Discorso di Garibaldi il dì della Pasqua del 1861
di PONTELANDOLFO NEWS
PAGINE TRATTE DA: FRANCO MISTRALI-“DA Novara a Roma” Bologna 1871
pagg.145-151.
Il generale Giuseppe Garibaldi è senza dubbio una delle più spiccate ed originali figure di questo secolo che pur vide tante originalità splendide da Napoleone Bonaparte a Moltke. Molti a cui piace applicare troppo rigorosamente la teoria di Vico delle ricorrenze istoriche, credettero interpretar bene la mente di questo ardito venturiero della libertà cercandogli nella antichità uno o più riscontri: e quando a Napoli, padrone di una corona, non pensò neppure a cingerla, e neppure pensò a farsi il protettore di uno stato come Oliviero Cromwell, o il fondatore, e il presidente di una repubblica come Giorgio Washington, ai cercò nella galleria degli eroi di Grecia e di Roma, e si trovò somigliante il magnanimo generale ai Scipioni ed ai Timoleoni: quando a Caprera fu visto condurre gli aggiogati buoi reggendo il timone dell’aratro con quella mano che resse valorosamente la spada di Marsala, meglio acconcio ricorse sulle labbra di tutti il nome di Cincinnato.
Noi, rendendo tuttavia omaggio alla teoria del grande filosofo napoletano, vediamo in Garibaldi un uomo tutto del suo tempo, e di quella classe sociale a cui appartiene. L’eroe nizzardo rappresenta con linee spiccate e ben definite la democrazia che va prendendo corpo e consistenza in un quarto stato, il quale si va formando tra la borghesia e la plebe. Garibaldi ha le virtù e i difetti del suo paese, del suo tempo, e della sua condizione. Venuto su dal proletariato dell’intelligenza, la sua vita comincia da una vigorosa protesta contro un privilegio e una prepotenza invano vestita di liberali parvenze. La coscrizione è insieme privilegio e tirannia, poichè la nazione armata soltanto rappresenta l’esercito della democrazia. Ora Garibaldi, soldato della marineria regia di Sardegna, entra nel mondo militante della libertà, disertando la forzata assise, e ribellandosi al coartato giuramento. Soldato eminentemente, per natura direbbesi, egli vuol portare le armi, ma volontario: egli vuol combattere, ma per una causa che il suo cuore comprenda e senta, che la sua ragione approvi.
Eroe davvero pel coraggio altissimo e per il disinteressato valore che lo spinge con nobile entusiasmo ad abbracciarne qualunque causa generosa, Garibaldi è più che italiano cosmopolita. Anima ardente e poetica, egli non sa piegarsi alle fittizie catene della nazionalità e del particolarismo politico: la patria di un gran cuore è il mondo: dovunque suona umana favella, egli trova dei fratelli: dovunque si gode e si soffre umanamente, ivi palpita e sente un atomo di quel gran core collettivo di cui le fibre sono gli individui sparsi sulla terra, e l’insieme è la umanità tutta quanta.
E da questo punto di vista Garibaldi appartiene alla minoranza eletta dei precursori: ai pochi che spingono lo sguardo in grembo alle tenebre dell’avvenire e si beano nella visione della luce che già indora, alba di un dì futuro, gli estremi lembi del cielo.
Per questo la caratteristica di uomini, come il vincitore di tante battaglie, è l’irrequieta ansia dell’animo che li sospinge verso un meglio non mai raggiunto: essi sono senza posa incalzati sulla via della vita, da un prepotente fascino di miglioramento politico e sociale: essi non tengono conto di ostacoli e non sono disposti a riconoscere le opportunità che la fredda ragione pesa e discute. Martiri o trionfatori sono sempre credenti: la fede li suscita o li fa forti, e per via della fede dominano e trascinano. Napoleone fu di questi uomini: più completo perchè più umano, ma anche il gigante corso cadde per l’astrazione che egli facea dal mondo intiero nei concepimenti e nei fatti della sua gran mente.
Le transazioni non sono accettate mai da uomini di tal fatta: essi non piegano, e preferiscano spezzarsi come l’acciaio. Per questo Garilraldi non comprese mai Cavour che pure amava, con pari intensità la patria, e sugli ultimi giorni della vita del grande di Leri forse le amare censure del generale non furono per poco nell’accasciamento a cui il conte ministro soggiacque, quasi schiacciato dall’immensa mole a cui si era sobbarcato. Il conte Cavour a Villafranoa fu dolorosamente colpito, ebbe un’ora di scoramento, e si ritirò credendo finita per sempre la sua carriera. Ma pochi giorni di solitudine bastarono a fargli veder meglio la situazione: comprese che si era ingannato, e rientrò pieno di fiducia nella vita attiva, riassunse le redini dello stato, e osò il primo passo all’unità, accettando le annessioni decretate dalle assemblee popolari dell’Italia Centrale. Poi si fermò ancora alla Cattolica, che l’impaziente generale volea varcare, e si preparò in silenzio a passare il Rubicone: quindi si fermò a Gaeta e sul Liri che il generale volea oltrepassare verso Roma, e l’obbiettivo supremo della rivoluzione.
Giuseppe Garibaldi, come fu detto, non soffriva indugi: quando a Villafranca venne fermato il volo delle aquile vittoriose egli avrebbe voluto proseguir solo l’impresi di Venezia, e con amarissime parole discinse la spada di generale dell’esercito regio che avea di nuove gemme illustrata a Varese ed a Treponti. Eletto a capitano delle milizie che il Dittatore Farini raccolse nelle provincia dell’Emilia, non sapea stare a contemplar da Rimini le Marche incatenate, e piuttosto che negarsi alla voce di Ancona e di Perugia strapazzate dai mercenari pontifici, si ritraeva un’ altra volta sdegnosamente dall’arringo. Infine quando ebbe compiuta la gloriosa impresa di Sicilia e di Napoli, ci volle lo spettro della guerra civile per fermarlo sul Volturno e vietargli di marciare verso la fatal sua Roma: e anche questa volta parevagli codardia, se non tradimento, quel che era necessità prudente di stato e ossequio all’Europa.
Ma questa condizione dell’animo di Giuseppe Garibaldi che nelle circostanze salienti enumerate si risolveva con un suo addio alla vita pubblica e un più o meno energico rimprovero alla indifferenza degli amici e del paese, andò man mano innasprendosi, e pel continuo attrito degenerò in una sorda animosità e in disaccordo palese fra il governo regolare del paese e lui. Fino a Napoli Garibaldi s’era dimostrato non solo amico personale e fidato del re Vittorio, ma anche amico delle istituzioni della monarchia costituzionale. Da quel giorno in poi nel quale il capo dello stato non volle consentirgli la dittatura civile e militare nelle provincia meridionali, il valoroso generale recò a Caprera uno spirito inquieto, diffidente, amareggiato, e quel che è più, aperto a tutte le insinuazioni ed a tutti i sospetti che i partiti e gli uomini interessati cercavano di insinuarvi onde far loro prò di una così predominante influenza.
Chi scrive queste istorie ben ricorda un viaggio fatto all’isola di Caprera nel 1860, quando si riuscì da alcuni a condurre Garibaldi sul continente, dove poi ebbe a inimicarsi col Cialdini, e a dichiararsi egli nemico del conte di Cavour con una frase più crudele che giusta. E a Caprera ebbi a udire dalle labbra di Garibaldi in risposta a un non so quale indirizzo di associazioni operaie, parole acerbissime, che poi furono stampate, ma non nel loro integro stato. Anzi, poichè il generale fu giunto con noi che si tornava a Genova, e Bellazzi ebbe cognizione del discorso da lui pronunciato, ottenne che nelle frasi più mordenti fosse modificato e temperato. Ora io che scrivo, ho nelle mani il testo preciso di un tale discorso scritto da Pantaleo, l’ex frate Siciliano, e corretto di mano di Garibaldi nella sua originale lezione: e, come documento inedito per la storia, poichè il pubblicarlo non può più nuocere, lo affido ai lettori come una prova di più della verità dei nostri ragionamenti.
(1) Ecco il testo del discorso pronunciato da Giuseppe Garibaldi il dì della Pasqua del 1861 a Caprera. (Documento inedito).
Amici ! – Io vi ringrazio …..
Voi dite il vero, ma forse ci è della esagerazione. Sono timori. Peró tutto può succedere. Dobbiamo essere persuasi che s’ingannano altamente coloro che cercano di manomettere il nostro paese: s’ingannano davvero.
Siamo forti – forti più di quello che non credono – Non parlo delle cinquecentomila, né del milione di baionette, che pure l’Italia potrebbe dare – Ma abbiamo il popolo – abbiamo la nazione con noi!.. L’ Italia, ad onta dei tristi effetti della politica cavouriana, vassalla non degna del paese, e di quella turba di lacché che la appoggiano , deve essere!….Io, poi, ringrazio gli operai ed il popolo italiano , della fiducia che hanno in me: fiducia ch’io non merito, perché come individuo, io non valgo nulla: e se merito la fiducia del popolo, credo di meritarla perché ho la coscienza di non averli ingannati, e possono star sicuri che non li ingannerò giammai.
Però il paese non deve riposare in me solo: che abbia coscienza di sè, e non creda, che se la provvidenza ha voluto scegliere un uomo, me pover’uomo, a fare un po’ di bene, non ve ne siano altri che possano fare quanto me, e più di me. Bisogna che sappiano che fra quei prodi che mi hanno seguito (e qui ne vedo alcuni) cento vi sono che possono sostituirmi se mancassi – Si sa che noi tutti siamo mortali, e che perciò da un momento all’ altro posso anch’io andare al diavolo, intendo dire se una palla mi portasse via.
Hanno cominciato i mille – vennero le migliaia – e ad una nuova chiamata verranno i dieci, i trenta, i centomila…..e cresceranno, persuadetevi, in proporzione geometrica. – Io non dormo, né ho dormito mai. – Il bene di questa misera Italia fu sempre l’idolo della mia vita. – Io ritengo che siamo sempre in istato di guerra. – Il momento può essere vicino: ed io, potete crederlo, il desidero più oggi che domani – e forse più di tutti. – Noi non siamo di quelli che si lasciano comprare da brevetti , pistagne e dorature, come la turba de’ lacchè e delle livree.
Credono di dare il coraggio, dando delle spalline. – Ma noi non ne vogliamo. – A noi ci basta un fucile ed una giberna.
Noi non abbiamo un parlamento che risponda alla dignità della nazione. Ma la nazione è nel popolo – nel popolo, che è buono dappertutto – a Marsala come a Torino. La nazione non ha paura, e i nemici d’Italia, vengano da destra o da sinistra, dovranno pensarci bene. Siamo ventidue milioni di italiani!!!- e non andrà molto che Cavour e compagnia bella renderanno strettissimo conto del loro misfatto.
Non dobbiamo dimenticare che l’Italia deve molta gratitudine a Vittorio Emanuele. Non dimentichiamo che quello fu il perno a cui ci siamo aggruppati , e col quale abbiamo potuto fare quello che si è fatto. Egli è bensì circondato da un’ atmosfera corrotta – ma speriamo di condurlo nella buona via. Egli ha fatto molto, ma pur troppo, non ha fatto tutto quel bene che poteva’ fare. – Poteva fare di più!
Noi siamo stati trattati male, hanno voluto creare un dualismo fra l’esercito regolare ed i volontarii, che pure si sono battuti da prodi: hanno voluto provocare della discordia. Hanno disfatto l’opera di unificazione da noi incominciata. – Hanno voluto dividere due elementi tanto preziosi e necessarii nelle attuali circostanze – Ma lasciamo. Queste sono immondezze da non curare – Al di sopra di tutto sta l’Italia !!! – Se qualcuno dovesse chiamarci offeso, voi lo sapete, sarei io.
Un’ altra cosa debbo raccomandarvi, che ripeterete ai vostri mandati, e che non potrei raccomandare abbastanza….la concordia. – Io non sono oratore – ma tutto quello che dico viene dal cuore.
Voi sapete la nostra storia, la quale se non è la prima, non è seconda ad alcuna.
Roma nella concordia fu potente e grande – L’Italia sotto le repubbliche del medio evo, benché abbia fatto dalle grandi cose, perché l′Italia farà sempre delle grandi cose, pure, perchè divisa, fu il ludibrio dello straniero. Quando saremo tutti uniti ci temeranpo. – Ci temono già – Abbiamo le simpatie delle grandi nazioni.
Siamo dunque concordi, e l’Italia sarà.
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