Trade War: requiem per l’ordine neoliberale?
di COMMONWARE
Giuseppe Molinari intervista Raffaele Sciortino
Nelle scorse settimane il presidente americano Trump ha annunciato l’imposizione dei dazi doganali su acciaio e alluminio, manovra decisamente in controtendenza rispetto alle politiche economiche e industriali portate avanti dalle potenze occidentali negli ultimi decenni. D’altra parte però, le mosse trumpiane rilette alla luce di alcune tendenze in atto in Europa – come la Brexit per un verso e alcuni richiami sovranisti per un altro: dalle destre emergenti all’indipendenza catalana – lasciano trasparire la crescente precarietà che segna l’equilibrio globale che si è dato negli ultimi decenni e ci spinge a guardare al ruolo che hanno altri attori in questo contesto. Lo scenario è tutt’altro che chiaro, le coordinate tutt’altro che tracciate e i processi restano aperti e fluidi.
Ne abbiamo parlato con Raffaele Sciortino, che abbiamo innanzitutto invitato a riflettere sulla natura della decisione di Trump: un tatticismo utilizzato per catturare il consenso di una certa composizione di classe degli Usa e per avvantaggiarsi rispetto ai principali competitor, come Cina ed Europa, o l’anticipazione di un mutamento dell’ordine neoliberale che mette in discussione la globalizzazione?
Non credo si tratti di un mero tatticismo a uso interno, anche se la componente interna c’è – ancor meno queste misure protezionistiche vanno lette come riprova di un presunto “isolazionismo” di Trump; ma neanche si tratta, come molti pensano, di un’aggressivizzazione verso l’esterno senza capo né coda dovuta al personaggio. Siamo di fronte a un passaggio, che potrebbe anche rivelarsi un punto di non ritorno, da inquadrare innanzitutto alla luce dell’impellenza per gli Stati Uniti di tracciare delle linee rosse contro alleati, rivali e avversari. Il punto è: come (ri)combinare l’esigenza di ricostruzione del fronte sociale interno, dell’unità della nazione, con la riaffermazione della primacy americana nel mondo. Un compito drammatico che segna la “sorpresa” dell’elezione di Trump, molto più di quanto non sia stato per la vittoria del change obamiano. Un compito che non è più possibile portare avanti al modo dei “globalisti”, anche a costo di rinunciare a una piena “egemonia” (intesa come ordine internazionale liberale condiviso o accettato dai subordinati grazie ai benefici, seppur differenziati, per tutti) a favore, appunto, della primacy (America first, ovvero pieno ed esplicito nazionalismo economico). Questo per tutta una serie di ragioni non contingenti: la finanziarizzazione non paga più come prima (come ritorni in investimenti e ricadute sociali interne, minor presa su altri attori, Cina in primis, caos indotto dalla crisi scoppiata nel 2008 e tutt’altro che risolta, per non dire del rischio non più lontanissimo della de-dollarizzazione di parte degli scambi mondiali) mentre i costi economico-militari dell’Impero crescono – anche qui, con ritorni decrescenti e una preoccupante perdita di efficienza militare nei confronti del dispositivo russo – e il fronte interno, impoverito e demoralizzato nelle componenti medio-basse, scricchiola, forse con linee di divisione anche tra i diversi stati dell’Unione. Il “fallimento” di Obama è stato, tra l’altro, quello di credere sufficiente l’exit strategy dalle “guerre di Bush”, ma i problemi erano ben più profondi come la crisi del 2008 ha messo in luce, la difesa dell’American way of life esige ben altro.
Con e attraverso Trump si gioca dunque una riorganizzazione della strategia complessiva, tutt’altro che indolore per le élite statunitensi e dagli esiti incerti anche rispetto alla stessa tenuta di questa presidenza. E però, a un anno dal voto e dopo molti annunci, un passaggio si sta dando. Trump ha cercato, tra oscillazioni notevoli e girandole di nomine, un certo modus vivendi con il complesso militare e il Pentagono senza, per ora, rinunciare del tutto all’idea originaria – di Brzezinski e Kissinger, tra gli altri – di separare Mosca da Pechino nonostante le pressioni del Russiagate. È vero, ha dovuto incassare colpi su questo fronte, ma non credo lo abbiano semplicemente “normalizzato”, ha capito che per un rilancio economico della nazione americana è indispensabile l’esercizio della minaccia militare. In secondo luogo, ha varato un piano di tagli alle tasse che gli ha riallineato in parte il partito repubblicano e le corporation e che, anche se poi questo aspetto è stato ridimensionato, puntavano anche ad avviare un diverso regime fiscale sfavorevole alle aziende straniere che portano fuori gli utili; oltretutto meno tasse per le imprese servono a compensare, grazie all’aumento degli utili e alle operazioni di buy-back permesse da una maggiore liquidità, il rialzo graduale dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve assai pericoloso per la Borsa (come si è visto col crash di inizio febbraio). E, detto di passaggio, è proprio sulla politica dei tassi in quanto leva fondamentale dell’impero del dollaro che bisognerà concentrare l’analisi di qui in avanti. Infine, arrivano le misure protezionistiche selettive che chiaramente hanno sia una dimensione interna, nel tentativo di incentivare l’inshoring di aziende e di presentare qualcosa di concreto alla cosiddetta middle class, sia una dimensione geopolitica (forse ancora più che geoeconomica) diretta, in diverso modo, contro l’Europa, per ora come avvertimento, e soprattutto contro la Cina. Torniamo così al nodo della strategia: gli States devono e vogliono alzare il prezzo e per farlo devono non solo agitare il bastone ma sbatterlo sul tavolo limitandosi a utilizzarlo direttamente, per ora, nelle situazioni di caos geopolitico indotto (vedi Siria, prima con l’uso dell’Isis, poi con l’appoggio ai kurdi, adesso divenuti merce di scambio con Ankara; e, attenzione, il bersaglio strategico di fase è sempre più l’Iran, come si vede anche dalla tacita alleanza tra il principino saudita e Israele). Direi quasi che sul breve-medio termine non importa se la politica di Trump riesca davvero a produrre modifiche sostanziali a vantaggio di proletari e ceti medi, quel che conta è che tali classi rinnovino la loro fiducia nella difesa della potenza statunitense, soprattutto, in ultima istanza, sul piano militare. La situazione generale, infatti, viaggia verso l’accrescimento dei conflitti che non si possono vincere senza un solido fronte interno, e quello Usa si sta davvero spappolando. Urge una mobilitazione dal basso in senso nazionalistico.
Insomma, direi che l’ordine neoliberale sta decisamente volgendo al termine e con esso la globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta finora, questo è il rischio che a Washington sono pronti e insieme costretti a correre. Il discorso è un tantino più complesso se ci riferiamo non a una modalità e al corrispondente ordine geopolitico ma alla globalizzazione intesa come internazionalizzazione strutturale della produzione, finanziarizzazione del mercato mondiale, capitalistizzazione dello Stato. Se questo tessuto, già del resto colpito dalla crisi globale, dovesse sfrangiarsi ulteriormente o decisamente fessurarsi, potremmo avere sia la formazione di blocchi regionali in competizione a scala, si noti, comunque mondiale (soluzione multipolarista vista come fumo negli occhi a Washington) sia una frammentazione vera e propria (eventualmente eterodiretta proprio dagli Usa). Del resto, il capitale come rapporto sociale tende di per sé alla globalità (da intendere come sussunzione di ciò che gli è esterno) ma per le sue contraddizioni al tempo stesso rompe in continuazione questa tendenza (di qui l’impossibilità di un superimperialismo o di un Impero).
Comunque sia, al momento Washington non vuole né può rinunciare al comando sul valore prodotto a scala globale, il suo è un tentativo in fieri di ristrutturare questo comando a fronte di difficoltà sempre maggiori dovute alla crisi della valorizzazione e al tentativo di altri attori di ricontrattare la distribuzione dei proventi complessivi del sistema.
In tutto questo il fattore di classe, che sembra assente dal “grande gioco” geopolitico, in realtà conta eccome, con smottamenti di condizioni e umori che per ora si esprimono in Occidente per lo più a livello elettorale – altrove il discorso è più complesso – ed è esso stesso vettore fondamentale della crisi di questa globalizzazione. Ma questo la sinistra europeista, moltitudinaria, identitaria, pluralista, dirittiumanitarista ecc., non riesce a vederlo e tanto meno ad accettarlo. Ma tant’è, è un sintomo dello spirito del tempo. Del resto, le dinamiche di classe in corso non possono non sembrare paradossali a chi ha sempre letto le lotte e i movimenti come vettori di uno sviluppo capitalistico destinato a crescere su stesso essendo condizionato da contropoteri, poi “diritti”, sempre più ampi. Ora questa dialettica, con la crisi sistemica all’epoca della sussunzione reale, si è rotta forse definitivamente, cambiano forme e percorsi della ripresa di classe, senza esiti scontati. Inutile, dunque, evocare gli anni Trenta del secolo passato, rispolverare ferri vecchi come l’antifascismo o cercare “identità” alternative a un proletariato oramai dato per perso. La crisi che si annuncia è epocale, di civiltà e la vera domanda utile sarebbe: che forma potrebbe avere un “secondo Sessantotto” – che quindi non sarebbe un ’68 – non scaturito da una fase ascendente del capitale ma da dentro la sua crisi e senza soccorsi democratici, riformisti, “progressisti” possibili? Questione assai complessa, l’unica cosa che mi sento di dire è che solo in relazione al futuro, e non con improbabili richiami al passato, è possibile orientarsi nel presente. Ma so anche che è un’indicazione poco soddisfacente…
Se stiamo assistendo alla messa in discussione della globalizzazione, quale ruolo giocano, rispettivamente, Stati Uniti e Cina? Quali sono le differenze tra i due paesi nell’agire nella crisi? Come pensi si possa evolvere questo conflitto e quali conseguenze può avere nel medio periodo nel contesto internazionale?
Sugli Usa ho sproloquiato abbastanza. Sono seduti su una bomba a tempo – a meno che sulla profondità della crisi globale ci siamo sbagliati alla grande – e devono farla scoppiare fuori, di qui il loro attivo ruolo “revisionista”. Se posso aggiungere giusto un’osservazione, il vero nodo di fondo – che vale particolarmente, ma non solo per gli States –, la vera questione è quanto sia possibile, all’altezza del corso attuale dell’accumulazione mondiale, de-finanziarizzare parzialmente il meccanismo complessivo, più precisamente: distruggere la mole di capitale fittizio accumulatasi, senza far saltare tutti gli assetti (geo)politici economici sociali culturali consolidati.
Quanto alla Cina, sembra un paradosso: oggi è Pechino a difendere il free trade! Ma è un paradosso che ha profonde radici strutturali nel modo in cui si è costruita negli ultimi quarant’anni la cosiddetta globalizzazione. In estrema sintesi, per l’industrializzazione del paese e la fuoriuscita dal sottosviluppo Pechino ha dovuto pagare pegno: l’apertura del mercato americano e poi occidentale in cambio di un prelievo permanente sul valore estratto alla classe operaia cinese che va a finire nelle casse o del Tesoro statunitense, attraverso l’acquisto delle obbligazioni statali Usa e le riserve in dollari, o delle multinazionali. Ma non bisogna neppure dimenticare che l’ascesa della Cina come potenza capitalistica è stata la nemesi della sconfitta operaia nel lungo Sessantotto in Occidente, dove ora non si sa come fermarla e, con la crisi del 2008, la reazione di classe – nelle forme “sorprendenti” del cosiddetto populismo – torna a farsi sentire. A Pechino – dove ancora si “studia” e non si sragiona a tre mesi – si è preso atto che il peculiare corso neoliberista sviluppista regolato dallo Stato, che fin qui ha avuto “successo”, non può continuare a lungo. Di qui i rivolgimenti nel partito, l’ascesa di Xi e la lotta alla “corruzione” ecc., alla luce della necessità di cambiare modello di sviluppo, non solo nel senso di un incremento del mercato interno – essenziale se la Cina deve assurgere al livello delle grandi potenze e, tra l’ altro, frutto della dialettica “democratica”, che lì ancora funziona, tra lotta di classe, capitale e Stato – ma anche di una estroversione economica che contrasti i piani occidentali. Di qui il progetto delle nuove vie della seta, i primi scambi internazionali senza il dollaro, la prospettiva di liberalizzare la moneta, la ristrutturazione dei mercati finanziari, ecc. Tutto ciò, finora, senza che si possa parlare di un vero e proprio imperialismo cinese perché mancano gli strumenti finanziari e perché è per ora interesse di Pechino – che ovviamente non per questo fa beneficenza in giro per il mondo – togliere spazi all’Occidente offrendo in America latina, Africa, Asia centrale, Russia e altrove condizioni economiche migliori e una prospettiva di reale “sviluppo” contro la “crescita” predatoria indotta dall’imperialismo occidentale.
Il nodo sul breve-medio periodo è come cambiare e autonomizzarsi dal link sentito come sempre più precario e oneroso con l’Occidente senza rompere il “giocattolo” della globalizzazione che fin qui ha pagato. Comunque sia, l’estroversione implica necessariamente che la Cina d’ora in poi debba esporsi di più sul piano geopolitico per rispondere, in particolare, all’accerchiamento di Washington che punta a impedire la formazione di una regione asiatica orientale imperniata su Pechino (le tensioni in Corea fomentate da Washington ne sono un esempio, ma la risposta tattica coreana e cinese è stata fin qui impeccabile). In prospettiva, lo scontro è inevitabile sui diversi piani ma non è dato, ovviamente, prevedere i passaggi concreti. Sarà importante, se la crisi globale procederà oltre, vedere quale dei due soggetti per primo risentirà in maniera decisiva di sconquassi sul piano interno: di nuovo si propone il nesso tra geopolitica e dinamiche di classe. Qui il nazionalismo, quello imperialista statunitense anti-“musi gialli” (che renderà molto meglio della crociata anti-islamica) e quello “difensivo” cinese, la faranno in un primo momento da padrone, si tratterà di saper leggere tra le righe se e come emergeranno istanze “di classe” in qualche modo capaci di dislocarsi oltre.
Sul medio periodo, molto dipenderà da come Pechino cercherà di ammansire Trump per guadagnare tempo. Lo stesso Trump non pare voglia uno showdown immediato, né gli Usa sono preparati a questo, ma certo punta a portare qualcosa a casa, cosa che la Cina potrebbe anche dargli, nell’immediato.
Le mosse di Trump avranno una certa risonanza anche nell’Unione Europea, visto che le esportazioni sono una voce importante del Pil europeo. Considerando, inoltre, che nei prossimi mesi la BCE ridurrà gradualmente l’impatto delle politiche monetarie espansive – politiche che sono state le bombole d’ossigeno per il sofferente sistema bancario ed economico dell’ UE –,quali pensi possano essere le conseguenze per la sua stabilità? Quali trasformazioni potrebbero darsi all’interno del continente europeo nell’equilibrio dei rapporti tra i diversi paesi?
È evidente che l’Europa è sempre più stretta in una tenaglia, tra l’“amico” americano e Cina e Russia, nonché divisa al suo interno. Non mi pare di dover rivedere le mie precedenti analisi su questo punto (https://www.sinistrainrete.info/europa/9443-raffaele-sciortino-l-europa-fra-trump-e-merkel.html e https://www.infoaut.org/approfondimenti/middle-ground-trumpiano-ricompattamento-europeo-e-smottamenti-geopolitici-la-crisi-dalla-ricerca-cooperativa-allo-scontro-competitivo): non si è in grado, a partire ovviamente da Berlino, di andare oltre la subalternità a Washington e di sfruttare utilmente la Brexit per il proprio rafforzamento e, a misura che non lo si fa, si rafforzano tutti i fattori che spingono per la destrutturazione. Queste ultime settimane, e non soltanto per la vicenda dazi, sono esemplificative dei nodi sul tappeto. Sulle misure per ora solo minacciate da Trump, Bruxelles si trova con armi spuntate data la dipendenza dall’export e può solo tentare di ricontrattare. Nel frattempo si accoda immediatamente alla manovra inglese contro Mosca (il caso Skripal mi pare una montatura britannica, forse con legami col fronte americano anti-trumpista in difficoltà per lo sgonfiarsi del Russiagate, sulla stessa Faz si avanzano i primi dubbi) mentre Berlino continua nel suo gioco molto… italico di fare finta di niente e siglare l’accordo su North Stream 2 proprio con Mosca (accordo che il Senato americano ha chiesto di bloccare). Sempre a Berlino salgono le tensioni commerciali contro Pechino. Macron, intanto, sigla un accordo militare con Londra, alle spalle della Germania, anche in risposta alla tattica dilatoria di Merkel nei confronti delle richieste francesi di addivenire a una qualche forma di riequilibrio nei conti economici inter-europei, richiesta alla quale Macron ha legato la propria tenuta politica. E nonostante le frizioni sempre più visibili tra il galletto francese e Frau Merkel, i due tornano, ovviamente uniti e solidali, a preoccuparsi della situazione post-elettorale italiana.
Mi pare che i fatti parlino da sé: se continua così si va verso un inevitabile dimagrimento controllato – l’Europa a più velocità, se non una vera e propria rottura, magari dopo una lunga agonia – anche tenuto conto delle scontate manovre americane anti-europee sui paesi est-europei, su un’Italia che non dovesse risolvere la crisi politica e sulla Spagna a rischio secessione catalana. L’amministrazione statunitense non vuole affatto abbandonare l’Europa ma riequilibrare con le buone o con le cattive il rapporto facendo pagare decisamente di più la sua “protezione” e coinvolgendola nella crociata anti-cinese e nella futura guerra all’Iran. Va poi ricordato che ha già vinto la battaglia contro le velleità dell’euro moneta internazionale, anche se sono stati stoppati i tentativi di far fuori del tutto la moneta unica con l’attacco ai debiti sovrani.
Quanto alla Bce, è vero che con il QE ha salvato probabilmente l’Europa da una crisi ancora più profonda, ma il costo oggi risulta salato: il sistema bancario non è realmente risanato, la liquidità è rimasta nei circuiti finanziari ad alimentare una bolla speculativa, i paesi del fronte Sud non sono affatto “risanati” e si trovano malmessi di fronte alla prospettiva della fine della politica del denaro facile, i disequilibri commerciali di quasi tutti i paesi nei confronti della Germania si sono ampliati, come dimostrano gli enormi saldi del sistema Target II, e si potrebbe continuare. Senza contare, ovviamente, le ricadute politiche e sociali rubricate sotto l’etichetta del populismo montante. Solo la Germania, ovviamente, potrebbe “salvare” l’Europa, di cui ha bisogno sicuramente, ma per questo una ridislocazione anti-Usa difficilmente è evitabile e comporterebbe lo sconvolgimento delle basi sociali e degli assetti interni complessivi che vanno decisamente oltre l’attuale quadro politico. Dietro i rivolgimenti geopolitici c’è sempre un riposizionamento dei fronti di classe (anche se non è detto che ci piaccia). Certo, Berlino non può cedere del tutto allo zio Sam ma il punto è: fino a quando sarà possibile continuare con la politica di stop and go? Trump, almeno, ha il merito di stracciare il velo dell’ipocrisia. Vedremo.
Lo scenario italiano vede una situazione di stallo istituzionale dovuta alla incapacità di formare un governo. Dalle urne sono usciti vincitori il Movimento 5 Stelle e la Lega, entrambe formazioni euroscettiche che dialogano per trovare una difficile intesa. Pensi che il possibile prevalere delle spinte “sovraniste” di entrambi i partiti possa ridefinire l’assetto europeo e, più complessivamente, possiamo pensare a delle ripercussioni sul mercato globale? Credi che possano crescere le frizioni tra l’establishment europeo e il venturo governo italiano?
Prima bisognerà vedere se il governo riescono davvero a formarlo! Quanto alle frizioni con la Ue ci sono già, per lo meno nella forma dei classici avvertimenti sui fondamentali economici, e non potranno che ampliarsi. Il voto italiano segna una decisa ridislocazione “di classe”: non solo fa mangiare merda a Renzi e Berlusca – già solo questo è una soddisfazione e, almeno per me, anche una discriminante rispetto a quanti si disperano per il successo della “destra” (quindi una grande coalizione sarebbe stata meno di destra di un eventuale governo populista?!) – ma più a fondo segnala la crisi di tutta un’impalcatura incentrata sulle politiche della “crescita”. E questo in un paese europeo che ha un peso specifico superiore alla Grecia, quindi non facilmente liquidabile (anche perché, per nostra fortuna, non abbiamo sinistri alla Tsipras).
Ora, al di là di un’analisi precisa di questo voto (a proposito, i sondaggi questa volta l’hanno azzeccata, l’italiano medio non nasconde più la sua scelta come faceva con Dc Berlusca e Renzi, anche questo un messaggio di insofferenza), mi pare di aver detto, non unico, con anni di anticipo – e senza la minima concessione al patetico “populismo di sinistra” – che i 5S incubavano questa dinamica, una dinamica nazionalista-sovranista con basi di classe (iper-proletaria, se vogliamo, quella stessa che si era bevuta la finanziarizzazione, sottomessa al capitale non per costrizione ma per convincimento e ora vorrebbe degli aggiustamenti), all’altezza della crisi globale che è anche crisi della globalizzazione. Ora i contenitori da noi sono due, con diversi programmi prospettive e referenti sociali, e già questo dice che siamo a un punto di non ritorno, anche se per ora in termini prevalentemente di cambiamento del ceto politico, cosa del resto che si vede dagli States al resto d’Europa. Senza fare previsioni, anche un ammorbidimento del programma elettorale di 5S e Lega, insieme o separati, non potrebbe non portare a uno scontro con Bruxelles e, a bocce ferme, il loro sarebbe un tentativo di quadrare il cerchio. Il punto però non è questo, il punto per noi discriminante è se si darà una reale spinta dal basso – per quanto confusa, “sporca” e poco “simpatica” – che è quanto a livello di massa è finora mancato nella crisi globale (a parte alcune eccezioni agli inizi, ma finite parecchio male, come nei paesi arabi e in Grecia: a proposito, ci manca un vero bilancio di questa prima fase!). Quanto e come possa poi incidere sugli assetti europei dipende da una caterva di fattori internazionali ad oggi non calcolabili. In assenza di una reazione dal basso, in Italia potremmo assistere invece a una dinamica di frammentazione e anche divaricazione territoriale tra Nord e Sud, già evidente nel voto. Il che, e non solo a scala italiana, non risolverebbe nulla neanche per il capitale. Tutte queste tendenze in Occidente sono destinate – se la crisi non verrà superata – a precipitare in forme e contenitori organizzativi che non sono certo gli attuali: un “secondo tempo” del populismo molto più “duro” destinato, proprio mentre potrebbe rivedere le politiche anti-crisi adottate finora, a portare ad uno scontro anche intra-europeo tra i diversi nazionalismi, i cui contorni non è forse difficile intravedere già oggi. Ma, attenzione, questo processo si darà intrecciato inestricabilmente con una antitetica ripresa di temi e battaglie classiste, con-fusa con esso per l’ambivalenza costitutiva di ogni resistenza al globalismo che non è ancora anti-capitalistica né è scontato che lo diventi. Possiamo solo prepararci, oggi, a questa nuova, inedita situazione che può durare, che so, venti-trent’anni come precipitare all’improvviso. Ma di preparazione “professionale” non ne vedo molta in giro, vedo tanti luoghi comuni e slogan ripetuti…
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