. discretion, dove si annida la pretesa che regole automatiche – e in linea con politiche neoliberiste – possano evitare la creazione di bolle e crisi: Basilea I, II, III e ormai IV docet (in tema di norme bancarie). Ed è evidente come questa filosofia delle rulesabbai causato non solo molte più bolle minori ma anche l’insorgere della peggiore crisi che si ricordi da quella del 1929, dimostrando in modo inoppugnabile la loro erroneità.
Va anche detto che la CGC sarebbe più congrua come sistema di compensazione in un ciclo economico positivo per prevenire l’aggravarsi delle crisi sul nascere, appena il tasso di disoccupazione supera la soglia critica e permette di integrare l’indennità di disoccupazione con la CGC. Perciò nella tragica e ormai cronica situazione italiana sarebbero più opportuni strumenti radicali come quello che potremmo chiamare un CGJ, Ciclically Gratuated Job (già proposto da Senso Comune nel libretto amaranto sotto il nome di PIL), una sorta di lavoro socialmente utile retribuito con la media salariale, sia per sostenere la domanda sia per ridare lavoro alle persone che si trovano nella condizione di disoccupazione.
Ovviamente questo rimane uno spunto e sicuramente il sistema sarà perfettibile e integrabile con i moderni sistemi di welfare che sono sostanzialmente molto diversi da quelli in essere nel 1958, anno di uscita del libro di Galbraith. Va però notato come esistono dei sistemi di sussidi di disoccupazione più efficienti dal lato pratico, e più auspicabili dal lato ideologico, che vanno presi assolutamente in considerazione e discussi.
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