Verso l’economia di guerra
da LA FIONDA (Alessandro Somma)
Le conseguenze della guerra non sono solo quelle visibili a occhio nudo, quelle denunciate dalle innumerevoli immagini che raccontano la tragica quotidianità di chi sopravvive e muore sotto le bombe. Non sono da meno gli effetti su chi viene apparentemente risparmiato dal conflitto perché vive in Paesi non direttamente coinvolti nei combattimenti. Semplicemente sono meno riconoscibili, sebbene coinvolgano il complessivo modo di stare insieme come società e in ultima analisi i fondamenti di quanto siamo soliti chiamare Occidente.
A mutare profondamente è l’ordine politico: la guerra richiede decisioni rapide e unanimi, a monte processi deliberativi opachi, e questo incide profondamente sulla qualità della democrazia, che vive al contrario di conflitti, di tempi scanditi dai ritmi della partecipazione e soprattutto di trasparenza. E anche l’ordine economico viene travolto: la produzione di armamenti e altri beni funzionali al conflitto deve procedere con modalità per certi aspetti incompatibili con il capitalismo, che tra i propri fondamenti vanta l’avversione verso il dirigismo e la pianificazione, utile invece a concentrare lo sforzo produttivo.
La guerra introduce insomma uno stato di eccezione, a ben vedere incrementando dinamiche che hanno preceduto il conflitto in corso[1]. Questo incide invero su un ordine politico e un ordine economico già pregiudicati dalla pandemia, e ancora prima dalle crisi economico finanziarie che hanno scosso il pianeta a partire dal 2008. Forse la novità dell’attuale stato di eccezione si coglie al meglio considerando una deriva che non era finora emersa con la stessa nettezza con cui si sta mostrando ora: la transizione verso l’economia di guerra, ovvero «un sistema di produzione, mobilitazione e allocazione di risorse finalizzate al sostegno della violenza»[2].
Accelerare la consegna e l’acquisizione congiunta di munizioni
Nel marzo del 2023 il Consiglio affari esteri, ovvero il Consiglio dell’Unione europea nella formazione comprendente i Ministri degli esteri dei Paesi membri[3], ha approvato una risoluzione per «accelerare la consegna e l’acquisizione congiunta di munizioni per l’Ucraina» sulla base di tre linee di intervento[4].
La prima linea riguarda il rimborso nella misura del 50-60% delle «munizioni di artiglieria» e dei «missili» già donati o da donare prima del 31 maggio 2023, e la seconda l’acquisto congiunto dello stesso materiale «nel modo più rapido possibile prima del 30 settembre 2023». Per realizzarlo, a margine della riunione del Consiglio affari esteri, si è sottoscritto nell’ambito dell’Agenzia europea per la difesa un accordo di progetto che coinvolge 25 Stati. A ben vedere un accordo che prende spunto dal conflitto in corso, ma che mira ad avere effetti sul lungo periodo: sebbene la fornitura di munizioni all’Ucraina riguardi l’immediato futuro, si estende per un arco temporale di sette anni[5].
La terza linea di intervento, per la quale si invita la Commissione a presentare proposte, concerne invece «l’incremento delle capacità di produzione dell’industria europea della difesa». In particolare si chiede di «garantire catene di approvvigionamento sicure, agevolare procedure di acquisizione efficienti, colmare le carenze nelle capacità di produzione e promuovere gli investimenti»[6].
Il fondo con il quale finanziare la prima e la seconda linea di intervento ha un nome decisamente fuorviante: lo Strumento europeo per la pace (European peace facility). Si tratta di un fondo istituito un paio di anni or sono al fine di «preservare la pace, prevenire i conflitti e rafforzare la sicurezza internazionale»[7], finanziato fuori bilancio da contributi diretti degli Stati determinati sulla base di un criterio di ripartizione fondato sul reddito nazionale lordo. Il tutto per una cifra che ha nel tempo raggiunto gli otto miliardi di Euro, e che si propone ora di incrementare di ulteriori tre miliardi e mezzo per finanziare il conflitto russo ucraino: ipotesi a cui il Consiglio europeo[8] ha genericamente dato seguito invocando la «mobilitazione di finanziamenti adeguati»[9]. Fornendoci così il riscontro definitivo di come furono facili profeti le organizzazioni non governative che criticarono aspramente l’istituzione dello Strumento europeo per la pace, prevedendo che sarebbe divenuto un nemico dei diritti umani e una fonte di «danni alle popolazioni civili»[10].
Burro o cannoni?
Diversi sono i canali indicati per finanziare la terza linea di intervento, per la quale il Consiglio affari esteri, diversamente da quanto immaginato per la prima e la seconda linea, prevede la possibilità di mobilitare il bilancio dell’Unione. Li ha indicati la Commissione, che come abbiamo detto è stata invitata a formulare proposte circa il modo di incrementare la capacità di produzione dell’industria bellica. Di qui un recente progetto di regolamento che in inglese ha un acronimo accattivante: Asap (Act in Support of Ammunition Production), che significa anche «il prima possibile» (as soon as possible)[11].
Il primo canale di finanziamento, come abbiamo detto, è il bilancio europeo, dal quale si preleveranno 500 milioni. Vi è poi la possibilità di distrarre risorse da fondi già esistenti e destinati ad altre finalità. Gli Stati membri possono invero impiegare le risorse dei celeberrimi Piani nazionali di ripresa e resilienza (Pnrr), e soprattutto «le risorse loro assegnate in regime di gestione concorrente»: formula criptica che allude a un insieme di fondi con i quali l’Europa unita realizza le politiche in senso lato sociali. Il riferimento è infatti al Fondo europeo di sviluppo regionale, al Fondo sociale europeo Plus, al Fondo di coesione, al Fondo per una transizione giusta, al Fondo europeo per gli affari marittimi, la pesca e l’acquacoltura, al Fondo Asilo, migrazione e integrazione[12].
Quest’ultimo è stato l’unico aspetto sul quale si è concentrato il dibattito attorno alla proposta della Commissione, appena approvata senza modifiche dal Parlamento europeo[13]. Non solo: se si è discusso di questo aspetto è solo per stigmatizzare la consueta ambiguità del Partito democratico, che non poteva bocciare la proposta per non scontentare la sua componente bellicista, ma doveva concedere qualcosa al suo elettorato non proprio in linea con i vertici (i sondaggi documentano una contrarietà alla guerra decisamente più diffusa e radicata di quella espressa dalla politica). Di qui la scelta di approvare la proposta della Commissione, avanzando però nel contempo la richiesta di escludere la possibilità di finanziare l’incremento della capacità produttiva dell’industria delle armi sottraendo soldi al Pnrr e ai Fondi di coesione: cosa che oltretutto neppure è stata accolta dal Parlamento europeo.
Sovvenzionare e imporre la produzione di armi
È gioco facile osservare che, se anche si fosse deciso diversamente, le cose non sarebbero mutate. Per finanziare l’industria delle armi da qualche parte i soldi devono venire, e non si va molto lontano se si apre una discussione su quali siano i tagli preferibili: l’alternativa resta in buona sostanza quella tra burro e cannoni. Il punto però è un altro: la proposta della Commissione approvata dal Parlamento europeo contiene elementi ben più preoccupanti di quelli relativi ai canali di finanziamento, che pure inquietano non poco. Sono tali innanzi tutto le modalità individuate per sovvenzionare e addirittura imporre la produzione di materiale bellico.
La Proposta della Commissione precisa che il sovvenzionamento della produzione viene richiesto dalle «specificità dell’industria della difesa, settore in cui la domanda proviene quasi esclusivamente dagli Stati», motivo per cui le imprese non effettuano «investimenti industriali autofinanziati». Di qui la volontà di «intervenire riducendo i rischi degli investimenti industriali attraverso sovvenzioni e prestiti», addirittura per «coprire fino al 60% dei costi diretti ammissibili». Precisamente:
Alla luce delle specificità dell’industria della difesa, settore in cui la domanda proviene quasi esclusivamente dagli Stati membri e dai paesi associati, i quali controllano anche ogni acquisizione di prodotti e di tecnologie per la difesa, comprese le esportazioni, il funzionamento del settore industriale della difesa non segue le norme convenzionali e i modelli commerciali che disciplinano i mercati più tradizionali. L’industria non effettua pertanto ingenti investimenti industriali autofinanziati, ma li avvia solo in seguito a ordini vincolanti. Sebbene gli ordini vincolanti effettuati dagli Stati membri siano una condizione preliminare per qualsiasi investimento, la Commissione può intervenire riducendo i rischi degli investimenti industriali attraverso sovvenzioni e prestiti, consentendo così all’industria un più rapido adattamento alle trasformazioni strutturali del mercato in corso. Nell’attuale contesto di emergenza, il sostegno dell’Unione dovrebbe coprire fino al 60 % dei costi diretti ammissibili al fine di consentire ai beneficiari di attuare quanto prima le azioni, ridurre i rischi degli investimenti e quindi accelerare la disponibilità dei prodotti per la difesa pertinenti[14].
Dopo la carota, il bastone. In tempi di guerra l’industria bellica si trova ad affrontare «un’improvvisa impennata della domanda e deve urgentemente adattarsi a questa nuova situazione di mercato». Ecco allora che la produzione di armamenti può essere imposta, e assistita da un impianto sanzionatorio, qualora le imprese rifiutino «di accettare e mettere al primo posto un ordine classificato come prioritario»:
In particolare la Commissione, d’intesa con lo Stato membro in cui è stabilita l’impresa, dovrebbe informare le imprese interessate della sua intenzione di chiedere loro di accettare e mettere al primo posto un ordine classificato come prioritario e fornire a dette imprese tutti gli elementi necessari per consentire loro di prendere una decisione informata sulla possibilità di accettare tale richiesta. In caso di rifiuto dell’impresa, la Commissione, d’intesa con lo Stato membro interessato e tenendo debitamente conto della natura delle obiezioni sollevate dall’impresa, può ritenere che sia giustificata da motivi di sicurezza l’imposizione, mediante una decisione di esecuzione, di un ordine classificato come prioritario. Una tale decisione dovrebbe essere adottata conformemente a tutti gli obblighi giuridici applicabili dell’Unione, tenendo conto delle circostanze del caso. L’ordine classificato come prioritario dovrebbe essere effettuato a un prezzo equo e ragionevole. Tale ordine dovrebbe prevalere su qualsiasi obbligo di esecuzione di diritto privato o pubblico, tenendo conto delle finalità legittime delle imprese e dei costi e degli sforzi necessari per qualsiasi modifica della sequenza di produzione. Le imprese possono essere soggette a sanzioni se non rispettano l’obbligo relativo agli ordini classificati come prioritari[15].
Ovviamente, l’impresa sottomessa all’economia di guerra non viene lasciata in balìa delle responsabilità che questo può comportare: non risponde dei «danni verso terzi per eventuali violazioni di obblighi contrattuali» riconducibili all’adempimento dell’obbligo imposto[16]. Il bastone c’è, ma se lo si deve usare contro le imprese le precauzioni sono massime.
I dolori di un vecchio capitalista
La Commissione riconosce che l’imposizione di produrre armi integra una violazione della libertà d’impresa e del diritto di proprietà, che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea considera prioritari[17]. In effetti la Carta non conosce il principio di parità sostanziale, ma solo la mera uguaglianza di fronte alla legge (art. 20): senza obbligo alcuno per i pubblici poteri di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale» (come afferma la Costituzione nella celeberrima formula contenuta nell’art. 3). Coerentemente, la Carta non codifica poi diritti sociali, mentre tiene in alta considerazione le posizioni funzionali a rendere il mercato il principale strumento di redistribuzione delle risorse, e a ridurre così l’inclusione sociale a inclusione nel mercato[18].
Di qui la preoccupazione per la sorte della libertà d’impresa (art. 16), che la Carta si limita a riconoscere senza precisare che essa «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (come precisato invece dall’art. 41 della Costituzione italiana). Di qui anche l’apprensione per la sorte del diritto di proprietà, per il quale la Carta richiama l’interesse generale solo come limite alla compressione del diritto (art. 17), e non anche al suo esercizio (come avviene invece con il richiamo alla funzione sociale della proprietà contenuto nell’art. 42 della Costituzione italiana)[19].
Insomma, lo stato di eccezione alimentato dal conflitto in corso non si limita a pregiudicare l’ordine politico e con ciò la democrazia: aspetto sul quale le sensibilità europee non sono certo spiccate. L’economia di guerra insidia l’ordine economico in aspetti centrali per la sua difesa in quanto ordine capitalista, che invece Bruxelles tiene in alta considerazione. Questo può però giovarsi di altre espressioni dello stato di eccezione, dal momento che si è cioè dato libero sfogo alla volontà di comprimere il controllo pubblico sull’attività privata, notoriamente percepito come un intralcio alla libertà d’impresa e al diritto di proprietà.
È quanto emerge in termini espliciti dalla Proposta di regolamento, dove si afferma in termini perentori: «per perseguire l’obiettivo generale di politica pubblica della sicurezza, è necessario che gli impianti di produzione connessi alla produzione dei prodotti per la difesa pertinenti siano costituiti il più rapidamente possibile, mantenendo nel contempo al minimo gli oneri amministrativi». E si badi che gli oneri amministrativi vanno intesi in senso decisamente ampio, dal momento che includono anche quelli posti a presidio di valori come l’ambiente e la salute:
Gli Stati membri dovrebbero prendere in considerazione la possibilità di avvalersi, caso per caso, delle esenzioni previste per il settore della difesa dal diritto nazionale e dal diritto applicabile dell’Unione, qualora ritengano che l’applicazione del pertinente diritto possa incidere negativamente sulle suddette finalità. Ciò può applicarsi in particolare al diritto dell’Unione in materia di ambiente, salute e sicurezza, che è indispensabile per migliorare la protezione della salute umana e dell’ambiente, nonché per conseguire uno sviluppo sostenibile e sicuro. La sua attuazione però può anche creare ostacoli normativi che frenano il potenziale dell’industria della difesa dell’Unione di incrementare la produzione e le forniture dei prodotti per la difesa pertinenti[20].
Insomma, l’economia di guerra resta pur sempre un’economia che non mette in discussione i fondamenti del capitalismo, e che anzi sfrutta lo stato di eccezione per azzerare anni di conquiste in termini di equilibrio tra libertà d’impresa e diritto di proprietà da un lato, giustizia sociale e ambientale dall’altro.
Dal mercato senza Stato all’esercito senza Stato
L’Europa unita è nata come mercato senza Stato e sia è poi sviluppata attorno a una moneta senza Stato. Questo assetto si è retto e si regge tuttora su una retorica accattivante: il rifiuto della sovranità nazionale viene considerato una precondizione per promuovere la pace, sulla scia di quanto sostenevano i federalisti alla conclusione del conflitto mondiale. La guerra russo ucraina e le dinamiche europee che questa ha innescato ci mostrano al contrario che la pace è la prerogativa di un ordine democratico e produttivo di giustizia sociale: esattamente i valori che l’economia di guerra sta contribuendo in modo determinante ad affossare.
Prima che il conflitto scoppiasse, si conducevano vivaci dibattiti attorno a una ulteriore espressione dell’unità europea: la formazione di un esercito senza Stato. Vivaci perché condotti sullo sfondo di due punti di vista contrastanti: quello tedesco, per cui la difesa europea doveva restare saldamente ancorata alla Alleanza atlantica, e quella francese, per cui l’Europa doveva emanciparsi dagli Stati Uniti e affidarsi all’egemonia di Parigi. Il Presidente francese Emmanuel Macron parlava nel merito esplicitamente di una transizione dal «Washington consensus» al «Paris consensus», e condiva il tutto con giudizi sprezzanti sulla Nato, ritenuta una organizzazione «in stato di morte cerebrale»[21].
La guerra in corso non ha messo in discussione la volontà di sviluppare l’Europa sotto forma di esercito senza Stato. La ha anzi alimentata, ma nel contempo ha riorientato i suoi fondamenti: quell’esercito deve formarsi e strutturarsi entro la cornice atlantica, e inoltre rafforzare l’ancoraggio a questa cornice della complessiva costruzione europea.
Insomma, il conflitto russo ucraino ci ha ricordati da dove veniamo, ovvero che l’ora zero dell’Europa unita non è la celebre dichiarazione di Robert Schumann che ha ispirato la nascita della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca): tutto ha avuto inizio con il Piano Marshall, con il quale gli Stati Uniti hanno serrato le fila dell’occidente nella confrontazione con il blocco socialista, utilizzando l’assistenza finanziaria come contropartita per l’ancoraggio al capitalismo. Il conflitto ci ricorda poi che l’Europa unita ha accompagnato costantemente l’espansione della Nato, prima verso sud e poi verso est. Sino alla pantomima dell’adesione dell’Ucraina all’Unione europea, utilizzata come l’adesione degli altri Paesi un tempo appartenuti al blocco sovietico per contrastare i pallidi tentativi di far emergere l’interesse europeo oltre le mire dell’alleato oltreoceano. L’economia di guerra è l’esasperazione di questo disegno, ma anche il preludio del suo approdo: la fine delle speranze di pace per una porzione di mondo che non ha saputo meritarla.
[1] G. Preterossi, Da emergenza sanitaria a stato di eccezione politico? (29 aprile 2020), www.lafionda.org/2020/04/29/da-emergenza-sanitaria-a-stato-di-eccezione-politico.
[2] P. Le Billon (a cura di), Geopolitics of Resource War: Resource Dependence, Governance and Violence, London, 2005.
[3] Il Consiglio dell’Unione europea è l’organo in cui sono rappresentati gli Stati attraverso i ministri di volta in volta competenti nelle materie trattate. Nella composizione relativa alle decisioni sulla politica estera e di sicurezza comune (Pesc) prende il nome di Consiglio affari esteri.
[4] Nota predisposta dal segretario generale del Consiglio del 20 marzo 2023, n. 7632/23.
[5] Eda brings together 25 countries for Common Procurement of Ammunition (20 marzo 2023), https://eda.europa.eu/news-and-events/news/2023/03/20/eda-brings-together-18-countries-for-common-procurement-of-ammunition#.
[6] Nota predisposta dal segretario generale del Consiglio del 20 marzo 2023, cit.
[7] Decisione (Pesc) che istituisce uno strumento europeo per la pace del 22 marzo 2021, 2021/509.
[8] Da non confondere con il Consiglio dell’Unione europea: il Consiglio europeo si compone dei Capi di Stato e di governo e decide le priorità e gli indirizzi politici dell’Unione.
[9] Consiglio europeo di Bruxelles del 23 marzo 2023, Conclusioni.
[10] European Peace Facility: Causing harm or bringing peace? Joint Civil Society Statement (novembre 2020), https://protectionofcivilians.org/news/joint-civil-society-statement-european-peace-facility-causing-harm-or-bringing-peace.
[11] Proposta di Regolamento che istituisce la legge a sostegno della produzione di munizioni del 3 maggio 2023, Com/2023/237 final.
[12] Sono tutti Fondi richiamati dal Regolamento Ue 2021/1060, a sua volta richiamato dalla Proposta di regolamento del 3 maggio 2023, considerando 15.
[13] Decisione del 1. giugno 2023, P9_TA(2023)0208.
[14] Proposta di regolamento del 3 maggio 2023, Relazione e considerando 19.
[15] Proposta di regolamento del 3 maggio 2023, considerando 33.
[16] Proposta di regolamento del 3 maggio 2023, considerando 36.
[17] Alla Carta, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, il Trattato sull’Unione europea ha attribuito lo «stesso valore giuridico dei Trattati» (art. 6).
[18] A. Somma, Quando l’Europa tradì se stessa e come continua a tradirsi nonostante la pandemia, Roma e Bari, 2021, p. 111 ss.
[19] Proposta di regolamento del 3 maggio 2023, considerando 37.
[20] Proposta di regolamento del 3 maggio 2023, considerando 39 e 40.
[21] A. Somma, Si scrive europeismo ma si legge atlantismo. L’Unione europea nel conflitto tra Nato e Russia, ne La Fionda, 2022, 2, p. 57 ss.
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