Bisogna, forse, guardare al futuro. “Quella dell’accetta sui costi del palazzo è pressoché l’unica bandiera del Movimento delle origini che potrà essere sventolata e cavalcata se i Cinque Stelle arriveranno a Palazzo Chigi,” scrive Manuela Perrone su Il Sole24Ore. “Tutte le altre, a partire dal reddito di cittadinanza, dovranno essere ammainate: trattate, riviste, se non addirittura abbandonate. In nome della Realpolitik e soprattutto della tenuta dei conti pubblici.” In effetti, così repentina è stata la giravolta di Luigi Di Maio in senso pro-Euro, pro-Europa e pro-Nato, che l’ex guru cinquestelle Claudio Messora si è messo a fare lo Steve Bannon del Movimento, rinfacciando al candidato premier di aver abbandonato le sue radici populiste.
La cosa curiosa è che quando Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella pubblicarono La Casta, l’ormai proverbiale libro sugli sprechi della classe politica italiana, il M5S non esisteva ancora. Fu allora che il taglio dei costi dei bramini nazionale divenne mainstream, ma sembrava davvero una prerogativa della borghesia illuminata. Oggi, invece, il giornalismo liberal e i suoi lettori si dividono tra chi vuole ridicolizzare la battaglia anti-casta in toto, solo perché sostenuta da una forza eversiva nella forma e democristiana nella sostanza, e chi invece sembra dargli credito, forse con un tocco di ipocrisia. Ma il rischio non è quello di buttare il bambino con l’acqua sporca? Una volta identificato il dispositivo retorico messo in campo dai Cinque Stelle, cosa va detto di questi tagli alla politica? Sono veramente necessari e, soprattutto, opportuni?
Per rispondere a queste domande bisognerebbe innanzitutto valutare il peso effettivo dei costi della politica nell’economia italiana. Nel 2014 l’Istituto Bruno Leoni, di solida fede liberista, ha svolto un’indagine che lasciava poco spazio ai dubbi: “Con l’eccezione di Paesi di piccoli dimensioni o con basso reddito pro capite, l’Italia spende la più alta frazione rispetto al Pil, quasi un punto in più rispetto alla Germania, la Francia, la Gran Bretagna e la Spagna,” scriveva il relatore. Pesando per il 2,5 per cento sul Pil, i costi fissi della politica italiana posizionavano il Paese al sesto posto in Europa dopo Portogallo (5%), Cipro (4,5%), Ungheria (3,4%), Polonia (2,7%) e Austria (2,6%). L’Italia era poi seconda come spesa in valore assoluto, pari a 39 miliardi di euro, molto vicina alla Germania (42 miliardi), che ha però una popolazione e un Pil superiori, e molto lontana da Francia (25), Gran Bretagna (24) e Spagna (18). Un altro studio, commissionato dalla Uil nel 2013, faceva ammontare i costi della politica a circa 23,2 miliardi di euro, cioè 757 medi annui per contribuente, con 1,1 milioni di persone che vivevano direttamente di politica. Mentre Thomas Manfredi, Data Analyst dell’Oecd, ha scoperto come lo stipendio medio dei parlamentari italiani, confrontato col reddito medio nazionale, sia molto più alto di quello dei colleghi dei principali Paesi europei. Da qualsiasi punto la si guardi, l’Italia appare decisamente generosa con i tenutari di cariche pubbliche.
Ma la forza propagandistica del taglio ai costi della politica deriva soprattutto dal “sentire italico”: sono gli italiani ad aver messo i costi della politica in cima alle loro priorità. Un sondaggio, realizzato dall’Ipsos nel 2015, per verificare quale sarebbe stata la decisione prioritaria adottata dai cittadini se avessero potuto scegliere tra la riduzione del numero dei parlamentari, la privatizzazione di molte delle imprese pubbliche, l’abolizione delle province e la vendita di parte dei beni demaniali, ha mostrato che secondo gli italiani, tra le quattro soluzioni, quella che secondo loro avrebbe portato più risparmi per la finanza pubblica era la prima, la riduzione dei parlamentari. Una rilevazione più recente, del febbraio di quest’anno, il “taglio della casta” risultava il quarto tema indicato dall’elettorato come priorità, dopo la lotta alla disoccupazione, la sanità pubblica e la corruzione.
Probabilmente non si cade in errore se si pensa che i grillini hanno tanto insistito per questa crociata perché sapevano che sarebbe servita loro a recuperare lo svantaggio col Pd, che nel 2015 era di oltre 10 punti, e che nessuno meglio di loro avrebbe potuto guidarla.
In realtà sono quasi 40 anni che l’Italia prova a parametrare più ragionevolmente i compensi di chi si occupa della cosa pubblica. I successi sono piuttosto scarsi. La parola d’ordine è sempre stata “spendere meno e meglio”, ma i legislatori non riuscirono a far molto né nel 1983, poco prima che il socialismo craxiano facesse esplodere il debito pubblico (grazie anche a operazioni discutibili di investimenti pubblici al Sud), né nel 1997, quando per la Bicamerale e il tentativo di ridurre i parlamentari Massimo D’Alema si sarebbe stampato addosso il marchio dell’“inciucio”. Persino Mario Monti, l’incarnazione dell’austerità, tra il 2011 e il 2013 si concentrò perlopiù sulle pensioni lasciando quasi intatta la burocrazia politica. Infine arrivò Matteo Renzi, col suo “piano Cottarelli”, dal nome del suo estensore, che prometteva di far risparmiare allo Stato 34 miliardi nel triennio 2014-2016 senza intaccare il welfare. Nient’altro che un trucco di cosmesi, a sentire l’ex commissario, dimissionario, della spending review Roberto Perotti: “Tagliati 25 miliardi, ma sono state aumentate altre spese per la stessa cifra. E i costi della politica non sono scesi.”
La bravura della comunicazione Cinque Stelle è stata quella di ergersi a unici proprietari della Excalibur dei tagli alla politica. A questo stadio del dibattito, scrive sempre Dino Amenduni, “Tentare di inseguire i M5S sulla questione dei costi della politica non porta assolutamente a nulla in termini di consenso. È una loro battaglia e nessuno è più credibile di loro nell’affrontarla.” Del resto, contribuire all’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti nel 2012 non ha risparmiato il Pd dalla batosta del 4 marzo. I vitalizi per i nuovi deputati e senatori sono stati aboliti da Monti a fine 2011, ma ciò non ha impedito in questi giorni al deputato M5S Riccardo Fraccaro di invocare l’abolizione del vitalizio per gli ex membri del Parlamento: quelli cioè che lo hanno maturato prima che intervenisse l’abolizione. Si tratta di circa 190 milioni di euro, circa lo 0.2 per mille della spesa pubblica, e avendo un eventuale taglio effetti retroattivi, rischia di essere dichiarato inammissibile pure dalla Corte Costituzionale. Ma che importa? Anche in questo caso il meccanismo narrativo impone di calcare la mano sulla pazienza abusata dei cittadini e sull’urgenza dell’intervento moralizzatore. Questo succede perché soltanto in pochi, negli anni precedenti, hanno tentato di intervenire sul problema con reale trasparenza e rigore etico. Il sistema non ha saputo, o voluto, riformarsi da solo, ed eccoci alla deriva populista.
Al popolo però andrebbe fatto comprendere che questa casta è una fonte di sperpero piuttosto ridicola a confronto di altri voci di spesa nazionale. Anche le stime più preoccupanti sui costi della politica impallidiscono a confronto del conto da pagare per il Meccanismo europeo di stabilizzazione, comunemente noto come “fondo salva-Stati” (quota italiana: 14,3 miliardi di euro) e dal fiscal compact (40-50 miliardi di euro di manovra l’anno per raggiungere il pareggio di bilancio).
Ma persino la zavorra di cui sopra – che potremmo etichettare come “ce lo chiede l’Europa” – è poca cosa a confronto degli interessi sul debito che paghiamo annualmente: 66,4 miliardi solo nel 2016 (nel 2012 erano oltre 80). E va detto che, grazie all’ingresso nell’Ue, l’Italia ha beneficiato a partire dal 1995 di un notevole calo di interessi sul debito pubblico. A cosa poteva servire questo calo se non a finanziare misure espansive nell’economia? Abbattere il costo del lavoro, rilanciare l’occupazione e i consumi, stimolare investimenti innovativi. Tutto inutile: chi si è succeduto dalla metà degli anni Novanta in poi ha buttato questo piccolo tesoro al vento.
È lo stesso ceto politico, del resto, che parla di auto blu e scontrini dei sindaci, mentre lo Stato perde ogni anno, secondo il Corriere della Sera, 27 miliardi di gettito fiscale a causa dell’uso del contante; tiene in vita municipalizzate insanabili come Atac e compagnie zombie come Alitalia, che sprecano centinaia di milioni l’anno; sta facendo espandere sempre di più la Cassa Depositi e Prestiti con investimenti dai quali difficilmente vedrà grandi remunerazioni (vedi il caso di Tim), resuscitando in pratica la vecchia Iri: nient’altro che la vecchia politica dell’intervento statale diretto, e degli aiuti alle imprese che non lo meritano. Che andrebbe anche bene se oggi ci fosse una classe politica responsabile e non l’ideologia dei dilettanti allo sbaraglio. Verrà forse il momento in cui i grillini si renderanno conto che col taglio dei costi della politica si potranno pagare giusto un mese di permanenza nell’Unione Europea, sempre che la situazione economica non peggiori nel frattempo. Ma, in fondo, l’appeasement di Di Maio con i nemici di un tempo e le dichiarazioni “democristiane” del potenziale ministro all’Economia Cinque Stelle Andrea Roventini, fanno pensare sempre più a un Movimento interessato a resuscitare le pratiche confusamente dirigiste del passato, più che a cambiare realmente il famoso “sistema-paese”.
Le cifre in gioco non sono piccole, ma “I costi sono il frutto di molteplici voci di spesa, nessuna delle quali di per sé ingente,” conclude l’Istituto Bruno Leoni. Con qualche taglio “si potrebbe finanziare l’abolizione dell’IRAP, con benefici effetti sulla competitività delle imprese e l’occupazione,” ma non bisogna aspettarsi miracoli. La ragione più importante per cui di questi tempi la sobrietà va presa sul serio, dunque, non è tanto economica quanto etica. Sono rimasti davvero in pochi ormai a negare che l’austerity sia stata la causa primaria della bassa crescita dello scorso lustro: il colmo è che, in Paesi come l’Italia, è stata anche la conseguenza di una crescita fiacca e sbilanciata nei trent’anni precedenti alla crisi. Colpe su colpe, dunque, di una classe dirigente incapace di riformarsi. A questo punto, nel momento in cui persino i grillini fanno capire che chiederanno sacrifici al Paese, è giusto che le classi dirigenti diano il buon esempio. I numeri da circo non servono.
Il problema è che riformare le istituzioni, non solo politiche ma economiche, è complicato, soprattutto nelle democrazie parlamentari. “Ogni riforma è prigioniera di un paradosso,” scrive il politologo Sergio Fabbrini. “Deve essere fatta da chi ha tutto o molto da perdere dalla riforma stessa. [È] poco ragionevole aspettarsi che i tacchini vogliano anticipare il pranzo di Natale. […] Intorno a istituzioni consolidate si sono formati interessi, aspettative, abitudini che necessariamente ostacoleranno il cambiamento di quelle istituzioni.” Stessa storia ogni volta: con la riforma del mercato del lavoro, della scuola, o del welfare. In più c’è il problema dell’economia elettorale.
Tornando agli autobus di Fico: il dramma è che anche quando la spesa pubblica viene impiegata per mantenere il consenso nei modi più abietti – clientele e corruzione – spesso non vede come protagonisti loschi manager in doppiopetto che intascano mazzette, ma povera gente rimasta indietro rispetto alla globalizzazione: gli ultimi della società, che vengono tenuti a galla da un sistema reticolare di prebende ora in crisi. L’accellerazione paurosa della spesa delle amministrazioni pubbliche, iniziata negli anni Settanta e proseguita per tutto il corso dei Novanta, in un Paese sempre più in declino economico e con democristiani e comunisti che fronteggiavano la loro crisi identitaria, ora è un vago ricordo. Ma resta una forma di welfare “in nero”, non conteggiata da alcuna burocrazia statale, difficilissima da tagliare e impossibile da ignorare. Ci si potrà mai attendere, oggi, dal M5S, che ha conquistato il 50% di consensi in un sud arretrato in ogni settore della vita economica e civile misure draconiane di ristabilimento dell’efficienza? C’è da essere scettici.
Esistono di certo misure preferibili al taglio del welfare puro e semplice, se si vuole evitare la rivolta di un Paese stagnante e al tempo stesso fare qualcosa davvero in più, oltre all’eliminazione delle auto blu: tagliare la spesa improduttiva in quei settori che rallentano il Paese e non hanno più speranze di ripresa; razionalizzare e mettere in comune con l’Europa le spese militari; rendere più indipendente il servizio televisivo nazionale – che è un unicum in Europa occidentale in termini di condizionamento e malcelata adulazione nei confronti dei politici; evitare investimenti dubbi come quello su TIM, che sembrano più dettati dalla volontà ambigua del governo di assicurarsi una partecipazione strategica, piuttosto che dalla convenienza economica. C’è poi chi ha suggerito una patrimoniale sulle fondazioni bancarie, nonostante non brillino per efficienza, e che costringerebbe il settore a internazionalizzarsi sul serio. Ma non si capisce davvero perché tutto ciò dovrebbe essere intrapreso da una corrente populista che ha conquistato il 50% dei voti promettendo la luna nel pozzo agli elettori, e che dalle prime avvisaglie ha già fatto capire di voler governare in modo non dissimile dal vecchio governo Rumor.
L’attacco alla casta è insomma fatto quasi interamente di propaganda di scarsa consistenza, ma al tempo stesso è diventato inevitabile. Per quanto poco rilevante nel determinare le sorti del Paese, il peso simbolico della politica nel discorso pubblico ha raggiunto un livello tale da non poter essere più trascurato. I pentastellati hanno bisogno di portarlo avanti come carta jolly, per dimostrare all’elettorato di aver conservato almeno parte della loro essenza. Ancor più necessario se dovessero tornare al voto a mani vuote, e con lo sdoganamento definitivo dell’odiato Pd ormai avvenuto. È il loro legame profondo con ciò che sono stati, più che con ciò che saranno. È anche probabile che sarà una rivoluzione piuttosto garbata, che non intaccherà i privilegi fondamentali, e che servirà a occultare compromessi ben più ingombranti.
Centrosinistra e centrodestra potranno forse solo stare a guardare: solo i Cinque Stelle sembrano apparire al pubblico con un’immagine che al resto dei partiti sembra ormai negata. La domanda da farsi è fino a che punto la Terza Repubblica potrà ricorrere al dispendio di risorse pubbliche per andare incontro ai bisogni dell’elettorato: il candidato M5S al ministero dell’Economia, addirittura, vorrebbe attualizzare la spending review renziana. E se l’obiettivo del populismo fosse la creazione di un nuovo patto sociale, su una strada che prosegua sì verso i sacrifici, ma con un ricambio di volti e di linguaggi, l’ennesima illusione di rinnovamento, che plachi gli animi per qualche anno?
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